25 anni di pontificato

Un uomo generoso e un papato disastroso

  Franco Barbero

La gara è aperta. Chierichetti di destra e di sinistra, su tutti i video e su tutti i giornali (le eccezioni quasi non si vedono) stanno andando a gara nello “straparlare”, nel tessere elogi per questo pontificato che ”ha cambiato la storia”, “si è aperto a tutte le religioni”, “ha visitato tutto il mondo”, “ha parlato ai grandi e ai piccoli”, “si è esposto come un eroe della pace”. E chi più ne ha più ne metta. In tutto questo interessato esercizio di retorica ci sono parecchie omissioni, numerose menzogne, molte dimenticanze. In questo modo si fanno tacere i fatti.

La struttura della chiesa

Non voglio certo negare la generosità dell’uomo Karol Wojtyla e le sue intenzioni sincere. Non stiamo parlando di questo. La sua attuale sofferenza (a parte l’uso interessato e perverso che ne fa l’istituzione ecclesiastica) ci inclina al rispetto. Anzi, di Wojtyla mi è sempre piaciuta la passione, anche se quasi sempre essa è stata contaminata da una cultura del dominio e della spettacolarità.

I fatti ci dicono che in questi 25 anni il papa ha cambiato tutta la gerarchia, ma soprattutto ha azzerato la collegialità, soffocandola sotto la sua immagine imperiale onnipresente e sotto una curia vaticana onnipotente. I vescovi sono stati ridotti a “caporali di giornata” perché il minimo sgarro può segnare la destituzione, l’accantonamento o il prepensionamento. Gli ultimi “frammenti” del Concilio sono stati sepolti sotto una montagna di documenti vaticani.

Su questioni vitali per la testimonianza del Vangelo nel mondo di oggi (bioetica, etica sessuale, femminismo, ministero delle donne, possibilità delle seconde nozze, omosessualità, celibato dei preti, innovazioni liturgiche…) questo papato ha avuto l’arroganza di porsi come detentore della verità, lasciando in eredità una serie di pronunciamenti che potranno degnamente figurare nell’albo familiare del “cristianesimo criminale”.

Ha avuto la spudoratezza di presentare come modello, di proclamare “santo” Escrivà De Balaguer, un uomo autoritario, amico della dittatura, sessuofobico. Non parliamo poi di ecumenismo: si dialoga con tutti, ma da un trono sopraelevato. Il papato ha dovuto necessariamente “rifare i conti” con l’ebraismo, con l’Olocausto, con l’islam e le religioni asiatiche. Tutto è avvenuto con toni e linguaggi diplomatici, ma con l’incessante e sottile richiamo alla indiscussa “supremazia cattolica”. La teologia della compagnia, del “camminare alla pari” è stata totalmente disattesa. Così pure questo papato è giunto alla scomunica ufficiale (si pensi al caso del teologo Tissa Balasuriya) e alla defenestrazione sistematica di teologi, di preti, di operatori pastorali mentre ha promosso ai massimi livelli della curia romana un cardinale come Pio Laghi, grande collaboratore nello sterminio di giovani argentini invisi alla dittatura.

Il sospetto per la libertà di ricerca e di espressione ha determinato un atteggiamento sacrale (il sacerdozio al centro della chiesa) e tradizionalistico, sopprimendo la ricca pluralità della tradizione cristiana. Insomma… la “struttura wojtyliana” della chiesa ha prodotto un'amara macedonia, una velenosa miscela di patriarcalismo, di sessuofobia-omofobia, di sacralità, di repressione, di oscurantismo. Né possono bastare solenni confessioni dei peccati passati come “captatio benevolentiae” se poi non avviene una reale conversione.

Non si dica che ci vorrà un altro papato per riparare i guasti di questo “papa re e imperatore”. Potremmo trovarci qualche brutta sorpresa nei prossimi mesi. Il gioco della successione è in atto e non promette nulla di buono. Ma non spendo la mia speranza nel cambiamento del timoniere. Ci vuole ben altro: è necessaria, a mio avviso, una generazione di donne e di uomini che prendano in mano la gestione della propria fede, senza più attendere il permesso, l’autorizzazione o la benedizione della casta gerarchica. Da oggi, senza attendere un miracoloso domani.

Il mito del papa della pace

Questa è l’ultima favola: Wojtyla eroe della pace. Non mi sembra che un papato di pace avrebbe diviso la chiesa in chi è dentro e chi è fuori, in ortodossi e in eretici, in “naturali” e “contro natura”, in buoni e cattivi, in maschi che possono esercitare il ministero e in donne che debbono servire, in clero che comanda e laici che obbediscono… Non solo: un papa di pace non avrebbe toccato la mano, dato la comunione e benedetto un tiranno assassino come Pinochet. Gesù, quando incontrava i potenti, parlava chiaro. Se tutti ora partecipano ai festeggiamenti per questi 25 anni di pontificato, è perché, tutto sommato, anche i più criminali non si sono sentiti profeticamente attaccati ed evangelicamente sconfessati dalla retorica papale…

A Gesù i potenti hanno fatto ben altri festeggiamenti a Gerusalemme e sul Calvario. Restano le parole del papa nel corso dell’ultima guerra. Parole decantate da tutti come “straordinaria profezia di pace”. Il convegno annuale di “Missione Oggi”, mensile dei saveriani, svoltosi a Brescia il 17 maggio, ha analizzato le dichiarazioni delle gerarchie cattoliche sulla guerra. Le conclusioni sono chiare: le gerarchie cattoliche non sono pacifiste.

L’agenzia Adista, in data 7 giugno 2003, riporta le affermazioni di Massimo Tosco, uno studioso non sospetto: “Se le chiese non vogliono sfigurare il Vangelo devono testimoniare con forza la pace, senza addentrarsi in improbabili distinzioni, dalla legittima difesa alla necessità di disarmare i dittatori. Le gerarchie ecclesiastiche all’inizio non erano contro la guerra, ma solo contro la guerra preventiva. E anche successivamente, quando hanno 'radicalizzato' le loro posizioni, non sono mai riuscite a dire no alla guerra in quanto tale: basta leggere le dichiarazioni e gli interventi del card. Ruini, o i documenti delle associazioni e dei movimenti ecclesiali benedetti dalla Conferenza episcopale italiana come le Sentinelle del mattino” (cfr. Adista 25 e 28/03). Lo stesso Giovanni Paolo II, secondo Toschi,è su questa linea: “Il papa non ha mai pronunciato un no alla guerra 'senza se e senza ma'; ha invece sempre arricchito i suoi discorsi di sottili distinzioni ispirate alla dottrina della guerra giusta, come in occasione del discorso agli ambasciatori accreditati in Vaticano” (cfr. Adista 7/03). La novità sorprendente è che, “nonostante queste distinzioni, le parole del papa sono state interpretate come un no secco alla guerra dai cattolici, che non hanno tenuto in nessun conto i concetti della legittima difesa o della necessità di disarmare l’aggressore. Hanno invece, con molta semplicità, interpretato il Vangelo dalla parte delle vittime”, facendo passare anche il papa per un pacifista assoluto, il che non è vero.

La speranza che non muore

Oltre le ambiguità e i disastri di questo papato, resta intatta la speranza. La chiesa imperiale e il cristianesimo del potere sono giunti al capolinea. Le televisioni di tutto il mondo riempiranno gli schermi e diffonderanno ovunque le immagini di un funerale faraonico e di un conclave sacro e storico. Sarà uno spettacolo di grande smalto e di catturanti emozioni. Solenni liturgie in cui i grandi della terra faranno adeguata comparsa. I gerarchi vaticani, nelle loro porpore, annunceranno al mondo che lo Spirito Santo ci regala un nuovo “vicario di Cristo” mettendo sul conto di Dio la perpetuazione di una istituzione mondana e oppressiva come il papato.

Sono sicuro che anche nel cuore di qualche cardinale si fa strada una profonda inquietudine. Bisogna sempre ritornare a Nazareth, sui sentieri del Nazareno, riprendere il suo messaggio e il suo progetto di semplicità, di amore e di giustizia. Il resto appartiene alla storia dei potenti.

 

Pinerolo, 16 ottobre 2003