Dossier sul movimento antiabortista "Armata Bianca" e il suo fondatore padre Andrea D'Ascanio

da ADISTA del 13.3.2004 n°19

L'ARMATA SBIANCA: PESANTI LE MOTIVAZIONI DELLA CONDANNA DI P. ANDREA D'ASCANIO

32238. L'AQUILA-ADISTA. Il paradosso è dirompente: padre Andrea D'Ascanio, al secolo Nicola, fondatore e capo incontrastato del movimento antiabortista "Armata Bianca", sacerdote cattolico e frate minore cappuccino, viene condannato in primo grado dal Tribunale penale dell'Aquila per un reato di grave entità: violenza privata nei confronti di tre persone. Dalla lettura delle motivazioni alla base della sentenza (depositate il 21 gennaio) emerge che l'imputato ha potuto commettere e ripetere questo reato proprio in virtù del carisma e dell'autorevolezza che deriva dal suo stato di sacerdote e religioso. Dal processo è apparso poi in maniera evidente come, durante le liturgie e le celebrazioni presiedute da D'Ascanio, venivano commessi gravi abusi liturgici, come confessare e comunicare bambini molto piccoli. D'Ascanio arrivava addirittura a pretendere rapporti sessuali dalle sue "adepte" vestito dei paramenti sacri. Eppure, anche dopo questa sentenza, nessuna autorità ecclesiastica ha ritenuto di dover prendere provvedimenti contro padre Andrea, nemmeno in forma cautelare, in attesa di una sentenza definitiva del Tribunale. Anzi, il processo ecclesiastico che, parallelamente a quello penale, la Congregazione per la Dottrina della Fede ha istruito nei confronti di D'Ascanio fin dall'anno 2000, ha portato, in primo grado, all'assoluzione del fondatore dell'"Armata Bianca" da tutte le accuse, con sentenza del 16/4/2002. Il dicastero vaticano non ha però potuto ignorare gli errori dottrinali contenuti nelle omelie e nelle pubblicazioni del frate; pur non riscontrandovi eresie, ha però imposto a D'Ascanio di sospendere la predicazione in pubblico per un periodo di sei mesi a partire dalla sentenza e poi l'obbligo di chiedere di volta in volta, per un periodo di altri sei mesi, la licenza di predicare in pubblico all'ordinario diocesano; ha inoltre imposto la consegna di tutte le copie a disposizione dei libri "Dio è padre", "Spirito anima e corpo" e "Battesimo dei bambini non nati" e di correggere gli errori contenuti nelle altre pubblicazioni prima di procedere a ristampe. È tuttora in corso la seconda istanza del processo. Ancora meno del Vaticano ha fatto l'ordine religioso a cui D'Ascanio appartiene. La Curia provinciale dei cappuccini dell'Abruzzo, contattata da Adista, ha confermato che nei confronti del leader dell'"Armata" non c'è stato, e neppure si prevede, alcun provvedimento disciplinare: del resto, hanno precisato, p. Andrea risponde del suo operato direttamente al generale dell'Ordine. Nessuna informazione dalla Curia generalizia: fino al 27/3 i cappuccini sono impegnati nel Consiglio plenario dell'Ordine.
Una conferma del sostegno di cui D'Ascanio potrebbe godere in Vaticano potrebbe venire da queste dichiarazioni fatte dal pubblico ministero (contenute nella copia degli atti della I udienza del processo, il 2/12/2001): "ci sono anche documenti sequestrati presso l'abitazione del D'Ascanio a dimostrare le dimensioni della potenza di questa associazione 'Armata Bianca', trattandosi di atti assolutamente segretissimi che certamente non potevano essere in loro possesso. Si tratta di documenti che fanno parte dell'istruttoria segretissima compiuta dalla Sacra Congregazione della Fede, atti che dopo l'istruttoria segretissima possono essere pubblicizzati, ma ben dopo la nostra acquisizione mediante sequestro. Questi atti non hanno nulla a che vedere con la corrispondenza con il suo patrono, don Ennio Innocenti [71 anni, prete della diocesi di Roma, di estrema destra, ndr], trattandosi di atti al quale il difensore non poteva assistere e non ha assistito".


La sentenza
"Soggetto a pulsioni sessuali irrefrenabili", "uomo che tende a imporre la sua volontà agli adepti anche attraverso comportamenti minacciosi" e paventando "mali terreni e soprannaturali in caso di disobbedienza ai suoi voleri", leader di una "organizzazione rigidamente gerarchica, nella quale sono in pochi, se non uno solo, a decidere, e nella quale valgono la regola dell'ubbidienza assoluta, acritica, al volere del capo carismatico, ed il vincolo di segretezza sui comportamenti tenuti; la pretesa arrogante di essere i soli depositari della verità rivelata, un fortino assediato dai mali del mondo, da difendere a tutti i costi, e quindi l'esclusione, di fatto, dal confronto con l'esterno, visto come un pericolo di inquinamento della propria purezza". Una figura "tutt'altro che degna di apprezzamento", che "non era il 'santo' che tutti credevano, ma una persona che dirigeva l'associazione a fini di potere personale, con metodi discutibili anche dal punto di vista economico, con deviazioni gravi anche dal punto di vista religioso e con profanazione dei sacramenti". Sono alcuni dei duri giudizi contenuti nella motivazione della sentenza emessa dal Tribunale dell'Aquila nei confronti di padre D'Ascanio. Depositata in cancelleria il 21/1/2004 (ma pronunciata il 25/10/2003), la sentenza condanna il frate cappuccino a 1 anno e 6 mesi di galera (con il beneficio della condizionale) per il reato di violenza privata nei confronti di tre donne; impone inoltre a D'Ascanio il pagamento delle spese processuali, dei danni in favore della parte civile e dei danni morali (fissati a 30mila euro).


La storia
La vicenda processuale di padre D'Ascanio comincia a maggio del 2000, quando l'autorità giudiziaria dispose numerosi sequestri sia nella sede del movimento "Armata bianca", presso la chiesa di Sant'Apollonia a L'Aquila, dove D'Ascanio era rettore (l'incarico gli venne tolto nel giugno 2000), sia in altre parti d'Italia e nella casa stessa del fondatore dell'"Armata Bianca". Varie persone avevano iniziato a denunciare, tra l'altro, strani riti (definiti "nozze mistiche"), in cui D'Ascanio aveva rapporti sessuali con le adepte della sua "setta" anche vestito dei paramenti sacri; inoltre dall'inchiesta emerse che il movimento organizzava spesso incontri di preghiera cui partecipavano anche i bambini di 3 o 4 anni, che venivano confessati e comunicati, e rilevò un contesto di ripetute violenze psicologiche sui membri della comunità affinché si uniformassero totalmente alla volontà di padre Andrea.
Alla fine delle indagini preliminari, il 30 maggio 2002, il magistrato aveva disposto il rinvio a giudizio di D'Ascanio e di altre 9 persone, con accuse che spaziavano dalla violenza privata (con l'aggravante dell'abuso di potere) all'associazione a delinquere, alla violenza sessuale che in un caso aveva coinvolto anche un minore. Condannato per il primo capo d'imputazione, D'Ascanio è stato però assolto dagli altri. Per quanto concerne l'associazione a delinquere, infatti, per il Tribunale "non pare si possa dire che gli imputati si siano associati allo scopo di commettere questi fatti. Si tratta, in verità, solo di trasgressioni compiute dal D'Ascanio". Nella sentenza è stata però completamente smontata la tesi difensiva, che tentava di accreditare la tesi del complotto contro D'Ascanio, che sarebbe stato ordito da alcuni fuoriusciti dall'Armata in combutta nientemeno che con il vescovo dell'Aquila mons. Giuseppe Molinari e alcuni settori della Chiesa.


Rapporti sessuali, ma senza violenza
Piuttosto articolata la questione delle violenze sessuali. D'Ascanio pretendeva di avere rapporti sessuali con molte delle "adepte" dell'"Armata Bianca". Diceva alle donne che loro erano state chiamate ad una importante missione: quella di salvare, tramite il loro sacrificio, una fetta di umanità (prostitute, peccatori, omosessuali, ecc.), liberandola dai demoni di cui è prigioniera. Durante questo rito di purificazione, che padre Andrea definiva "nozze mistiche", spesso il cappuccino indossava i paramenti sacri. Dalle molte testimonianze rese al processo da ex appartenenti all'"Armata bianca", tutte dichiarate attendibili dal tribunale, emergono molte e dettagliate testimonianze delle "particolari" attenzioni del frate francescano. Nonostante ciò il Tribunale non ha riscontrato gli estremi della violenza. Perché, si spiega nella sentenza, si è trattato "di atti consensuali, nei quali anzi le adepte si sentivano anche come privilegiate rispetto alle altre perché prescelte dal padre per una missione superiore ed incomprensibile alla natura umana". Potrebbe, dice la sentenza, esserci inganno e proditorietà da parte di D'Ascanio ma, mancando le querele sui singoli fatti, il Tribunale ha circoscritto l'analisi degli episodi unicamente all'ipotesi del reato associativo.


Il caso di P. L.
Particolare rilevanza, all'interno del processo, rivestiva il caso di P. L., che all'epoca dei fatti non aveva ancora compiuto quattro anni. È risultato evidente, dal dibattimento e dalle intercettazioni telefoniche, che il bambino veniva confessato e comunicato da padre Andrea. Per quanto riguarda l'accusa di violenza sessuale sul bambino, dice la sentenza, pur essendovi "elementi di carico evidenti" contro D'Ascanio, essi "non raggiungono quel grado di certezza, né sulla sussistenza dell'episodio, né sull'elemento soggettivo che consentano di portare ad una dichiarazione di colpevolezza". "Questo - si legge ancora nella sentenza - è l'unico episodio di tutto il processo in cui il Tribunale non è potuto giungere ad una affermazione di certezza, in senso favorevole o negativo per l'imputato". Del resto, dicono i giudici, "nel processo manca del tutto la prova che il D'Ascanio in altre occasioni sia stato attratto da rapporti sessuali con bambini". C'è però da precisare che le indagini che riguardavano presunti episodi di pedofilia da parte di D'Ascanio non iniziarono a partire da P. L., ma da fatti che avrebbero coinvolto altri bambini, i cui genitori, però, essendo seguaci dell'"Armata", dopo i primi racconti, non hanno più condotto i figli agli incontri con lo psicologo e gli inquirenti.


Il clima all'interno dell'"Armata"
Su tutti i fatti emersi nel corso del dibattimento aleggia il folle clima di intimidazione, violenza psicologica e cieca obbedienza a padre D'Ascanio, "il profeta". Per la violenza psicologica esercitata su tre persone in particolare, il Tribunale ha ritenuto ci fossero gli estremi per la condanna di D'Ascanio. Il clima che si respirava all'interno dell'"Armata" è ben descritto dalla sentenza: padre Andrea, si dice, "incuteva terrore negli adepti", minacciando "mali terreni e soprannaturali nel caso di disobbedienza ai suoi voleri, che in sostanza era il suo potere, come diretta espressione del padreterno, a comminare". Ciò che padre Andrea esprimeva, gli veniva "comunicato direttamente da Dio", "volendo con questo far intendere che egli, proprio quale unico interprete della volontà divina, spesso in contrasto con la Chiesa ufficiale, poteva influire su questo percorso". I membri dell'"Armata" erano in tutto e per tutto succubi della volontà di padre Andrea che aveva diritto di decidere sui comportamenti e le scelte di tutti, anche se si trattava di questioni minime, come il colore delle scarpe, il taglio dei capelli. A padre Andrea bisognava chiedere anche il permesso per fare un viaggio. E non sempre tale permesso veniva accordato. Un membro dell'"Armata", è scritto però nella sentenza, fu fortunato: "era preoccupato perché doveva chiedere a padre Andrea il permesso di tornare a Roma per dare un esame, e ricorreva all'aiuto di terze persone perché intercedessero per lui, cosa che puntualmente si verifica, ed il permesso viene infine concesso".
Se qualcuno disobbediva ai precetti di padre Andrea, oltre alle minacce di terribili pene sulla terra e nell'aldilà, veniva immediatamente emarginato dal gruppo. Eventi per la verità piuttosto rari, perché il "clima di esaltazione mistica" che circondava la figura di padre Andrea portava chi gli stava intorno a ritenere le sue parole un oracolo infallibile. Perciò, quando ad una coppia di adepti padre Andrea preannunziò che avrebbero finalmente avuto figli, i due non ebbero dubbi, anche se lei sapeva da tempo di essere sterile; la donna, "per otto mesi ha finto una gravidanza, anche mettendosi dei panni per far figurare la pancia". Suo marito rivelò al Tribunale che D'Ascanio ripeteva che era sufficiente avere fede; così lui "negava perfino l'evidenza scientifica, rispondendo all'ostetrica, che gli diceva che la moglie non era incinta, che il figlio sarebbe nato". Un episodio incredibile, che non si può certo spiegare con il basso livello culturale della coppia: dagli atti entrambi risultano essere laureati e impiegati in campo medico: "Nonostante questo - dice ancora la sentenza - si sono prestati ad una penosa pantomima, pur di non ammettere che padre Andrea aveva errato nel profetizzare la gravidanza".

 

 

L'ARMATA DI D'ASCANIO ALLE CROCIATE ANTIABORTISTE. SCHEDA DEL MOVIMENTO

32239. L'AQUILA-ADISTA. Nicola D'Ascanio è nato a Cosenza il 15 febbraio 1935. Entrò come novizio nei frati minori cappuccini nel 1956. Divenne frate pochi anni dopo, con il nome di Andrea dell'Aquila e fu ordinato prete nel marzo 1962. Dopo un periodo trascorso nel convento S. Chiara si trasferì in Puglia. Per vari anni visse come eremita.
A Taranto, il 24 febbraio 1973, il primo fatto di cronaca che lo porta alla ribalta: il cappuccino venne chiamato da Maria Teresa D'Abenante (discendente di una nobile famiglia tarantina, che allora faceva l'insegnante e divenne poi la più stretta collaboratrice di padre Andrea), a casa di Silvia Cosima Martucci, la quale riteneva che il figlio, studente di Medicina, fosse posseduto dal demonio. Mentre durante la notte tra il 23 ed il 24 febbraio il rito riguardò il ragazzo, nel pomeriggio successivo le attenzioni di D'Ascanio e della D'Abenante si concentrarono stranamente sulla Martucci, che venne chiusa in una stanza insieme a loro. Alla fine la donna morì: la perizia medica parlava di gravi lesioni interne causate dalla frattura di tre costole, emorragia al pancreas, ecchimosi sulla schiena, morte dovuta ad arresto cardiaco per compressione. Padre Andrea e la D'Abenante furono accusati di omicidio colposo. Condannati nel processo di primo grado, furono però assolti in appello. Prima della conclusione definitiva della vicenda per un periodo erano riparati in Svizzera.
Rientrato all'Aquila nel 1980 insieme alla D'Abenante e ad altri collaboratori, padre Andrea fonda l'"Armata bianca": scopo del movimento la crociata ad oltranza contro l'aborto, la lotta al comunismo (si noti la contrapposizione, fin nel nome, con l'"Armata Rossa" sovietica, contro cui le truppe controrivoluzionarie "bianche" combatterono dal 1917 al 1920), la diffusione del Vangelo nei Paesi dell'est, e l'evangelizzazione, specie dei bambini più piccoli: D'Ascanio, si era convinto, tramite il devozionismo della madonna di Fatima e la lettura degli scritti di Padre Pio da Pietrelcina (gli agiografi del movimento narrano un incontro con d'Ascanio in cui il neo-santo lo avrebbe spinto a fondare "l'Armata"), che la provvidenza avesse predestinato i bambini a salvare il mondo. Per D'Ascanio, quindi, la formazione religiosa dei più piccoli era considerata cruciale per la missione divina cui era stato chiamato. Non stupisce perciò che la crociata contro l'aborto vedesse l'"Armata Bianca" in prima fila. Il movimento era anche riuscito ad aprire delle convenzioni con alcuni ospedali (a Novara, a Vercelli, all'Aquila) per poter ottenere i feti abortiti così da celebrarne il funerale e procedere con la sepoltura dei "piccoli martiri". A loro l'"Armata" dedicò nel 1991 il monumento "Ai bambini mai nati"; poi vennero le accuse da parte di ex appartenenti alla "setta" che hanno portato al processo di primo grado ed alla condanna di D'Ascanio (v. Adista n. 3/2002).

 

 

L'AVEVAMO TANTO ARMATA. TUTTO IL SOSTEGNO DEL VESCOVO PERESSIN

32240. L'AQUILA-ADISTA. Nei suoi anni di attività a L'Aquila, padre Andrea D'Ascanio ha potuto operare liberamente soprattutto grazie al sostegno incondizionato di mons. Mario Peressin, vescovo dell'Aquila per ben 15 anni, dal 1983 al '98 e morto nel 1999. Fu Peressin ad affidare a D'Ascanio la rettorìa della chiesa di Sant'Apollinare, a L'Aquila; lui a sostenere l'edificazione, nel 1991, di un monumento al "bambino mai nato" (con tanto di lapide "Ai 50 milioni di bambini che ogni anno nel mondo vengono uccisi dall'aborto"), promossa proprio da "Armata Bianca" ed alla cui inaugurazione (il 28 dicembre, il giorno in cui la Chiesa ricorda la strage degli innocenti compiuta da Erode) parteciparono Franco Zeffirelli e Carlo Casini (presidente del Movimento per la vita); sempre lui a tentare ripetutamente di dare, a livello ecclesiale, un'approvazione ufficiale al movimento del frate francescano.
Nel Bollettino diocesano del maggio '97, Peressin annuncia infatti che l'Armata Bianca "dopo aver tanto lavorato e sofferto nel suo impegno apostolico per i bambini, per la vocazione mariana, per la difesa della vita e per aiutare i cattolici negli ex Paesi comunisti, sta per ricevere la sua prima approvazione ufficiale, con regolari statuti approvati dall'autorità diocesana". Nel bollettino del gennaio '98 Peressin continua a difendere l'opera dell'Armata Bianca, ma sull'approvazione dell'"Armata" è meno fiducioso, anzi, è costretto ad ammettere che in Vaticano ci sono ostacoli a ottenere il permesso per il riconoscimento ufficiale: "Per quanto riguarda Padre Andrea D'Ascanio, l'arcivescovo, in vista di un eventuale loro riconoscimento ufficiale da parte della Chiesa ha preso il frate alle sue dipendenze. Allo stesso tempo l'arcivescovo ha sottomesso all'esame della Santa Sede tutti gli scritti di Padre Andrea, in modo da chiarire punti controversi. Del resto lui ha sempre desiderato di sottoporre al supremo giudizio della Santa Sede non solo la sua persona, ma anche le sue attività religiose ed apostoliche. Aspettiamo, quindi, tutti con serenità e con fiducia le indagini della Chiesa". E infatti l'approvazione non arrivò.
Di più, l'1 maggio '98 il Vaticano bloccò, con una lettera arrivata poco prima della celebrazione, l'ordinazione sacerdotale da parte di Peressin di due appartenenti all'"Armata Bianca", Giovanni Antonucci e Carlo Benedetto Lauro, dopo che un primo tentativo di consacrare i due era già stato bloccato a Quito, in Ecuador. Alla fine Antonucci la spuntò solo grazie all'intercessione di Hnilica (v. notizia successiva), che lo raccomandò a mons. Antoni Pacyfik Dydycz, vescovo di Drohiczyn, in Polonia, frate minore cappuccino come D'Ascanio e figura di altissimo livello all'interno dell'Ordine, di cui è stato definitore generale. L'ordinazione di Antonucci e Lauro avvenne proprio in Polonia sebbene, anche in quella circostanza, il Vaticano cercò di intervenire attraverso il nunzio apostolico. Ma era troppo tardi: non solo Dydycz aveva provveduto alla consacrazione, ma nel '99, nonostante le forti riserve vaticane sull'"Armata", concesse al movimento il riconoscimento ecclesiastico all'interno della sua diocesi. Lauro invece divenne prete in Ecuador: i due nuovi preti dell'"Armata" dovevano rappresentare l'implantatio del movimento nell'est Europa e nell'America Latina.
Oltre che per la questione dell'Armata Bianca, Peressin fu al centro di moltissime polemiche, con il Vaticano, il clero diocesano e la cittadinanza, che scandirono tutto il suo mandato come vescovo a L'Aquila. Ai suoi detrattori era solito dire: "Io sono qua come arcivescovo dell'Aquila attraverso il potere dello Spirito Santo, come successore degli Apostoli; ma anche come essere umano, al pari del Papa, che non soddisfa tutti quanti: neanche Cristo ha soddisfatto tutti". E Peressin, con il suo operato, di persone ne ha soddisfatte davvero poche. Nato il 17 maggio 1923 a Azzano Decimo (Pordenone), studiò nel seminario vescovile nella città prima di trasferirsi a Roma alla Pontificia Università Lateranense; fece una lunga carriera nella diplomazia vaticana, fino al 29 giugno 1983, quando venne nominato coadiutore all'Aquila, per subentrare, il 31 dicembre di quell'anno, nella carica di arcivescovo a mons. Carlo Martini. Di carattere autoritario e irascibile, si scontrò ripetutamente con il suo clero, che indirizzò numerose lettere di protesta alla Congregazione per i Vescovi. Clamorosa quella sottoscritta nel 1991 da 27 parroci della Diocesi in cui Peressin veniva accusato di avere "un attaccamento al denaro irrefrenabile, immorale e patologico" (v. testo integrale su Adista n. 23/91). Nella lettera si parlava di "operazioni illegali", nonché di "prepotenze, offese e insulti"; per questo, i sacerdoti firmatari chiedevano alla Congregazione la pronta sostituzione di Peressin (si rilevava tra l'altro lo stile "spiccatamente autoritario" del vescovo, che aveva "accentrato a sé ogni cosa" e "reso inefficace ogni organismo diocesano", soprattutto per le questioni finanziarie, da lui gestite disinvoltamente, creando "motivo di grave scandalo"). Ma il Vaticano non accontentò i preti ribelli.
Ma altre polemiche investivano l'operato dell'arcivescovo: dopo il monumento al "bambino mai nato", la "crociata" per imporre la sepoltura dei resti degli aborti; poi l'accusa di aver preteso 5.000.000 di lire per sfilare al corteo della Bolla della Perdonanza del '92; poi l'accertamento di un'evasione per alcuni investimenti privati fatti in America ma mai dichiarati.
Alla fine il Vaticano, nel marzo '96, nominò mons. Giuseppe Molinari, allora vescovo di Rieti, arcivescovo coadiutore dell'Aquila. Una nomina che, per Peressin, equivaleva ad un prepensionamento de facto: le sue formali dimissioni furono accolte in Vaticano due anni dopo, non appena lo scomodo vescovo ebbe compiuto i 75 anni.
Ma anche in seguito Peressin continuò a creare imbarazzi alla Chiesa cattolica. Persino dopo morto. Eclatante fu infatti la vicenda del suo testamento (v. Adista n. 89/99), nel quale Peressin decise di diseredare la Curia diocesana, destinazione naturale dei beni per consuetudine accreditata, dall'eredità dei suoi averi, stimabili in circa otto miliardi di lire, tra beni mobili (tra cui denaro accantonato in ben cinque conti correnti, di cui due presso lo Ior e uno presso la Banca di New York) e immobili (appartamenti, tenute, negozi). "Escludo totalmente dalla mia eredità - scrisse nel testamento - sia l'attuale arcivescovo Giuseppe Molinari, sia i responsabili della curia aquilana, in particolare quei preti indegni e traditori che hanno contestato e fatto ammalare me e i miei immediati predecessori ma che Molinari, con manovra perfida e vendicativa, ha nominato suoi collaboratori". Le accuse di Peressin giunsero a colpire anche grossi calibri della gerarchia vaticana, come il nunzio apostolico in Africa, mons. Orlando Antonini e il segretario di Stato il card. Angelo Sodano: "Essi - scrisse - non meritano nulla della mia eredità, semmai solo biasimo e vergogna per il loro operato riprovevole". Una parte dell'eredità finì invece all'ex braccio destro di Peressin, mons. Renzo Narduzzi (l'erede che aveva designato a succedergli, poi rimpiazzato da Molinari per intervento del Vaticano): denaro che doveva servire a promuovere la memoria del defunto arcivescovo.

 

 

MONS. HNILICA: IL CEMENTO DELL'ARMATA

32241. L'AQUILA-ADISTA. L'altro potentissimo protettore di padre Andrea D'Ascanio (v. notizia precedente) è, da ormai molti anni, mons. Pavel Hnilica, gesuita, vescovo titolare di Rusado, presidente dell'Associazione "Pro Deo et fratribus - Famiglia di Maria Corredentrice", amico e confessore di madre Teresa di Calcutta, uomo assai vicino all'attuale pontefice. Mons. Hnilica, slovacco, classe 1921, fu ordinato sacerdote nel settembre 1950 e vescovo (da mons. Robert Pobozný) nel gennaio 1951 (un'ordinazione, come altre avvenute in quegli anni nei Paesi "oltre cortina", piuttosto controversa: fu riconosciuta dal Vaticano nel 1965, ma Hnilica inizierà a comparire nell'annuario pontificio solo a partire dal 1991). Ma nella Cecoslovacchia comunista Hnilica esercitò per brevissimo tempo il suo ministero episcopale: nell'estate del 1951, infatti, fuggì all'estero, dopo aver ordinato vescovo al suo posto un altro gesuita, Jan Chryzostom Korec (rimasto invece in Cecoslovacchia durante tutto il periodo del governo comunista, scontando anche otto anni di carcere: è cardinale dal 1991); Hnilica si trasferì a Roma da dove assistette gli esuli slovacchi. Nel 1964 Hnilica conosce madre Teresa, con cui inizierà un lungo sodalizio. Con un incarico nel Segretariato per i non credenti, l'anno successivo Hnilica prese parte al Concilio, dove conobbe l'allora cardinale Karol Wojtyla. Entrambi si trovano infatti a lavorare alla formulazione dello schema 13 (che diventerà poi la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, conosciuta con il titolo Gaudium et Spes): il futuro papa nella commissione generale, Hnilica in una sottocommissione che si occupava dei problemi dell'ateismo. Tra gli uomini di Curia più conservatori, nel 1968 ha fondato l'associazione "Pro Deo et fratribus" per contrastare quello che Hnilica considera il "più grave problema del nostro tempo: l'ateismo comunista". Proprio il suo fervente anticomunismo è da anni strettamente connesso alla sua altrettanto fervente devozione alla madonna di Fatima ed alla frequentazione di tutti i culti legati alle apparizioni mariane sparse per il mondo (specie a Medjugorje).
E Fatima è sicuramente uno dei trait-d'union che collegano Hnilica a padre D'Ascanio. Il frate cappuccino si recava spesso infatti nelle scuole e nelle case dell'aquilano per parlare con i più piccoli, e raccontare loro la storia dei tre pastorelli di Fatima. "Per raggiungere la salvezza - diceva padre Andrea - sono necessari 5 milioni di bambini che durante la consacrazione gridano il loro sì a Maria, come i pastorelli di Fatima. Essi porranno fine alle guerre e porteranno il regno di pace e di amore".
Un altro punto d'incontro tra d'Ascanio e Hnilica è il pallino antiabortista: il vescovo slovacco, infatti ha dato per anni il suo sostegno a tutti i più accesi movimenti pro-life statunitensi.
Ma Hnilica è passato alla storia soprattutto per il suo coinvolgimento in uno dei più grandi misteri della storia repubblicana, che chiamò in causa un intreccio di interessi che legavano la finanza, il Vaticano e la P2: il caso Calvi. L'8 marzo 2000, i giudici della settima Sezione del Tribunale di Roma nell'ambito del secondo processo di primo grado per la ricettazione della borsa del banchiere Roberto Calvi (trovato impiccato il 18 giugno 1982 sotto il ponte dei Frati Neri a Londra), assolvono mons. Hnilica dall'accusa di ricettazione (che era stato invece condannato a 3 anni nel precedente processo, conclusosi nel 1993 e annullato l'anno successivo). Hnilica aveva ricevuto dal faccendiere Flavio Carboni alcuni documenti contenuti nella borsa del presidente del Banco Ambrosiano. Era accusato di averli ottenuti in cambio del pagamento di alcuni assegni in bianco.
Il vescovo slovacco ha seguito da vicino tutte le vicissitudini dell'"Armata Bianca". Quando arrivò dal Vaticano la lettera che diffidava mons. Peressin dall'ordinare sacerdoti due appartenenti all'Armata (v. notizia precedente), il vice di D'Ascanio, padre Giovanni Antonucci, alla fine divenne prete proprio grazie all'intervento di mons. Hnilica. Inoltre, quando iniziarono i guai giudiziari di D'Ascanio, fu proprio presso Hnilica, ad Albano, che si diceva si fosse rifugiato il frate che, invece per alcune settimane trovò riparo a Sabaudia, nella villa di una coppia di fedelissimi dell'"Armata", prima di tornare a L'Aquila e mettersi a disposizione degli inquirenti.