Per una chiesa della convivialità delle differenze

A) Ciò che fa problema in alto è l'esperienza comunitaria

Il vescovo fino ad ora non mi ha comunicato nulla e non ha accolto la richiesta di un dialogo con la comunità e con me. Cerco quindi di dialogare e spiegarmi attraverso queste righe. Esse, certo, non mi permettono di articolare un discorso, ma di procedere per accenni.Vorrei premettere che questo provvedimento va inserito nell'attuale momento in cui il Vaticano sollecita i vescovi a "vigilare". E i vescovi, in stragrande maggioranza, sono estremamente obbedienti. Ovviamente non è un "tapino" come me che rappresenta una destabilizzazione per l'istituzione ecclesiastica o per l'ortodossia. Chi mi conosce sa la pochezza della mia persona e delle mie azioni, la fragilità che caratterizza la mia vita, quanto riconosco di aver bisogno di tenerezza, di preghiera e di aiuto per perseverare sul sentiero di Gesù.

Ciò che allarma in alto è l'esperienza di comunità cristiane i cui membri, con tutti i loro limiti, sono profondamente inseriti nella ricerca biblica e teologica, nell'impegno sociale e politico, nel volontariato, nella difesa della laicità dello Stato e delle sue istituzioni, nella promozione della convivialità delle differenze. Sempre di più si tratta di comunità collegate tra di loro, nelle quali le donne hanno preso voce e spazio, dove le strutture maschiliste e autoritarie vengono radicalmente destituite di autorevolezza perché prive di rappresentanza reale, dove la "narrazione" della fede sta superando una visione dogmatica. A mio avviso, la gerarchia è turbata dal fatto che le piccole e fragili realtà di base hanno collegamenti costanti con centinaia di preti, con centri teologici, con molte esperienze interne all'istituzione. In più un lavoro collettivo di dialoghi, di viaggi, di traduzioni, di convegni, di scritti allarga orizzonti fino a pochi anni fa impensabili.

La nostra comunità, che non è nulla di grande o di esemplare, vive in rapporto di scambio, di dialogo e di amicizia con oltre 500 preti italiani e stranieri, con teologi e teologhe di varie chiese cristiane. Se penso al mio quotidiano vagare tra un gruppo e una comunità, tra una associazione ed un convegno, ringrazio Dio perché mi ha regalato tanti laboratori comunitari in cui imparare, ascoltare, crescere insieme nella fede e nell'impegno. Che bello vedere amori che nascono, sederci vicino per pregare, per studiare, per piangere di gioia o di dolore. Che bello sentire la forza ed il calore dell'abbraccio dell'uomo e della donna con cui cerchi i segni dell'amore di Dio in tante esistenze "sconfitte e maledette". Non capisco quando il vescovo mi ammonisce "circa la dottrina predicata". In modo assolutamente indegno ed inadeguato ma almeno sincero, io cerco di predicare il Vangelo, mai una dottrina. Questo ho imparato camminando con tanti uomini e tante donne. Non mi interessa nemmeno una nuova dogmatica o una nuova teologia. Cerco di lavorare perché fioriscano molte narrazioni della fede che amino confrontarsi con spirito accogliente. Non sogno né una comunità ideale in cui tutti la pensino alla mia maniera né mi ritengo migliore di altri.

B) Non nego affatto i principali misteri della fede

Su questo punto sento la necessità di esprimermi più compiutamente, sia pure nell'esiguità di questo spazio. Qualche accenno alla riflessione cristologica e trinitaria.

Le riflessioni che qui propongo vogliono evitarci di cadere nell'errore di chi non tiene conto della tradizione dogmatica che, ad una lettura storica, risulta comprensibile e, spesso, anche apprezzabile. Essa ha rappresentato un significativo modello di mediazione culturale dell'annuncio cristiano, per quanto parziale e provvisorio. Ho più volte sottolineato che "Nicea e Calcedonia, pur con tutte le loro ambiguità, hanno il grande "merito" di aver tentato di "tenere insieme" Dio e Gesù "nel senso che, per noi cristiani, Gesù è la via che conduce a Dio e la strada e la causa di Gesù sono la strada e la causa di Dio. Nell'esistenza storica del profeta di Nazareth noi incontriamo davvero il testimone di Dio, colui che ci manifesta la volontà, le scelte e l'amore con cui Dio ama" (1). Ma è del tutto evidente che, fermarci a tali formulazioni, significa imbalsamarle, mentre siamo chiamati a ridire la fede riscrivendola nei linguaggi del nostro tempo. Da queste constatazioni nascono la libertà e l'impulso verso nuovi sentieri.

In questo "maledetto" tempo ci sono non poche benedizioni per la nostra esperienza cristiana.

Il castello dogmatico, tutto perfettamente sagomato, definito e custodito (e perfino ferocemente difeso), lascia trasparire il peso dei suoi anni. La ripetizione di quelle formule di Nicea e Calcedonia, fuori dal contesto e dalla discussione che le ha prodotte, fa pensare ad una vera e propria imbalsamatura di Gesù, ad una fotografia della stessa vita intima di Dio (la Trinità ontologica e le sue operazioni). Infatti le "costruzioni teologiche sono 'case' in cui vivere per un tempo, con finestre semiaperte e porte socchiuse; diventano prigioni quando non ci consentono più di andare e venire, di aggiungere una stanza o di toglierne una o, se necessario, di lasciarle e costruirci una casa nuova" (1bis).

Per molti cristiani, sulla scia dell'insegnamento ufficiale, le formule dogmatiche cristologiche e trinitarie sono la fedele traduzione ed esplicitazione delle Scritture. Una parte, in verità molto consistente e pubblicizzata, delle trattazioni dogmatiche si esprime in questa direzione, senza lasciar spazio alcuno a quelle domande che emergono dalla consapevolezza della storicità del dogma, dalla "contingenza e parzialità" dei linguaggi e degli immaginari umani. Lo studioso Bernard Sesboué arriva a dire che "Nicea non è altro che una conclusione tratta a partire dal Vangelo" (2). Sia pure con sfumature diverse, questo è l'orizzonte ideologico assolutamente pacifico della manualistica più nota e del "Catechismo della Chiesa Cattolica" appena edito (3). La persona che percorre il suo itinerario di iniziazione cristiana normalmente introietta questo dato catechistico: analizza la Bibbia e spremila e ne ottieni il succo trinitario e cristologico ufficiale. Fuori da questo "spazio della verità" esiste il nulla o l'eresia. La visione storica dell'intrecciarsi continuo di mille ricerche e la permanente realtà plurale delle teologie cristiane vengono completamente rimosse.

Questa operazione continuista, un vero e proprio falso storico (4), trova ampia diffusione perché la censura vaticana pratica la sistematica persecuzione o emarginazione dei dissenzienti, ma anche perché la maggioranza degli intellettuali "laici", quando si addentra in argomentazioni religiose e in ambiti dogmatici, recita le formule del catechismo di prima comunione, con qualche abbellimento linguistico (Eugenio Scalfari in testa…).Così la versione televisiva e giornalistica è sostanzialmente papalina.

Come è squallidamente evidente in questi mesi, il martellamento e l'inquinamento giubilare cattolico sono presenti su tutti i canali televisivi, senza che arrivi alle nostre orecchie qualche consistente analisi critica.

L'illusione continuista ha una funzione inibitoria anche rispetto al futuro dell'esperienza cristiana. Se vengo abituato a nutrirmi di pillole dogmatiche anziché di proteine bibliche, se vengo defraudato del plurale, di quella comunione delle differenze, di quel ventaglio esplosivo, di quei mille frammenti (5) che caratterizzarono il movimento di Gesù fin dal suo nascere, la struttura della mia fede è esposta al rischio di identificarsi con quel solo modello, con pericolose tentazioni di possesso e di esclusività (6). Poste tali premesse, la mia tentazione sarà quella di leggere il mosaico delle Scritture con occhiali dogmatici. Ciò mi renderà molto più difficile gioire della perla preziosa delle mille diversità cristiane, della positiva "babelicità" che non necessariamente diventa contrapposizione. Come farò a dirmi che molto spesso è stata dichiarata "eretica" la posizione non funzionale al potere e, invece, è stata ufficializzata come verità di fede l'opinione del partito vincente? Che altro è l'ortodossia?

Né questa dottrina ufficiale può accaparrarsi il monopolio della tradizione. La tradizione cristiana, infatti, è anch'essa molto più ricca, molto più variegata, molto più viva, bella e plurale. Le teologie che hanno costruito la grande e contradditoria tradizione cristiana sono la smentita più sonora del monolitismo e dell'uniformità (7). Kueng, nel suo Cristianesimo, scrive così: "Se si volessero giudicare tutti i cristiani dell'età prenicena alla luce del concilio di Nicea (e delle sue interpretazioni), sarebbero eretici (almeno dal punto di vista materiale) non soltanto i giudeocristiani, ma anche quasi tutti i Padri della chiesa greci; essi, infatti, insegnarono con tutta naturalezza una subordinazione del 'Figlio' rispetto al 'Padre', che secondo il successivo criterio della definizione equiparatrice di una 'uguaglianza di sostanza', stabilito dal Concilio di Nicea, è da considerarsi eretica. Di fronte a questa situazione non si può evitare il seguente interrogativo: se invece del Nuovo Testamento si vuole elevare a criterio semplicemente il concilio di Nicea, chi nella chiesa antica dei primi secoli era ancora ortodosso ?" (Hans Kueng, Cristianesimo, Rizzoli, Milano, pag.112).

Se, ritornando più succintamente al nostro tema, osserviamo la questione cristologica nel lungo dipanarsi della matassa storica e teologica e poniamo attenzione al continuo "affanno" storico, esegetico e dogmatico attorno all'evento Gesù di Nazareth, ci accorgiamo che si tratta di una "ebollizione" mai sedata, di una ricerca incessante e mai paga del già "definito", del già detto. Attorno a Gesù, al suo ministero, alla sua funzione, alla sua persona, alla sua storia, al suo messaggio… la discussione non si è mai spenta. Ad onta di tutte le versioni ufficiali e di tutte le definizioni conciliari, le cristologie non sono mai diventate uno stagno, ma sono rimaste sempre un mare aperto, mosso e vitalmente attraversato da molte correnti diverse, ora visibili ora sotterranee, e da forti conflitti. Se gli stessi concilii di Nicea, di Efeso e di Calcedonia sono stati spazi di ebollizione mai sedata, l'ideologia del continuismo cristologico ufficiale nasconde un fatto storico oggi incontestabile: da Nicea a Calcedonia, e ben oltre, un concilio innesca la miccia che rende necessario un altro concilio perché il fuoco cristologico delle questioni irrisolte e controverse cresce di volta in volta. Ad un singolo concilio non riesce mai di esprimere compiutamente la ricerca pluriforme delle comunità, delle chiese, dei teologi, delle scuole teologiche e molti interrogativi ricompaiono puntualmente dopo ogni tentativo di sistemazione dottrinale.

Quello che Dio ha operato e manifestato nell'uomo Gesù di Nazareth sembra far scoppiare i nostri presuntuosi contenitori dogmatici. Il dibattito sulle teologie cristologiche e, conseguentemente, trinitarie sta esplodendo con grande vivacità e consapevolezza. Le grandi accademie dell'ufficialità cattolica, protestante e ortodossa continuano a recitare, difendere e reinterpretare le formulazioni dogmatiche di Nicea, Costantinopoli e Calcedonia, ma i più fecondi laboratori storici, esegetici e teologici sembrano aver "cambiato casa". Centinaia di teologi e teologhe lavorano in modo più sotterraneo, coraggioso e documentato in ben altre direzioni (8), valorizzando al massimo livello sia gli strumenti degli studi accademici, sia le domande poste dai credenti e, soprattutto, dalle credenti di oggi. Il giusto rispetto per le tappe del passato si congiunge alla responsabilità dei nuovi linguaggi con cui dire Dio oggi.

La "rottura culturale" che, come svolta profonda, ha segnato il nostro tempo "postmoderno" ha anche registrato l'irruzione di molti stimoli positivi: il dialogo ebraico-cristiano, il cammino ecumenico, le teologie della liberazione, le teologie femministe, il dialogo con le religioni, un nuovo fiorire di ricerche esegetiche, storiche e dogmatiche. Lo stesso Concilio Vaticano II ha rappresentato, pur con il compromesso delle formule che lo ha caratterizzato, un momento in cui si sono aperti spazi nuovi. La ricerca cristologica vive da almeno cento anni una stagione straordinariamente viva e feconda (9).

Dunque, pur in mezzo a guerre e drammi, anche se stretti da tutte le parti da una politica vaticana oppressiva, Dio non ha cessato di offrirci nuove opportunità. Voglio dire che tutto questo travaglio e questo fermento ai quali ho fatto cenno possono rappresentare un Kairòs. "Kairòs è un punto della storia in cui, a motivo della particolare costellazione di eventi e di personalità, sono latenti possibilità e progressi genuinamente nuovi. Esso non è soltanto una situazione, ma è anche una opportunità. Se lo perdiamo, perdiamo qualcosa di molto importante" (10). Se noi, al crocevia di queste rilevanti opportunità, non assumiamo la responsabilità che il Kairòs ci affida e ci rifugiamo nella ripetizione del passato, rischiamo di "porre la luce del Vangelo sotto il moggio e di rendere più difficile la fede nella buona novella" (11). Cogliere questo Kairòs significa per il cristianesimo , secondo questo orientamento di prassi e di pensiero, valorizzare "l'opportunità di crescere e di evolversi in maniera genuina e di comprendere il Vangelo in modo nuovo, in una maniera che permette alla potenza del Vangelo di continuare a brillare in forme fresche e più comprensibili" (12).

Noi, in questo passaggio, non stiamo "rompendo" con la fede dei nostri padri. Talune discontinuità teologiche non negano una sostanziale continuità nella fede.

Non stiamo nemmeno "inventando" un'operazione inedita. Nel corso della lunga esistenza del movimento di Gesù i linguaggi cristiani hanno più volte dovuto fare i conti con il mutevole contesto storico. Semmai è il fatto che noi oggi ci siamo fermati alle formule di Nicea e Calcedonia e le abbiamo imbalsamate a costituire problema. I nostri "padri" hanno cercato di dire per il loro tempo – in bene e in male – il cuore della loro fede. Noi, in un contesto completamente e radicalmente mutato, ci permettiano di ripetere pigramente quelle formule, storicamente situate e linguisticamente contingenti, figlie di una cultura e di un immaginario che abbiamo in larga misura alle spalle. Questo aggrapparci a tali formulazioni, come se esse fossero la fotografia della verità e delle reliquie intangibili, offende lo spirito di ricerca di quelle generazioni di credenti.

La genesi storica di quegli antichi linguaggi, sia pure con le ombre che i secoli non ci permettono di dissipare, ha ragioni ben comprensibili. Quando le comunità primitive entrarono nell'area della cultura greco-romana e persero progressivamente contatto con le loro radici ebraiche (13), le immagini mitiche e le categorie funzionali di "figlio di Dio" e di "incarnazione" furono ontologicizzate e trasformate in categorie assolute ed esclusive. Il linguaggio mitico, poetico, narrativo "si trasformò in prosa solida e passò da un metaforico figlio di Dio a indicare un metafisico Dio Figlio, della stessa sostanza del Padre" (J. Hick).

Oggi siamo diventati più coscienti che questi dogmi cristologici e trinitari hanno alle loro spalle una storia e si sono storicamente "costruiti", in bene e in male, anche in risposta a situazioni culturali, comunitarie, pastorali e politiche del tempo in cui furono redatte. Quindi lo schema trinitario che si è insediato nella dogmatica e nella liturgia va compreso ed eventualmente superato o reinterpretato a partire da questa consapevolezza.

Si tratta di un percorso storico e culturale che oggi molti studiosi e studiose hanno ricostruito con sufficiente chiarezza. Mi permetto di citarne uno tra mille: "Gli studiosi del Nuovo Testamento oggi sono tutti ampiamente d'accordo, compresi anche i più conservatori fra essi, che il Gesù storico stesso non insegnava che Egli era Dio Figlio, la seconda persona della Trinità divina, vivente una vita umana. Egli era profondamente cosciente che Dio era il Padre celeste, la sua vita (certamente durante i due o tre anni del suo ministero) era dedicata alla proclamazione dell'imminente arrivo del regno di Dio e alla manifestazione del suo potere negli atti di guarigione, era dedicata pure all'insegnamento di come vivere per poter diventare parte del regno che stava per essere stabilito. Egli probabilmente si considerava l'ultimo profeta, che aveva la missione d'essere l'araldo della fine di un'epoca. Forse si fregiò di uno dei due titoli principali che la tradizione ebraica offriva a colui che avrebbe ricoperto questo ruolo – quello del figlio dell'uomo che doveva giungere in gloria sulle nubi celesti, e quello del messia che doveva governare il mondo dal suo nuovo centro, Gerusalemme. Nessuno dei due ruoli, si noti bene, voleva indicare la divinità; entrambe le figure erano quelle di glorificati servitori umani di Dio. Ma è ugualmente possibile che Gesù abbia rifiutato tutte le identificazioni, e forse furono i suoi seguaci a conferirgli questi e altri titoli. Oppure egli avrebbe potuto usare il termine "figlio dell'uomo" semplicemente come un ebraismo, un termine che poteva essere rivendicato da chiunque.

Il titolo "figlio di Dio", che è diventato standard nella teologia della chiesa, probabilmente ebbe inizio nell'Antico Testamento e un uso più ampio si ritrovava nell'antico Vicino Oriente in cui significava servitore speciale di Dio. In questo senso i re, gli imperatori, i faraoni, i grandi filosofi, coloro che compivano cose strabilianti, e gli altri uomini santi erano comunemente chiamati figli di Dio. Ma quando il vangelo travalicò il suo ambiente giudaico verso il mondo non-cristiano dell'impero romano, questa poesia si trasformò in prosa e la metafora vivente venne congelata in un dogma rigido e letterale. Era per trovare un posto a questa figliolanza metafisica che la chiesa, dopo ben tre secoli di dibattiti contrastanti, si decise a teorizzare che Gesù aveva due nature, una divina e l'altra umana: attraverso quella divina era una sola sostanza con Dio Padre e in quella umana era una cosa sola con l'umanità – una costruzione filosofica così lontana dal mondo del pensiero e dell'insegnamento di Gesù stesso come in modo parallelo la dottrina buddhista mayahana del Trikaya, da quella dello storico Gautama.

Ma vi sono sempre state altre linee di pensiero cristologico, anche se le variazioni erano ufficialmente oppresse durante il lungo e relativamente monolitico periodo della cristianità medievale" (13bis).

Era naturale che le comunità primitive, nel contesto della nuova cultura, cercassero di esprimere la loro esperienza di Gesù con questi concetti filosofici e nel liguaggio degli assoluti (14). "Quei padri conciliari parlavano da cristiani, ma pensavano da greci", ma "noi non siamo obbligati ad accettare i presupposti filosofici e antropologici di quei concili greci come condizione di una fede viva…In essi l'uomo Gesù, ebreo di Nazareth, scomparve… . Inoltre, ciò che quei concili intendevano dire fu essenzialmente indurito e spesso distorto nella catechesi, nella predicazione e nella teologia" (15). Ecco perché diventa antistorico mantenere ossessivamente l'intangibilità di quelle formulazioni: "Il modello di Calcedonia non parla più in termini umani ed è di solito incomprensibile" (16). Basti pensare alla distanza che esiste tra l'attuale concetto di persona rispetto all'ipostasi del passato. Oggi, nella mutata costellazione dell'esperienza umana soggettiva e oggettiva, la dottrina cristiana delle due nature dà luogo ad una vera "fallacia ipostatica" con "il rischio di ridurre Gesù a un semplice manichino guidato da un burattinaio invisibile. In tale modo la cristologia dei Vangeli viene inserita in un modello a lei estraneo e di fatto la figura umana di Gesù è completamente falsata" (17).

Oggi, riprendendo un contatto mai completamente interrotto con molte cristologie di tutti i secoli passati, fiorisce una ricerca cristologica che non parte più dalla questione del rapporto tra le due nature in Gesù, ma da ciò che è centrale nella testimonianza dei Vangeli: Gesù è vissuto in una comunicazione profonda con Dio e , per noi cristiani, in forza della chiamata che Dio gli ha rivolto, in forza della missione particolarissima che Dio gli ha affidato, egli è il testimone, l'epifania, la icona, la sapienza di Dio, la parabola di Dio, il "figlio prediletto" (18). Egli è cresciuto in totale obbedienza e dedizione al regno di Dio. "Gesù non ha mai fatto della sua persona la realtà ultima e centrale…Gesù addita oltre se stesso, a un mistero carico di senso… che egli chiama "Padre più grande di me" (19).

Gesù, dunque, non è un semidio o un essere metastorico, una persona con due nature. Egli è esclusivamente uomo "e non ha alcuna maggiorazione che lo faccia diverso da noi. Gesù, perciò non ha rivelato Dio perché nella sua natura umana fosse divino, ma perché era stato reso così umano da diventare traduzione del progetto che Dio ha dell'uomo, era diventato così trasparente alla presenza di Dio da consentirne la piena manifestazione nella carne" (20).

Certo, tutto questo ad intra per noi cristiani, senza vantare nessun monopolio dell'epifania, delle testimonianze di Dio in altre vie di salvezza.

Ecco perché "è impossibile vincolare l'esperienza cristiana alla concezione teologica della divinità di Gesù " (21) e perché "identificare Gesù Cristo con Dio va oltre la testimonianza delle scritture cristiane" (22).

Sarebbe fuorviante pensare che questo orizzonte teologico "diminuisca" il ruolo e la rilevanza di Gesù nella nostra vita cristiana (23).

E' proprio Gesù che ha messo i suoi discepoli sulla strada della diocentralità. Il suo richiamarsi a Dio è profondo e costante.

Questa prospettiva, saldamente ancorata all'evangelo, che riconduce tutta l'opera e l'esistenza dell'artigiano e profeta di Nazareth nel servizio della signoria-regno di Dio, non diminuisce di un millimetro l'importanza essenziale di Gesù per un cristiano/a, ma fa propria la consapevolezza, felice e liberante, che il fenomeno cristiano non esaurisce il campo e l'azione salvifica di Dio.

Dio e la Sua salvezza sono più grandi anche del cristianesimo, sono più grandi di Gesù.

Ma, per preservare i nuovi linguaggi dalle diffuse patologie catechistiche, è importante sapere che nessuna cristologia è universalmente "parlante" e che di nessuna formulazione occorre fare un idolo. Le nostre elaborazioni restano sempre approssimazioni. Anche in teologia possiamo "innalzare idoli nel nostro cuore", come dice il profeta Ezechiele. Ma c'è di più: l'elemento decisivo è sempre, come ha fatto e insegnato Gesù, accogliere in noi l'amore con cui Dio ama il mondo e compiere la Sua volontà. Su questo terreno le diverse teologie, anziché minacciare l'unità della fede, la costruiscono facendone brillare i molteplici colori. Ma il problema non può essere rimosso: "Poche cose hanno contribuito all'irrilevanza del cristianesimo come la scuola di catechismo… La potenza originaria dei grandi simboli cristiani è andata perduta… Ora sono delle pietre di inciampo… L'impossibilità della persona moderna di comprendere il linguaggio della tradizione riguarda quasi tutti i simboli cristiani… Essi hanno perso il potere di trafiggere l'anima…" (24).

Non possiamo sottrarci a questo impegno di ridire, con parole sia vecchie che nuove, l'evento della salvezza, l'amore di Dio per questo mondo. Non si tratta di maledire le istituzioni ecclesiastiche, ma di accettare il rischio che la fede nel Dio di Gesù ridiventi la più radicale messa in crisi anche della religione e della dogmatica ufficiale (25). Senza mai dimenticare che, per noi, ciò che è decisivo non è la nostra cristologia, ma la sequela di Gesù nella vita di ogni giorno. La teologia vive a servizio dell'amore, oppure è parola vana, vuota dottrina.

 

Note (al punto B)

Sono costretto a citare soltanto alcune delle ricerche cristologiche più recenti data la natura del presente scritto. La bibliografia è quasi immensa.

(1) AA. VV., Gesù di Nazareth, CNT, Roma 1991, pag. 75. (1bis) SALLIE McFAGUE, Modelli di Dio, Claudiana, Torino 1998, pag. 49. (2) B. BESBOUE', Gesù Cristo nella tradizione della chiesa, Paoline, Cinisello Balsamo 1987, pag. 106. Sostanzialmente convergenti le opere di Alois Grillmeier, di Marcello Bordoni, di Bruno Forte e di gran parte della produzione protestante più legata al pensiero barthiano. (3) Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1992. (4) Fondamentali tutte le opere - ben note ai lettori – di Hans Kung, Eduard Schillebeeckx, John Hick e Paul Knitter. Si tratta di oltre quaranta impegnative pubblicazioni nell'arco deglil ultimi 30 anni. In particolare HANS KUNG, Cristianesimo, Rizzoli, Milano 1997 e PAUL KNITTER, Una terra molte religioni, Cittadella, Assisi 1998. (5) Si veda "La chiesa in frammenti" (Concilium 3/97); "La riscoperta di Gesù" ( Concilium 1/97); MAURO PESCE in Annali di storia dell'esegesi 14/97, pag. 11-38; ELENA LOEWENTHAL, Gli ebrei questi sconosciuti, Baldini & Castoldi; "Questioni non risolte" (Concilium 1/99); DAVID FLUSSER, Jesus, Morcelliana; SALVATORE NATOLI, Dio e il divino, Morcelliana, Brescia 1999. (6) ERICH ZENGER, Il primo testamento, Queriniana, Brescia 1997; J. HICK – P. KNITTER, L'unicità cristiana: un mito?, Cittadella, Assisi 1994; ROLF RENDTORFF, Cristiani ed ebrei oggi, Claudiana, Torino 1999; KARL JOSEF KUSCHEL, Generato prima di tutti i secoli?, Queriniana, Brescia 1996. Interessanti le riflessioni di Ortensio da Spinetoli comparse in riviste teologiche di base e le opere di Eugen Drewermann. (7) Si veda ADOLF HOLL, Gesù in cattiva compagnia, Einaudi, Torino 1991 (la prima edizione è del 1971); AA.VV., Gesù di Nazareth, CNT, Roma 1991; JON SOBRINO, Gesù Cristo liberatore, Cittadella, Assisi 1990; JULIE M. HOPKINS, Verso una cristologia femminista, Queriniana, Brescia 1996; E. SCHUSSLER FIORENZA, Gesù figlio di Miriam, profeta della sofia, Claudiana, Torino 1996; E. P. SANDERS, Gesù, Mondadori 1995; J R. GUERRERO, L'altro Gesù, Borla, Roma 1977; C. MOLARI, La fede nel Dio di Gesù, Edizioni Camaldoli 1991; di grande interesse ROBERTO DE MATTEI, A sinistra di Lutero, Città Nuova, Roma 1999, che registra il plurale della tradizione. (8) Si veda l'opera stupenda della suora e teologa cattolica ELISABETH A. JOHNSON, Colei che è, Queriniana, Brescia 1999. L'autrice rilegge tutta la dottrina trinitaria in chiave simbolica denunciando le deviazioni che la ripetizione delle formule conciliari ha causato e la loro inintelligibilità ed inadeguatezza per il nostro tempo. Nelle pagine di questo volume a più riprese viene illustrato il processo storico che ha portato alla costruzione del dogma trinitario, "un pensiero che fu elaborato in una cornice speculativa ellenistica" (pag. 387) e viene rilanciata la consapevolezza dei linguaggi allusivi, simbolici, analogici del nostro parlare di Dio per evitare di credere che i nostri linguaggi teologici "descrivano" la vita interna di Dio. Si veda JOHN HICK in "L'unicità cristiana: un mito?", op. cit. pagg. 104-105. In quest'opera si trova un vasto panorama bibliografico. Mi permetto qui di raccogliere alcune osservazioni di una notissima teologa protestante, J. M. HOPKINS, tratte dal suo volume "Verso una cristologia femminista" (op. cit.). Un libro assolutamente da leggere. Le riflessioni cristologiche al femminile vengono ripercorse con grande ampiezza e competenza. Molto vivace e coraggiosa la rimessa in discussione delle formulazioni di Nicea e Calcedonia, nella consapevolezza che "una cristologia dogmatica universale non è possibile" (pag. 24). "Le donne cristiane che formano la spina dorsale delle loro comunità... non credono più nelle dottrine cristologiche che odono ogni settimana esposte dal pulpito o liricamente descritte nel loro innario" (pag. 32). Calcedonia, con la sua formula del "vero Dio e vero uomo" può essere capita come "simbolo esistenziale" (pag. 97) dell'incarnazione del divino nella nostra umanità. La "dottrina della Trinità" per la nostra Autrice risulta essere un "dogma confuso" (pag. 103). Anche le formule di Calcedonia devono essere rilette come simboli e metafore: il dogma di Calcedonia, secondo cui Gesù era "vero Dio e vero uomo", può essere interpretato intendendo che Gesù era un essere umano veramente "divinizzato", cioè "invaso", guidato da Dio. "Gesù è importante soltanto se era pienamente e unicamente umano. Altrimenti parliamo di qualcosa-qualcuno che non aveva una relazione piena e unicamente umana con Dio, con le sue sorelle e i suoi fratelli" (C. Heyward, pag. 144). Per l'Autrice "la divinizzazione di Gesù cominciò quando nella missione i cristiani cercarono di dare espressione al loro senso della salvezza nel mondo greco-romano. In questo ambiente i miti discendenti e ascendenti di un redentore, l'apparizione degli dei in forme umane, animali o di spiriti, le speculazioni gnostiche su un Uomo Celeste o Divino e il culto dell'imperatore erano all'ordine del giorno" (pag. 147). Se il dogma di Calcedonia "è sorto come riflessione teologica sulla persona di Gesù di Nazareth e sull'esperienza salvifica di Dio che la sua vita, la sua morte e la sua risurrezione hanno generato fra i primi cristiani..." (pag. 150), noi oggi, interrogandoci sulla nostra comprensione di Gesù, possiamo formulare "comprensioni diverse" e usare altri linguaggi. La cristologia deve riscoprirsi plurale, con "molte sfaccettature" (pag. 171). "Non trovo che questa prospettiva faccia paura" (pag. 171). (9) Le ultime opere di Kung forniscono una bibliografia che abbraccia tutte le aree culturali. Si veda anche "La Teologia del XX secolo" di Rosino Gibellini (Queriniana) e JACQUES DUPUIS, Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso, Queriniana, Brescia 1997. (10) P. KNITTER, Nessun altro nome?, pag. 47. (11) IDEM, op. cit. Anche un'opera significativa (e fantasiosa per ciò che riguarda l'ipotesi dell'Autore) come quella di Robert Kisor (Giovanni, Claudiana, Torino 2000), che si colloca con coraggio sul piano esegetico e tuttavia cerca di non uscire dal "tracciato" dogmatico ufficiale, in realtà dimostra che la pratica tradizionale di piegare e usare l'esegesi biblica ai fini delal dogmatica sta diventando sempre più "faticosa", difficile e inconcludente. In essa, al di là della sottolineatura della divinità di Gesù, l'Autore riconosce (pag. 58) come pienamente accreditate dalle Scritture cristiane la "cristologia adozionista" e la "cristologia dell'inviato" che escludono radicalmente la possibilità di comprendere Gesù come Dio. Non solo l'Autore sottolinea, a più riprese, che Gesù è una "creatura divina" (pag. 32), "comunque subordinato al Padre" (pag. 40), "il figlio obbedisce al Padre" perchè il "Padre è più grande del Figlio" (pag. 73), "l'equivalenza funzionale di Dio e di Cristo" (pag. 81), ma riafferma che Gesù "è subordinato al Padre" (pag. 90), "gli è subordinato" (pag. 91) così tante volte da lasciar capire che si aprono vistose crepe nella concezione della divinità ontologica di Gesù e ci si può avviare verso una cristologia funzionale. (12) IDEM, op. cit. pag. 47. (13) Si veda GEZA VERMES, Gesù l'ebreo, Borla, Roma 1984 e AA.VV., Il Gesù storico, Piemme, Casale Monferrato 1988; H. KUNG, Ebraismo, Rizzoli, Milano 1994. (13bis) J. HICK - P. KNITTER, op. cit. pag. 105. (14) Si vedano gli studi di Christian Duquoc, Nicholas Las, J. Gonzales Faus, Meinrod Hebga, Karl H. Schelkle e molti altri. (15) EDWARD SCHILLEBEECKX, Perché la politica non è tutto, Queriniana, Brescia 1988, passim pagg. 52-60. (16) IDEM, op. cit. (17) CARLO MOLARI, in Rocca 15/12/1999, pag. 48. (18) EDUARD SCHWEIZER, Gesù, la parabola di Dio, Queriniana, Brescia 1996 e soprattutto il suo capolavoro "Gesù Cristo: l'uomo di Nazareth e il Signore glorificato", Claudiana, Torino 1992, pagg. 155-161. (19) F. NOCKE, Parola e gesto, Queriniana, pag. 165. (20) CARLO MOLARI, Rocca, pag. 49. (21) ST. SAMARTHA, L'unicità cristiana: un mito?, pag. 179 ss. (22) IDEM e Concilium 1/1997, pagg. 81-116; F. BARBERO, Le mammelle di Dio, Pinerolo 1999. Sono stupende le pagine che Ortensio da Spinetoli nel suo recente volume "Bibbia e Catechismo" (Paideia 1999) dedica al tema cristologico distinguendo nettamente Gesù da Dio. (23) Chi vedesse in queste prospettive "molti discorsi superficiali di cristologia" (Sergio Rostagno in Gesù, il Liberatore, pag. 46) si è confrontato davvero con essi? Qui non si tratta affatto di "rispolverare la contrapposizione tra un antico Gesù del dogma, che sopravvalutava la divinità, e un Gesù più umano e moderno". Nulla di più estraneo di questa contrapposizione che rappresenta una riduzione ed una grave semplificazione delle ricerche cristologiche alle quali ho accennato. Anzi un travisamento. (24) P. TILLICH, L'irrilevanza e la rilevanza del messaggio cristiano per l'umanità oggi" , Queriniana, Brescia 1998, pagg. 42-43. (25) Sarà bene porre attenzione agli studi di Maurice Sachot in "La predicazione del Cristo" (Einaudi, Torino 1999). Lo studioso francese vede nel processo di istituzionalizzazione del cristianesimo un passaggio dall'annuncio alla "verità decretata" (pag. 183). "La verità è decretata....ma questa è la definizione dell'ortodossia. Tale statuto della verità tramuta d'acchito un disaccordo dottrinale ...in una rottura istituzionale: l'eresia assume il volto dello scisma" (pag. 183). Il "colpo fatale" portato all'annuncio cristiano avverrà progressivamente quando gli enunciati dogmatici si presenteranno "in una sorta di blindatura sistemica che si configura inevitabilmente come discorso di autorità" (pag. 185). Molto stimolanti le riflessioni cristologiche di HERMANN HARING in Concilium 2/2000 (pagg. 137-154), di M. E. BOISMARD, All'alba del cristianesimo, Editrice Piemme, Casale Monferrato 2000, di MARTIN WERNER, Le origini del dogma cristiano, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 1997. Inoltre sono da ricordare le recenti pubblicazioni dei teologi cattolici HANS JOACHIM SCHULZ, TISSA BALASURIYA e ROGER HAIGHT.

C) Fuori dalla comunione con le chiese, le comunità ecclesiali e fuori della comunione con la chiesa cattolica?

Il fatto che io da febbraio a marzo abbia ricevuto l'invito a svolgere ben quattro predicazioni in una parrocchia della città e a svolgere due relazioni in un'altra parrocchia cattolica della Val Pellice dice espressamente che quando il vescovo afferma che il sottoscritto "non esercita più alcun ministero pastorale riconosciuto" o non è informato o mente. Inoltre il riconoscimento di un ministero non passa né esclusivamente né primariamente da una"missio canonica" ufficiale. Forse non è ministero ascoltare fratelli e sorelle, accompagnare singoli e comunità, dialogare su alcuni siti internet su tematiche inerenti all'evangelo?

D) Quanto alla questione della presenza di Gesù nella celebrazione eucaristica,

la nostra riflessione e il nostro cammino si propongono di rispettare la realtà ecumenica della comunità stessa, composta da cattolici, ex-cattolici, valdesi, cristiani senza chiesa. Come presbitero di una comunità ecumenica ho sempre aiutato i fratelli e le sorelle ad accogliere il dono della presenza realissima di Gesù in mezzo a noi senza portare l'accento sulle ben note diverse interpretazioni che sono oggetto di feconde ricerche anche nella chiesa cattolica. Quando celebriamo l'eucarestia abbiamo coscienza che Dio rende viva in mezzo a noi la memoria, il messaggio e la presenza di Gesù. Questa è la radice teologale comune: le diverse interpretazioni non impediscono l'unità delle fede anche su questo terreno.

E) Quanto alla maternità verginale di Maria,

mi sembra di poter tranquillamente ritrovare un ampio dibattito presso molte teologhe e teologi cattolici.

"La nascita verginale non appartiene manifestamente al nucleo centrale del Vangelo. Essa non soltanto non è esclusivamente cristiana, ma neppure ha un ruolo centrale nel cristianesimo. In altre parole: si potrebbe, come Marco, Paolo o Giovanni, confessare che Gesù è il messia, il Cristo o il Figlio di Dio, anche senza sapere nulla della nascita verginale. Ma che cosa significa ciò per l'oggi? Per l'uomo contemporaneo significa che la fede in Cristo non sta e non cade affatto con la confessione della nascita verginale.

Dovremmo perciò essere pronti a dare una risposta chiara al problema relativo alla realtà storica e al senso teologico della nascita verginale: la narrazione della nascita verginale non è il resoconto di un fatto biologico, bensì l'interpretazione della realtà con un simbolo originario" (H. Kueng, Credo, Rizzoli, Milano 1994, pagg. 50 – 51).

Il teologo cattolico Tissa Balasurya colloca la sua riflessione in un contesto più ampio: "Se Maria è immacolata nel senso che non ha macchia di peccato o tendenza ad esso, come può meritare alcunchè? Come può dirsi virtuosa? Come è lontana dall'essere imitata e seguita! Che donna è questa che non può essere tentata al peccato? Perfino Gesù fu tentato. Questa Maria non ha debolezze, non è fallibile: è in stato di giustizia originale. Questa Maria ha bisogno di essere liberata, per essere veramente umana. Ciò è necessario, per comprendere la sua vita, le sue lotte e le sue angosce. Altrimenti, avremmo una sorta di Maria disidratata, una che non può sentire altra attrattiva se non il bene.

Per rendere grande Maria nella Chiesa, noi l'associamo a queste qualità disumanizzanti. Si dice che essa è madre perfetta, perché non sente nessuna attrazione per la sessualità, cosa che la renderebbe più perfetta della normale condizione umana. Ma ci domandiamo: e' meglio per Maria essere immacolata o essere umana come le altre donne? E' possibile che Gesù abbia privilegiato sua madre, tanto da renderla non partecipe della condizione umana? E' meglio essere una madre vergine, che una madre ordinaria come tutte le altre? Che male c'è nell'essere madre per la via normale, dal momento che il Creatore ha così voluto? La nascita verginale non è forse una elaborazione teologica, sviluppatasi in un ambiente in cui la sessualità umana, il corpo umano e le donne erano considerate inferiori o non abbastanza onorevoli per Dio? Naturalmente la maternità è svalorizzata da questo modo di vedere.

Quanto alla perpetua verginità di Maria, essa è un insegnamento che non ha basi convincenti se non nel fatto che è una credenza tradizionale della Chiesa cattolica. E di nuovo essa ha relazione col peccato originale e con la ideologia della dominazione maschile. Poiché Gesù è presentato come salvatore universale e gli è attribuita la divinità, egli non potè mai essere visto sotto il dominio di Satana. E poiché il peccato originale è trasmesso dalla procreazione, era necessario per Gesù evitare la contaminazione del peccato originale. L'immacolata concezione assicurava che Gesù era libero dal peccato originale da parte di madre. La nascita verginale era un modo conveniente per preservare Gesù dal peccato originale anche da parte del padre. Ancora una volta la perpetua verginità di Maria ha relazione con le ideologie che tendevano a deprezzare la sessualità, in quanto avrebbe minato la santità di Maria. Ne consegue che:

a. Maria cessa di essere una madre ordinaria e il ruolo di Giuseppe è minimizzato o nullo.

b. Inoltre la perpetua verginità di Maria quadra bene con il concetto di una redenzione effettuata quasi ontologicamente (astrattamente) senza nessuna relazione con il suo insegnamento e nessun impatto con la società, che furono le cause della sua morte.

c. Si enfatizza il celibato ecclesiastico, considerato uno stato di vita più alto (Concilio di Trento).

Questo pregiudizio antisessuale ha caratterizzato non poco la spiritualità tradizionale della Chiesa e la sua disciplina. Il riflettere sulla nascita verginale di Gesù ha fatto deprezzare la normale espressione sessuale. Ciò vuol dire che una famiglia e una donna normale non possono trovare molta consolazione nella "Sacra Famiglia" e nella maternità di Maria dato che essa fu esentata dalle pene del parto, viste come punizione del peccato originale.

Le teologie femministe presentano in modo molto diverso Maria.

Molte affermano che l'enfasi posta nella sua verginità implica un degrado di un normale essere donna e madre e deve essere messa in relazione con l'ideologia patriarcale e gerarchica che non riconosce uguale personalità alla donna. Così Rosemary Ruether, che nel suo libro "Sexism and God-Talk", afferma che Maria viene esaltata, ma presentata come un modello impossibile. Questa enfasi ha anche contribuito a oscurare il messaggio di Maria nel "Magnificat" e il suo ruolo di donna povera, ma impegnata nelle lotte del suo popolo per una integrale, personale e sociale liberazione sulla linea di Gesù. Quanto più le donne avanzano nella consapevolezza dei loro diritti e della dignità della maternità, tanto più esse possono reclamare Maria come esempio e modello di una ordinaria umana maternità. Con una migliore comprensione di una spiritualità della creazione, ci potrà essere un più positivo approccio alla sessualità umana, al corpo e alle relazione tra i due sessi." (AA. VV., Quaderno di Viottoli n° 4 – Tonificanti profumi di eresia, associazione Viottoli, Pinerolo 2001, pagg. 18-20).

Il mio pensiero non aggiunge nulla a queste ricerche che circolano liberamente tra gli studiosi cattolici e nelle teologie femministe.

F) Nego il magistero cattolico?

Mi preme sottolineare che la configurazione attuale della struttura gerarchica, le sue attribuzioni e il metodo con cui viene esercitata l'autorità nella chiesa hanno davvero poche parentele con la testimonianza delle Scritture.

Oggi il magistero cattolico romano mi sembra aver assunto le forme più sfacciatamente mondane in contrasto con lo stile di Gesù.

Che nella chiesa ci voglia un ministero anche ordinato e che siano necessari la presenza e il servizio dell'autorità è per me pacificamente acquisito. Ma quando l'autorità viene esercitata come potere, autoritarismo, mondanità allora, a mio avviso, si tratta di un magistero privo della autorevolezza evangelica. Occorre resistergli per sollecitare alla ricerca di un modo alternativo dell'esercizio dell'autorità.

G) Io incurante di restare in comunione con la medesima Chiesa?

Penso proprio che il vescovo, con questo pesante giudizio, dimostri di non prendere sul serio quanto gli ho sempre detto con sincerità di cuore e quanto ho scritto a lui personalmente e nei miei ultimi libri: "il travaglio del regno di Dio e il soffio del Suo vento sconvolge le nostre perimetrazioni. Nessuna espressione comunitaria e nessun "modello" cristiano può presumere di incarnare il messaggio biblico del regno di Dio se si separa dal corpo vivo e contraddittorio delle chiese cristiane. E' fondamentale restare "dentro" questa gestazione evangelica, sia pure con le più audaci e umili forme di dissenso. Certo, il regno di Dio non è limitato dalle mappe ecclesiali e la chiesa non può intendersi solo come spazio riconosciuto dalle gerarchie. Non è più l'ortodossia il criterio di identificazione del cristiano, ma mai come oggi, anche dentro la chiesa, abbiamo bisogno di ascoltare umilmente, di resisterci a viso aperto, di parlarci anche con durezza, di praticare anche sentieri pastorali diversi, di analizzare lucidamente il ruolo di certe istituzioni, ma tutto questo senza spirito di scomunica, continuando a pregare gli uni per gli altri. Altrimenti si separa l'esercizio della libertà cristiana dallo spirito di comunione.

Questo sarebbe, a mio avviso, un divorzio negativo destinato ad impoverire la nostra fede. Ho sempre pregato insistentemente Dio consapevole di quanto sia impresa difficile tenere insieme libertà evangelica e spirito - prassi di comunione. Esiste, infatti, a mio avviso, il pericolo di enfatizzare talmente le esigenze della "comunione" ecclesiale da sopprimere del tutto o ridurre al minimo l'esercizio della libertà evangelica oppure di sottolineare talmente il valore della libertà evangelica da sottovalutare le esigenze della comunione cristiana.

Non penso che si tratti di usare il bilancino, ma di portare ben radicate in noi le due istanze, senza cercarne una composizione equilibrata, una formula valida per ogni tempo, ma piuttosto accettando un percorso mosso, conflittuale e accidentato, sempre imprevedibile, costantemente aperto all'azione trasformante di Dio. Dentro la nostra vita personale e comunitaria sia la libertà evangelica sia la comunione debbono, a mio avviso, sempre ripensarsi. Oggi, mentre si invoca molto spesso a sproposito la comunione ecclesiale per mantenere lo status quo nell'istituzione ecclesiastica e per continuare a praticare la sottomissione delle coscienze e vietare delle pratiche pastorali innovative, a mio avviso occorre sottolineare vigorosamente che non si favorisce la comunione nella fede se si riduce la libertà dei figli e delle figlie di Dio.

Comunione di fede e disobbedienza ecclesiastica possono andare d'amore e d'accordo" (F. Barbero, L'ultima ruota del carro, associazione Viottoli, Pinerolo 2001, pagg. 7-8).

Posso non aver fatto abbastanza, posso aver sbagliato, ma definirmi "incurante" è una aperta menzogna che un vescovo dovrebbe saper ritrattare.

H) E veniamo alle "celebrazioni di pseudo-matrimoni" attribuiti a don Barbero di persone omosessuali"

Già mi stupisce il fatto che vengano a me attribuite celebrazioni di matrimoni di cui, anche nella dottrina cattolica ufficiale, sono esclusivi ministri e celebranti gli sposi. E' vero che nelle mia comunità vengono celebrati durante l'eucarestia i matrimoni e le seconde nozze, come vengono accolte le celebrazioni di amore lesbico e gay. Siamo arrivati a queste scelte comunitarie dopo anni di confronti, di studi, di dialogo con le persone interessate e con numerosi teologi.

A noi preme, secondo l'insegnamento di Gesù, accogliere ogni forma di amore fedele e responsabile, ridire ai nostri cuori e testimoniare umilmente che dove c'è amore lì c'è Dio.

Quanto alle celebrazioni dell'amore fedele tra gay e tra lesbiche, la comunità prega con quelle coppie omosessuali che decidono di vivere insieme il dono dell'amore e della sessualità che hanno ricevuto da Chi li ha creati. Restando fedeli alla nostra coscienza, io e la comunità non ci prendiamo la libertà di correggere il Creatore, specialmente in presenza di una gerarchia che (rispetto ai gay e alle lesbiche è proprio il caso di dirlo) chiede perdono ai morti continuando a "perseguitare" i vivi. In ogni caso parlare di "pseudo-matrimoni" non è certo rispettoso delle persone dei gay e delle lesbiche nè della loro fede; ma sulla bocca di un vescovo purtroppo è normale.

I) Voglio credere che il vescovo di Pinerolo abbia scritto con profondo dolore e amarezza il comunicato che non abbiamo ancora ricevuto né io né la comunità. Ma perchè continua a rifiutare quel dialogo che noi abbiamo chiesto e mai respinto?

E' la via del "dialogo praticato" e non solo enunciato che può tenere i nostri cuori vicini anche quando talune nostre interpretazioni e taluni nostri pensieri sono lontani. Serena Corfù ha scritto spregiudicatamente "che forse anche parecchi inquisitori accendevano i roghi con dolore, ma le fiamme arrostivano lo stesso i malcapitati".

Noi, invece, abbiamo fiducia che, trascorsi questi giorni, prevalga in tutti la volontà di dialogo e che anche il vescovo accolga la proposta di incontrarci. Lo stiamo aspettando con fiducia e con serenità, certamente uniti nella ricerca della volontà di Dio sulla strada di Gesù di Nazareth.

Ci auguriamo che l'autoritarismo vaticano, che ha determinato questo intervento del vescovo, non gli impedisca di riprendere il dialogo con noi. In ogni caso, mentre continuerò come prete il mio ministero nella comunità e presso tutte le realtà che mi inviteranno, assicuro al vescovo che continueremo il nostro impegno nella chiesa locale, il nostro rapporto ecumenico con le altre chiese e le altre religioni e che continueremo ad amarlo come fratello nella fede.

don Franco Barbero (comunità cristiana di base di Pinerolo)