RITRATTO SHOCK DELLA CHIESA ITALIANA: MUORE LA CRISTIANITÀ, VIVA IL CRISTIANESIMO

DOC-1413. ROMA-ADISTA. Nel corso del 2003 sono stati pubblicati i risultati di alcune ricerche socio-religiose su segmenti della popolazione italiana, a volte generici e a volte specifici, con il fine di saggiarne la dimensione religiosa (Indagine sul clero in Italia, a cura di Franco Garelli, Il Mulino; Il Dio relativo degli italiani, indagine Eurisko, la Repubblica, 22/6/03; Rapporto IARD sulla condizione giovanile, Il Mulino; Il volto giovane della ricerca di Dio, a cura di Mario Pollo, Piemme).
Lo studio più ponderoso è quello curato da Garelli attraverso un'indagine realizzata dall'istituto demoscopico Eurisko su di un campione di 800 preti (su di un totale di 37.000), distribuiti sull'intero territorio nazionale. L'équipe dei ricercatori non si fa tentare dalle sirene laudatorie, né da quelle denigratorie.
L'insieme delle ricerche socio-religiose apparse nel 2003 sembrano testimoniare non tanto l'esistenza di una crisi della Chiesa cattolica, cosa da ritenersi fisiologica in un organismo bimillenario, quanto l'incapacità di rispondere in modo coerente alle sfide che la coinvolgono.
Il medico e psicanalista Luigi De Paoli ha compiuto per noi l'analisi dei dati più significativi.

 

ANALISI COMPARATA DI QUATTRO RICERCHE SOCIO-RELIGIOSE
di Luigi De Paoli

1. Effetto-placebo dei sacramenti
Va innanzi tutto riconosciuto che le attività svolte dalle migliaia di Parrocchie e Diocesi sono molto variegate e che esse sono valutate in modo positivo dalla maggioranza dei sacerdoti. Si va dalla prevenzione mediante l'azione pastorale per coppie in crisi (54%), alla raccolta di denaro e beni da distribuire ai poveri (66%) e all'aiuto stabile ai poveri e famiglie in difficoltà (51%). Essi devono, inoltre, rispondere a varie richieste impegnative: di aiuto materiale e in situazione di disagio (62%); di momenti di socializzazione e di amicizia (53%); di formazione religiosa (52%). Consistenti sono anche gli impegni conseguenti al maggior coinvolgimento dei laici nella gestione dell'attività (70%) e all'accresciuta esigenza di approfondire la parola di Dio (73%).
La cosa veramente nuova che sembra emergere dalla suddetta ricerca è che mentre nella Chiesa italiana (ma solo italiana?) sono in crescita proprio quelle attività che non necessitano di per sé l'ordinazione sacerdotale, come quelle sopra menzionate, sono drammaticamente in calo quelle che, al contrario, la necessitano.
Infatti è proprio la dimensione cultuale-evangelizzatrice-morale del prete, quella per cui è stato "consacrato", ad essere in crisi, come confermano in modo inequivocabile gli stessi intervistati: "il 73 % rileva che i riti liturgici hanno perso la capacità comunicativa; il 58% incontra la difficoltà di dire una parola che interpelli le coscienze; il 58% osserva che non sono chiari i criteri di accesso ai sacramenti; il 57% si sofferma sulla difficoltà di proporre il Vangelo in una società multiculturale; il 69% denuncia la lontananza della gente dalla morale sessuale e familiare della Chiesa".
I redattori della ricerca scrivono, tra l'altro: i sacerdoti i-taliani "registrano un graduale depotenziamento del linguaggio religioso… la parola di vita sembra scarsamente in grado di interpellare le coscienze…i sacramenti perdono la loro significatività e rischiano di tradursi in riti svuotati del loro valore originario".
Lo stesso clero interpellato, mentre crede che la parrocchia sia una realtà impegnata più "nell'annuncio della parola e nella celebrazione dei sacramenti" (al 61%), percepisce che i fedeli vedono la parrocchia come un luogo di "educazione e trasmissione dei valori" (al 47%), se non come "luogo cui si accede solo nelle tappe fondamentali della vita" (al 40%). La parrocchia è vissuta come "una comunità di comunità" solo dal 13,5%.
Il dramma, dunque, che attraversa il clero si attesta proprio sui due fronti sui quali è stato professionalmente preparato e canonicamente "consacrato": quello dell'evangelizzazione e quello dei sacramenti.
L'annuncio del Vangelo è un'esigenza molto sentita, ma senza risposte. Il clero non è in grado di trovare il linguaggio adeguato per annunciare il Vangelo oggi (43%) o di annunciare una Parola di Dio che interpelli (58%). I due terzi (66%) si limitano ad attendere che i "lontani" si affaccino in parrocchia, al massimo coinvolgendoli nella formazione religiosa dei figli (41%), ben sapendo che anche i figli, terminata la catechesi, in maggioranza abbandoneranno la pratica religiosa. Sembra che i sacerdoti, scrivono i ricercatori, "abbiano abbandonato (se mai l'avevano assunta in precedenza) la logica della missione, per rifugiarsi nella più confortevole continuazione di una pastorale di cristianità che avevano ereditato".
Molto acuto è il problema dei sacramenti: diminuisce la pratica della confessione secondo il 47% e la frequenza alla messa domenicale per il 44%. Tutto ciò è niente di fronte al conflitto morale, pastorale e teologico che si apre ai preti oggi. La maggioranza assoluta degli intervistati (76%) è convinta che "non" si debbano dare i sacramenti a tutti, ma solo a chi abbia compiuto un adeguato cammino di preparazione. Questa stessa maggioranza (86%) afferma, però, di non aver mai, o quasi mai, negato il sacramento ai richiedenti, anche se convinta (83%) che gran parte degli stessi continuerà raramente il cammino di fede.
L'impressione che si ricava dall'insieme delle risposte è che il clero italiano usi consapevolmente la liturgia, i sacramenti e il culto come un placebo, intendendo per placebo una sostanza "inerte" (acqua o similari), che viene somministrata a chi soffre (malato) per un disturbo fisico-psichico, da chi ha un ruolo professionale (medico-sperimentatore), il quale ha il potere di fargli credere che sta assumendo una sostanza dotata di virtù terapeutiche. Va detto che ogni sostanza placebo è in grado di determinare un certo beneficio terapeutico grazie a quella "per-suasione suggestiva" indotta da chi ha un potere riconosciuto.
Lo stesso si potrebbe dire per i sacramenti: non è detto che essi siano privi di efficacia, ma certamente non possono essere segni della potenza liberante e salvifica di Dio dato che vengono somministrati sulla base di una suggestione magico-teologica indotta da un accreditato rappresentante del sacro, complice un credente che non intende sottoporsi ad un faticoso e realistico processo "terapeutico".
Non sorprende che i ricercatori scrivano: "Gli intervistati ci fanno capire, mostrando da questo punto di vista un sicuro attaccamento ai propri fedeli, che qualora fossero chiamati a compiere una scelta netta fra una Chiesa fortemente testimoniale e ben curata ma minoritaria e una Chiesa più dimessa e meno lucida nel proporre il messaggio evangelico, ma più accogliente e meno esigente, la maggior parte di loro opterebbe per la seconda".
Stretto nella morsa del dilemma, il clero non sceglie chiaramente: la maggioranza è consapevole che il cattolicesimo è destinato ad essere una realtà di "minoranza". Ma non intende rinunciare ai vantaggi di una Chiesa anagrafico-popolare-pseudosacramentale-rituale, anche se così facendo si chiude nel circolo vizioso di una prassi pastorale "placebo", che è contraria alla propria tensione ideale.


2. Senilizzazione ecclesiale
Quando al campione del clero italiano viene chiesto quali sono i problemi ecclesiali più rilevanti, tali da condizionare la missione della Chiesa nella società italiana, la maggioranza (53%) pone al primo posto "la crisi delle vocazioni sacerdotali". In effetti, su 37.000 sacerdoti solo il 7% ha meno di 34 anni; circa la metà è in età pensionabile (il 43% ha più di 65 anni).
Se si soppesa l'altro dato che vede le chiese italiane brulicanti di "teste grigie", allora si deve concludere che il cattolicesimo italiano, per la prima volta nella sua storia, si trova di fronte ad un processo convergente di "senilizzazione non solo clericale, ma ecclesiale". L'invecchiamento, infatti, non colpisce solo i leader religiosi, ovverosia i "quadri clericali a tempo pieno", ma l'intero corpo ecclesiale, dato che i fedeli praticanti restano, in maggioranza, gli anziani.


3. Il Dio relativo
Questi dati sono confermati dalla ricerca dell'Eurisko (pubblicata da "Repubblica" il 22-6-03), secondo cui cresce la percentuale di italiani che considerano "importante" la religione (si passa dal 31% del '94 al 38% del '03), ma senza che ciò si traduca in una più coerente prassi religiosa: la frequenza settimanale alla messa diminuisce implacabilmente dal 1985 (35%) ad oggi (29%).
Ma quello che impressiona è l'abbandono massiccio dei giovani compresi tra i 18 e i 24 anni: solo il 15,7% frequenta la messa domenicale, a fronte di un 50% di anziani.
I preti italiani percepiscono chiaramente che i giovani non entrano nei seminari, ma nemmeno nelle chiese. Se per un verso i sacerdoti dedicano molte energie alla loro educazione-formazione (40%), con punte del 64 % da parte dei viceparroci, dall'altro riconoscono di "notare una diminuzione marcata della presenza giovanile in parrocchia".


4. Il volto giovane della ricerca di Dio
Pur ignorando nel dettaglio le conclusioni del Rapporto IARD sulla condizione giovanile (Il Mulino, 2002), i preti ne condividerebbero le conclusioni, secondo le quali i giovani, pur considerandosi cattolici all'81%, si dichiarano disponibili ad un impegno religioso solo nella percentuale minima del 10%.
In un'altra ricerca promossa dal card. Camillo Ruini per sondare la religiosità dei giovani della diocesi di Roma, Il volto giovane della ricerca di Dio (ed. Piemme), il curatore Mario Pollo, dopo aver raccolto e trascritto le interviste di adolescenti e giovani romani, la metà di essi "appartenenti" ad associazioni ecclesiali e l'altra metà di "non appartenenti", rileva che tra gli adolescenti non-appartenenti (che a Roma rappresentano più del 90% della popolazione giovanile) prevalgono immagini negative della Chiesa, dei sacerdoti e delle religiose, sebbene abbiano frequentato il catechismo e frequentato la Messa domenicale. "Al vissuto, emotivamente positivo, dell'esperienza del catechismo non corrisponde un apprendimento altrettanto positivo… la maggioranza dei non-appartenenti dichiara di non ricordare praticamente nulla di ciò che allora aveva studiato… non ha vissuto, in passato, le celebrazioni liturgiche come un evento significativo.
Due amare considerazioni da parte dell'Autore illuminano l'inadeguatezza della pastorale giovanile:
- la prima è che per "la grande maggioranza, purtroppo anche degli appartenenti, la dimensione religiosa della vita rimane rinchiusa nell'alveo di una esperienza intima, personale e non si riflette sulla loro vita sociale e relazionale… La prospettiva del regno sembra essersi dissolta all'interno di una religiosità disincarnata dalla vita… la dimensione religiosa per la maggioranza degli adolescenti intervistati (60%) è poco o per niente importante nella loro vita";
- la seconda è che, sebbene quasi la totalità dei giovani non appartenenti abbia vissuto le tradizionali esperienze del catechismo, della preparazione alla prima comunione e dell'ora di religione a scuola, ciò "rende più complessa la comprensione del perché la loro fede religiosa attuale sia così discosta da quella della tradizione cristiana, visto che, oltretutto, la maggioranza di questi giovani ha un ricordo positivo del catechismo".


5. Relazioni endogamiche
Il cuore dei preti italiani non pulsa in direzione dei "lontani", dei giovani, o delle persone istruite. Le figure o i gruppi cui si sentono più vicini sono, a pari titolo (86%): 1) il papa e 2) i fedeli impegnati in parrocchia. Questo dato va inquadrato nella preferenza assoluta che i sacerdoti mostrano per il "recinto" clericale, pur con alcune contraddizioni.
- I due terzi leggono le lettere pastorali del vescovo (74%) e gli interventi del papa (52%).
- Solo il 17% si ritiene disponibile per una formazione permanente.
- Solo un prete su quattro (15-25%) fa di fatto riferimento con una certa continuità a fonti di informazione e di aggiornamento su temi religiosi diversi da un lato dai documenti della Chiesa ufficiale e dall'altro dal dibattito su questi argomenti veicolato dai mass media nazionali.
- Una quota rilevante (compresa tra il 40 e il 55%) dichiara di aver letto "poco o per nulla" libri e articoli di cultura sociale, testi prodotti da centri/luoghi di spiritualità, periodici di informazione religiosa, la stampa di associazioni e di movimenti cattolici.
- I programmi pastorali prevedono una priorità molto bassa per la scuola e il lavoro (4%), per l'impegno socio-politico (1%), per l'educazione alla legalità (1%).
- Sorprende che la metà "nel corso dell'ultimo anno non ha mai preso parte a corsi di approfondimento e di aggiornamento su temi che rientrano nel loro specifico ambito di competenza".
Non ci pare di essere distanti dal reale ipotizzando che la cultura di cui si nutre il clero sia "endogamica", tutta interna al sistema. Per endogamia intendiamo un costume sociale che può diventare legale, per cui i membri di un clan, di una casta o di una classe sociale non possono sposarsi con un "diverso". L'esplicita disapprovazione ad effettuare stabili accoppiamenti con soggetti estranei al sistema ha come fine quello di preservare la purezza e l'identità del gruppo. L'accoppiamento esogamico subisce un interdetto poiché si ritiene che ogni forma di generatività con l'estraneo sia da rigettare, in quanto impuro e contaminante.
Nel caso dei preti italiani l'estraniarsi da gruppi e persone non appartenenti alla "casta sacerdotale" è tale per cui nemmeno la stampa dei movimenti cattolici è ben accolta dalla maggioranza di loro, proprio perché non dipende dall'establishment ecclesiastico, mentre sono graditi i documenti papali, le lettere pastorali del vescovo e le riunioni del clero diocesano.
L'interdetto endogamico, però, esige un prezzo elevatissimo: garantisce una ortodossia apparentemente perfetta, ma impoverisce l'apparato genetico della "casta sacerdotale", al punto da menomarne le funzioni comunicative e relazionali, non solo con l'esterno, ma anche all'interno.
Tre dati: - nelle relazioni con i superiori, quello che più lamentano gli interpellati, in una percentuale drammatica (78%), è l'incapacità del vescovo locale di ascoltare e dialogare con i preti, con l'aggravante che solo il 17% si attende di essere aiutato da lui nel programma pastorale; - le relazioni tra parroci della stessa zona sono problematiche (secondo il 61%), a causa di una diffusa mentalità individualistica; - le comunicazioni con l'intero gregge dei fedeli è scadente: l'87% dei preti riconosce che "bisogna trovare nuove formule per coinvolgere la gente", e il 58% ammette "l'assenza di adulti dagli ambienti ecclesiali".
La struttura endogamica della casta sacerdotale sarebbe, di fatto, responsabile dello sbilanciamento pastorale della Chiesa cattolica, il cui tasso di pratica religiosa si restringe man mano che si passa dai bassi livelli d'istruzione (va a messa il 43%) a quelli più elevati (dove la percentuale si dimezza: 20%).
In sintesi, due punti: l'adesione alla fede cattolica sarebbe limitata a quelle persone (anziane, di bassa istruzione e donne) che richiedono un contatto poco coinvolgente e impegnativo; con gli "estranei" (maschi, istruiti e giovani) il rapporto stabile potrebbe comportare una messa in discussione delle fondamenta stesse della struttura endogamica (o castale) del sacerdozio attuale.


Fine della cristianità, inizio del cristianesimo?
Visto simultaneamente dall'interno, con la ricerca di Garelli, e dall'esterno con quelle di Eurispes, IARD e diocesi di Roma, il Tempio cattolico sembra alquanto decrepito. Innanzitutto per un processo di accelerata senilizzazione che investe sia i produttori del sacro che i suoi consumatori. I seminari sono semivuoti e le chiese sono sempre più deserte. Gli adolescenti spariscono dopo i regali della "prima" comunione e della cresima.
L'evangelizzazione, compito primario dell'ordine sacerdotale, rimane una pia aspirazione, in mancanza di un linguaggio adatto alla società attuale. La catechesi risulta disancorata da esperienze di fede. I riti perdono di significatività. Alcuni sacramenti sembrano eclissarsi (penitenza) e quasi tutti vengono dati con ambigui criteri pastorali, nel timore di perdere il grosso del gregge.
Il clima prevalente delle relazioni tra preti è segnato dall'individualismo; quelle con il vescovo dalla sordità di quest'ultimo; quelle con i tre quarti dei fedeli (i "lontani") da una rispettosa indifferenza.
Se a tutto ciò si aggiunge che le parrocchie, vere centrali operative della Chiesa locale, mostrano - salvo ben rare eccezioni - un totale disinteresse per l'impegno per la legalità e la formazione dei cattolici in ambito socio-politico, si è indotti a ipotizzare che la Chiesa, almeno italiana, non abbia gli strumenti culturali e spirituali per essere "lievito" e "sale", in una parola costruttore attivo del Regno. Il suo destino sarebbe dunque quello di essere collocata nell'angolo dei ricordi infantili, come suggerisce la ricerca sui giovani romani?
Se l'ipotesi che sia giunta a conclusione la "cristianità" sembra acquisita dalla maggioranza dei preti italiani, è pur vero che nelle loro valutazioni si fa strada un orizzonte con inedite e incommensurabili prospettive.
La considerazione più positiva che la Chiesa cattolica italiana sembra guadagnarsi, secondo i ricercatori, non proviene dal suo zelo cultuale-missionario-evangelizzatore, ma dal suo "impegno pubblico e sociale, che si esprime nelle battaglie per la legalità e la giustizia sociale che vedono protagonisti vari leader religiosi, nelle molte opere della religione che cercano di far fronte sia alle vecchie sia alle nuove forme di povertà, nell'azione costruttiva del mondo del volontariato, nei gruppi che assicurano sul territorio una proposta educativa".
Che tutto ciò porti ad una mutazione dell'identità sacerdotale è quasi fisiologico: al punto che alla domanda di "come si percepisce nell'attuale società", la maggioranza dei sacerdoti (52%) risponde come potrebbe rispondere un laico cattolico, cioè di essere "una persona che trasmette i valori in cui crede con la vita"; solo il 19% si "sente come un uomo del sacro in una società inquieta".
La novità più rilevante che sembra emergere dagli intervistati, è relativa alla Chiesa quale dovrebbe essere. Questa ha certamente poco in comune con quella attuale e, invece, sembra più quella delineata dalla Teologia della Liberazione. Infatti, quando deve delineare la chiesa "ideale", l'assoluta maggioranza del clero si inclina per due proposte sconvolgenti per lo status quo: deve "annunciare il vangelo nella sua radicalità" (75%) e ritiene che "la migliore forma di annuncio è farsi carico degli ultimi (86%).
Alla luce di questa Chiesa "ideale", la quasi totalità del clero italiano ha ragione di temere il crollo della vecchia struttura ecclesiastica, fondata sulla sacralità del sacerdozio e non su quella dei poveri, che sono la vera imago Dei. La stragrande maggioranza dei preti italiani - secondo le statistiche analizzate - sembra aver chiaro che le cose che contano per Dio non sono quelle formalizzate nei catechismi, nei dogmi, o nella liturgia.
Anni di pesanti indottrinamenti nei recinti dei seminari e di eteree liturgie non sono riusciti a cancellare dalla loro coscienza la scena del Giudizio finale della Storia, così come lo ha configurato Gesù, secondo cui i "benedetti del Padre" saranno solo quelli che lo avranno riconosciuto nella cura amorosa, gratuita e spontanea dei fratelli e sorelle senza pane, né acqua, né casa, né vestiti, né libertà. "Maledetti" saranno quanti hanno smaniato per accumulare denaro e potere, incapaci di andare incontro agli altri, e di lasciarsi toccare dalla vita.
In fondo i preti italiani hanno compreso che non serve a niente fare battaglie per avere scuole "cattoliche", miliardi di contributi statali per il loro sostentamento, insegnanti di religione pagati dallo Stato, se i cristiani non decidono di vivere secondo i sentimenti del Padre:"Religione pura e senza macchia davanti a Dio è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nella loro afflizione e conservarsi puri da questo mondo" (Gc 1,27).

da ADISTA  DEL 27.9.2003