Questa pasqua non è un miracolo
La festa «del passaggio» come momento esemplare del processo rivoluzionario che sta investendo le religioni: la pace
Oltre il dogma imbalsamato, una esperienza anche politica che serve a chi non vuole arrendersi al patto tra potere e morte

ENZO MAZZI


Al punto in cui siamo occorre un colpo d'ala. Il riproporsi della guerra a livelli sempre più distruttivi impone di ripensare in profondità tutti gli aspetti della convivenza umana: economia, politica, religioni, relazioni. Bisogna gridare contro la guerra e contro l'ingiustizia, e gridare forte, ma non basta. E' qui la novità del nuovo pacifismo innestato sui Forum sociali. Come la guerra è il frutto compiuto del globalismo liberista, così anche la pace non può che essere il frutto speculare del globalismo sociale. La pace si presenta sempre più come un processo rivoluzionario capace di modificare in profondità tutti gli assetti sociali. Le stesse religioni ne sono investite sebbene ancora non se ne abbia sufficiente consapevolezza perfino all'interno dei movimenti nuovi. La Pasqua è un aspetto esemplare di questa trasformazione in atto.

La Pasqua fra guerra e pace.

Pasqua è un termine ebraico, pesah, trascritto in greco con la parola pascha che in latino s'intreccia col termine pascua il quale serve a indicare i pascoli. Significa letteralmente «passaggio». La festa di Pasqua nasce come grande festa della primavera di tipo agricolo-pastorale. Acquista poi gradualmente significati religiosi, storici, politici. Al fondo però mantiene sempre questo tema del passaggio: perdere una condizione e tendere a un'altra senza averla ancora acquisita. Come avviene per la natura a primavera. Quindi il passaggio a livello esistenziale è essenzialmente un vuoto. La simbologia pasquale cristiana è infatti segnata dall'assenza e al tempo stesso dall'attesa: il sepolcro vuoto e la speranza del ritorno.

Non è un quadro simbolico esclusivo del cristianesimo. Ogni religione ha riti che testimoniano una visione della realtà e della vita come fatidico passaggio. Che l'orizzonte simbolico sia legato ai cicli della natura, come nelle religioni animiste, oppure ai profondi flussi vitali dell'esistenza, come nelle religioni orientali, o al finalismo storico e trascendente, come nelle religioni monoteiste, si tratta sempre nella sostanza di marcare un'assenza, una tensione, un vuoto attivamente e creativamente recettivo.

Finché le religioni si ignoravano reciprocamente, ognuna, ingenuamente o per sete di potere, poteva credere di possedere la mappa esclusiva, unica vera, di tale decisivo passaggio. Anzi, la mappa cessava di significare il cammino e diveniva approdo, cioè soluzione dei problemi morali, patrimonio della verità, monopolio dei valori, dono della salvezza. E le religioni invece di spingere l'uomo e la società alla ricerca, invece di accompagnare il "passaggio", hanno finito per eliminare quel "posto vuoto" che nessun potere, nemmeno il potere religioso, può occupare senza defraudare l'uomo a cominciare dall'ultimo, il più assetato di "passaggio", di liberazione, di speranza.

Ormai però si diffonde ovunque, in tutte le fedi e tradizioni religiose, il senso di un'unità di fondo che è prima e oltre le differenziazioni. In luogo della contrapposizione religiosa s'instaura la ricerca di integrazione e cresce la valorizzazione reciproca su un piano di parità. Le religioni muoiono come depositarie del potere salvifico, come pienezza di verità, per rinascere unicamente come animatrici dell'assenza e dell'attesa, come testimoni del "posto vuoto": in linguaggio cristiano si direbbe «testimoni della tomba vuota», cioè della resurrezione. E' rilevante il fatto che nei Vangeli tomba vuota e resurrezione s'identificano. Le donne e gli apostoli non vedono mai la resurrezione come evento a sé, come rianimazione del corpo morto. Vedono solo l'assenza del corpo e le apparizioni in forma nuova e misteriosa, apparizioni variamente interpretabili, comprensibili anche come elaborazione dell'assenza e come esperienza di attesa. E' l'assenza, è il vuoto, la sostanza della resurrezione. Ed è sul riemergere di questo senso del vuoto nelle religioni che rinasce la speranza di un mondo pacificato. Non c'è vero ecumenismo senza riscoperta del vuoto. E non ci sarà mai pace sulla terra partendo dalla pienezza e dal dogmatismo. Ma le resistenze sono ancora molto forti. Anzi forse s'intensificano proprio perché viene avvertito incombente il processo di svuotamento. Il sangue che scorre copioso sulle frontiere religiose-nazionaliste-integraliste testimoniano di un'ultima feroce resistenza alla nascita delle religioni come passaggio. E attesta però ugualmente tale resistenza la violenza morale degli irrigidimenti autoritari di poteri religiosi che rifiutano di considerarsi fondamentalisti ma continuano a condannare, colpevolizzare, scomunicare, escludere.

La resurrezione tra perennità del sacrificio e annuncio di liberazione

Dare senso positivo a un apparente fallimento: questa sembra essere, dopo la crocifissione, l'ansia del movimento di cui Gesù faceva parte. L'originaria tradizione dell'esperienza pasquale è una reazione forte, creativa, di fede profonda di fronte al fallimento delle speranze messianiche. La crocifissione aveva colpito al cuore il movimento di cui Gesù faceva parte. Li aveva come uccisi tutti. Si sentivano defraudati della loro identità più intima, che era l'identità messianica. «Cristo», cioè «unto-inviato» per liberarsi e liberare, non era il solo Gesù, erano tutti loro insieme. La crocifissione li inchioda tutti. Ed è lì che scocca la scintilla di una fede capace di ridare senso nuovo a tale identità: «Cristo» vive. E sono loro stessi che tornano a vivere e a impegnarsi per il compito messianico. E Gesù resta in mezzo a loro perché l'amore è più forte della morte. E' qui, il succo della resurrezione. Ma questo processo di resurrezione innesca prima implicitamente poi sempre più consapevolmente un altro processo ad esso collegato: la glorificazione di Gesù e piano piano la sua mitizzazione e il suo distacco. E' lui in persona che risuscita, è lui che ritornerà, è lui che è morto e doveva morire per i peccati, è lui che viene glorificato, è lui che salva col suo sacrificio. Finché viene elaborata la dottrina della divinizzazione: Dio ha inviato il suo figlio unigenito proprio per offrirlo in sacrificio di espiazione a soddisfazione della sua giustizia infinita e infinitamente esigente. E nasce la fede in Gesù risorto come sequela, nasce il cristianesimo, s'innesta il connubio col potere.

Ma il vangelo della resurrezione ha alimentato sempre anche la fede nella fine della cultura del sacrificio e della violenza. Tale vangelo è stato riscritto creativamente innumerevoli volte da tutti i "crocifissi" della storia di questi due millenni: chi con fede religiosa-trascendente, chi con fede laica, chi con l'una e l'altra hanno rivissuto l'esperienza pasquale come speranza storica quale premessa di ogni altro adempimento ultrastorico. Noi riceviamo quella tradizione evangelica con tutta la densità storica e la duplicità di cui essa è carica. E non possiamo non compiere un faticoso lavoro di discernimento.

Finirla con l'idolatria del risorto

L'impegno di cristiani consapevoli può essere quello di completare oggi quello che manca a quella tradizione, di riscrivere oggi quel vangelo. Finirla con l'idolatria di Gesù, con la sua mitizzazione, con l'esclusivismo della sua figura. Finirla con la sequela obbediente. Finirla con il retaggio storico immutabile di peccato-sacrificio-salvezza. Attualizzare per la forza dello Spirito oggi da protagonisti, e non da seguaci pecore di un ovile di sacrificati, la valenza storica e non solo ultrastorica della morte/resurrezione di Cristo.

E' la teologia che oggi si esprime ad esempio a partire da esperienze attuali di liberazione come quelle delle comunità di base. Esse tentano di offrire elementi di consapevolezza per disinnescare l'ordigno esplosivo insito nel cortocircuito fra peccato-sofferenza-morte-salvezza. La morte di croce ha un significato storico. Gesù è stato crocifisso perché insieme ad altri alimentava la speranza di un mondo dove non ci fossero più crocifissi e crocifissori, vittime e carnefici, ingiustizie e guerre. Su questa terra e non solo in cielo. E' la vita di Gesù, i valori per cui lui ha vissuto, che dà significato alla sua morte. E' nella sua vita mortale e limitata la salvezza, come nella vita di tutti noi. Non nella sofferenza e nella morte considerate in sé come qualcosa di separato dalla vita, come una punizione per il peccato. La vita non è il mezzo per poter soffrire e morire e pagare così il prezzo del peccato alla giustizia infinita e infinitamente esigente di Dio. La vita e la morte sono una cosa sola. E la morte è immersione della vita nel mare della vita. E chi vuol chiamare in causa Dio, la cosa ci riguarda, sarebbe bene che tenesse conto di ciò che dice lo stesso Vangelo: «E' Dio dei viventi non dei morti».

Gesù "risorto" o Gesù "rinvivito"?

Festa, rito, tradizione, folklore: questa la cornice nella quale anche quest'anno per lo più è vissuta la Pasqua. Ancora una volta rimane in ombra il contenuto teologico della Pasqua e cioè la resurrezione/assenza di Cristo. Ritengo che una grave responsabilità per tale scadimento della Pasqua a festa e folklore sia della teologia dominante e della divulgazione catechistica che ha voluto come imbalsamare la resurrezione nel sarcofago del miracolo. «Gesù risorto» è stato trasformato di fatto in «Gesù rinvivito».

Forse allo stato delle cose non è facile percepire la differenza, ma c'è ed è grande. «Gesù risorto» può essere interpretato come esperienza mistica, spirituale, al limite se si vuole anche politica (la speranza dell'oppresso che non cede di fronte al supplizio e non si arrende al patto fra il potere e la morte). «Gesù risorto» può essere un'esperienza universale da attualizzare e rivivere in ogni epoca da ogni generazione e persona. Può costituire un contributo originale di senso, di comprensione e di accettazione positiva e creativa al dramma umano, e per chi vuole divino, che si svolge tra i due poli perennemente in tensione e sempre intrecciati della vita e della morte.«Gesù rinvivito» al contrario è sottratto all'esperienza umana. E' un miracolo eccezionale, anzi esclusivo. Serve al potere come strumento di dominio, ma non alla gente. «Gesù rinvivito» è un superuomo protagonista unico di una specie di sacra rappresentazione in cui l'intera creazione sarebbe coinvolta in forma assolutamente passiva. La resurrezione come miracolo che si trascina da duemila anni, imbalsamato nel dogma, perduto nelle nebbie dei secoli, non parla più neppure al bisogno di sacro. Se miracolo ha da essere, meglio le lacrime di sangue della madonnina di Civitavecchia o le guarigioni di Lourdes o i miracoli di padre Pio più attuali e più a portata di mano.

Se invece la resurrezione di Cristo è una tappa, un momento per quanto originale, della incessante ricerca umana e per chi vuole divina, allora può essere rimessa in gioco, può rientrare nella capacità di comprensione e di accoglimento delle coscienze attuali, può tornare ad avere un senso per il dramma umano perenne di vita-morte, anzi di vita che perennemente rinasce, di amore che costantemente si rigenera e si riscatta da ogni violenta aggressione.