Un Gesù sempre da scoprire

Da "Olio per la lampada" di Franco Barbero - Viottoli, Pinerolo 2004

Le riflessioni che qui propongo vogliono esprimere prima di tutto l’amore crescente che lega la mia vita alla persona e al messaggio di Gesù Di Nazaret. Nello stesso tempo, con queste righe, desidero accennare al “processo” che il mio cammino di fede, sulla scorta di tanti studi affrontati negli ultimi quarant’anni, ha compiuto rispetto alla comprensione di Gesù e dell’opera che Dio ha realizzato in lui. Anche un teologo tutt’altro che rivoluzionario come N. T. Wright scrive che, “se vuole essere autenticamente chiesa, ogni generazione deve misurarsi daccapo con le sue radici bibliche” ( Gesù di Nazaret, Claudiana, Torino 2003, pag. 24). Lo stesso autore riconosce che quando, dopo vent’anni di seri studi sul Gesù storico, pronuncia i credi cristiani “ora intende qualcosa di molto diverso con essi” (Ivi, pag 116). La parte vitale del compito cristologico contemporaneo consiste “nell’imparare a parlare autenticamente del Gesù terreno e del suo senso di vocazione; dobbiamo imparare a parlare biblicamente, alla luce di questo Gesù, dell’identità dell’unico vero Dio” (pag.115).

Oggi mi sembra urgente “imparare altri linguaggi” e fare uscire Gesù dalla nebulosa di una dogmatica diventata astratta. Mentre la tradizione parla molte lingue e le teologie esprimono una straordinaria pluralità di accenti, il potere ecclesiastico ha espresso nel Catechismo della Chiesa Cattolica una riduzione di Gesù alle dogmatizzazioni che si sono affermate da Nicea a Calcedonia. Ma esse "frappongono un ulteriore cortina, sempre più spessa, tra Gesù e le successive generazioni dei credenti. Esse sono il grande, permanente ostacolo all’incontro con il Gesù della storia”  (Ortensio da Spinetoli). Così ci troviamo non solo davanti al “naufragio della ortoprassi” (Josè M. DiezAlegria), ma anche imprigionati nell’assolutismo dogmatico.

Secondo certi guardiani del sacro e custodi dell’ortodossia la chiesa da comunità interpretante deve diventare comunità obbediente.

Dentro l’oggi

L’esigenza di riandare alle radici bibliche, di rileggere, reinterpretare e oltrepassare certe formulazioni dogmatiche viene lucidamente espressa dal cardinale Walter Kasper nel suo volume “Gesù il Cristo” (Queriniana, Brescia 1981, pag. 51): “Oggi, quando la libertà e maturità dell’uomo sono diventate il centro verso cui tutto deve convergere e il criterio del pensiero, è inevitabile che le rappresentazioni e convinzioni religiose suonino mitologiche. Il sospetto di mitologia si estende anche alla fede in Gesù Cristo della tradizione. Possiamo ancora onestamente riproporre l’annuncio che Dio scende dal cielo, assume una figura umana, nasce da una vergine, compie miracoli, dopo la

morte scende nel regno dei morti, al terzo giorno viene risuscitato ed elevato alla destra di Dio, e continua, per mezzo del suo Spirito, ad essere presente nella predicazione e nei sacramenti della chiesa?

Tutto questo non rientra forse nella sfera di un linguaggio, ma anche di un contenuto, tipico di un’immagine del mondo ormai superata? La nostra onestà intellettuale ed una concezione più pura di Dio non ci costringono a demitizzare l’intero discorso?”.

C’è di più. Per entrare più onestamente nel dialogo con le religioni del mondo, la rigidità dogmatica non sembra davvero di buon auspicio. Non invoco in alcun modo un irenismo che dissolva la propria identità e la immoli sull’altare di una falsa concezione del dialogo interreligioso. Ma credo che, dentro la prospettiva di una teologia interreligiosa, il dialogo incida profondamente anche su

tutti i trattati della teologia dogmatica. “Non ci si può limitare, infatti, ad introdurre nel corso degli studi teologici un altro corso consacrato alla teologia delle religioni. Si tratta di una dimensione coestensiva a tutta la teologia, che porta ad una nuova reinterpretazione delle grandi verità della fede in funzione dei raggi di verità contenuti nelle altre tradizioni religiose” (Claude Jeffrè, Prospettive teologiche per il XXI secolo, Queriniana, pag. 371).

Lo stesso teologo cattolico scrive: “per i cristiani come per i musulmani, solo il Dio di Gesù, il motore di tutti gli uomini, è l’assolutamente unico. Gesù non è una emanazione di Dio. Senza rinnegare la fede che ha trovato la sua espressione a Nicea e Calcedonia, sarebbe senza dubbio possibile tentare un dialogo fecondo con 1’Islam a partire da una cristologia narrativa di Gesù servo di Dio... Gesù testimonia una relazione assolutamente unica con Dio, Dio che egli chiama suo Padre, e tuttavia la maggior parte degli esegeti oggi sono d’accordo nel dire che Gesù non ha mai applicato a se stesso il titolo di Figlio di Dio”(Credere e interpretare, pag. 188). Del resto la metafora”figlio di Dio” non ha affatto il significato di “essere divino”, ma esprime ed indica la persona alla quale Dio ha affidato una particolarissima funzione emissione.

Percorsi cristologici

Le riflessioni che qui propongo vogliono evitarci di cadere nell’errore di chi non tiene conto della tradizione dogmatica che, ad una lettura storica, risulta comprensibile e, spesso, anche apprezzabile. Essa ha rappresentato un significativo modello di mediazione culturale dell’annuncio cristiano, per quanto parziale e provvisorio. Ho più volte sottolineato che “Nicea e Calcedonia, pur con tutte le loro ambiguità, hanno il grande “merito” di aver tentato di “tenere insieme” Dio e Gesù “nel senso che, per noi cristiani, Gesù è la via che conduce a Dio e la strada e la causa di Gesù sono la strada e la causa di Dio. Nell’esistenza storica del profeta di Nazareth noi incontriamo davvero il testimone di Dio, colui che ci manifesta la volontà, le scelte e l’amore con cui Dio ama” (l). Ma è del tutto evidente che, fermarci a tali formulazioni, significa imbalsamarle, mentre siamo chiamati a ridire la fede riscrivendola nei linguaggi del nostro tempo. Da queste constatazioni nascono la libertà e l’impulso verso nuovi sentieri.

In questo “maledetto” tempo ci sono non poche benedizioni per la nostra esperienza cristiana.

Il castello dogmatico, tutto perfettamente sagomato, definito e custodito (e perfino ferocemente difeso), lascia trasparire il peso dei suoi anni. La ripetizione di quelle formule di Nicea e Calcedonia, fuori dal contesto e dalla discussione che le ha prodotte, fa pensare ad una vera e propria imbalsamatura di Gesù, ad una fotografia della stessa vita intima di Dio (la Trinità ontologica e le sue operazioni). Infatti le “costruzioni teologiche sono ‘case’ in cui vivere per un tempo, con finestre semiaperte e porte socchiuse; diventano prigioni quando non ci consentono

più di andare e venire, di aggiungere una stanza o di toglierne una o, se necessario, di lasciarle e costruirci una casa nuova” (l bis).

La prospettiva continuista

Per molti cristiani, sulla scia dell’insegnamento ufficiale, le formule dogmatiche cristologiche e trinitarie sono la fedele traduzione ed esplicitazione delle Scritture. Una parte, in verità molto consistente e pubblicizzata, delle trattazioni dogmatiche si esprime in questa direzione, senza lasciar spazio alcuno a quelle domande che emergono dalla consapevolezza della storicità del dogma, dalla “contingenza e parzialità” dei linguaggi e degli immaginari umani. Lo studioso Bernard Sesboué arriva a dire che “Nicea non è altro che una conclusione tratta a partire dal Vangelo” (2). Sia pure con sfumature diverse, questo è l’orizzonte ideologico assolutamente pacifico della manualistica più

nota e del “Catechismo della Chiesa Cattolica” (3).

La persona che percorre il suo itinerario di iniziazione cristiana normalmente introietta questo dato catechistico: analizza la Bibbia e spremila e ne ottieni il succo trinitario e cristologico ufficiale. Fuori da questo “spazio della verità” esiste il nulla o l’eresia. La visione storica dell’intrecciarsi continuo di mille ricerche e la permanente realtà plurale delle teologie cristiane vengono completamente rimosse. Questa operazione continuista, un vero e proprio falso storico (4), trova ampia diffusione perchè la censura vaticana pratica la sistematica persecuzione o emarginazione dei dissenzienti, ma anche perché la maggioranza degli intellettuali “laici”, quando si addentra in argomentazioni religiose e in ambiti dogmatici, recita le formule del catechismo di prima comunione, con qualche abbellimento linguistico (Eugenio Scalfari in testa...). Così la versione televisiva e giornalistica è sostanzialmente papalina.

Come è squallidamente evidente in questi anni, il martellamento e l’inquinamento ufficiale cattolico sono presenti su tutti i canali televisivi, senza che arrivi alle nostre orecchie qualche consistente analisi critica.

L’illusione continuista ha una funzione inibitoria anche rispetto al futuro dell’esperienza cristiana. Se vengo abituato a nutrirmi di pillole dogmatiche anziché di proteine bibliche, se vengo defraudato del plurale, di quella comunione delle differenze, di quel ventaglio esplosivo, di quei mille frammenti (5) che caratterizzarono il movimento di Gesù fin dal suo nascere, la struttura della mia fede è esposta al rischio di identificarsi con quel solo modello, con pericolose tentazioni di possesso e di esclusività (6).  Poste tali premesse, la mia tentazione sarà quella di leggere il mosaico delle Scritture con occhiali dogmatici. Ciò mi renderà molto più difficile gioire della perla preziosa delle mille diversità cristiane, della positiva “babelicità” che non necessariamente diventa contrapposizione. Come farò a dirmi che molto spesso è stata dichiarata “eretica” la posizione non funzionale al potere e, invece, è stata ufficializzata come verità di fede l’opinione del partito vincente? Che altro è l’ortodossia?

Ne questa dottrina ufficiale può accaparrarsi il monopolio della tradizione. La tradizione cristiana, infatti, è anch’essa molto più ricca, molto più variegata, molto più viva, bella e plurale. Le teologie che hanno costruito la grande e contradditoria tradizione cristiana sono la smentita più sonora del monolitismo e dell’uniformità (7).

Ebollizione mai sedata

Se, ritornando più succintamente al nostro tema, osserviamo la questione cristologica nel lungo dipanarsi della matassa storica e teologica e poniamo attenzione al continuo “affanno” storico, esegetico e dogmatico attorno al1’evento Gesù di Nazareth, ci accorgiamo che si tratta di una “ebollizione” mai sedata, di una ricerca incessante e mai paga del già “definito”, del già detto.

Attorno a Gesù, al suo ministero, alla sua funzione, alla sua persona, alla sua storia, al suo messaggio... la discussione non si è mai spenta. Ad onta di tutte le versioni ufficiali e di tutte le definizioni conciliari, le cristologie non sono mai diventate uno stagno, ma sono rimaste sempre un mare aperto, mosso e vitalmente attraversato da molte correnti diverse, ora visibili ora sotterranee, e da forti conflitti. Se gli stessi concilii di Nicea, di Efeso e di Calcedonia sono stati spazi di ebollizione mai sedata, l’ideologia del continuismo cristologico ufficiale nasconde un fatto storico oggi incontestabile: da Nicea a Calcedonia, e ben oltre, un concilio innesca la miccia che rende necessario un altro concilio perché il fuoco cristologico delle questioni irrisolte e controverse cresce di volta in volta. Ad un singolo concilio non riesce mai di esprimere compiutamente la ricerca pluriforme delle comunità, delle chiese, dei teologi, delle scuole teologiche e molti interrogativi ricompaiono puntualmente dopo ogni tentativo di sistemazione dottrinale.

Quello che Dio ha operato e manifestato nell’uomo Gesù di Nazareth sembra far scoppiare i nostri presuntuosi contenitori dogmatici. Il dibattito sulle teologie cristologiche e, conseguentemente, trinitarie sta esplodendo con grande vivacità e consapevolezza.

Le grandi accademie dell’ufficialità cattolica, protestante e ortodossa continuano a recitare, difendere e reinterpretare le formulazioni dogmatiche di Nicea, Costantinopoli e Calcedonia, ma i più fecondi laboratori storici, esegetici e teologici sembrano aver “cambiato casa”. Centinaia di teologi e teologhe lavorano in modo più sotterraneo, coraggioso e documentato in ben altre direzioni (8) , valorizzando al massimo livello sia gli strumenti degli studi accademici, sia le domande poste dai credenti e, soprattutto, dalle credenti di oggi. Il giusto rispetto per le tappe del passato si congiunge alla responsabilità dei nuovi linguaggi con cui dire Dio oggi.

Il Kairòs

La “rottura culturale” che, come svolta profonda, ha segnato il nostro tempo “postmoderno” ha anche registrato l’irruzione di molti stimoli positivi: il dialogo ebraico-cristiano, il cammino ecumenico, le teologie della liberazione, le teologie femministe, il dialogo con le religioni, un nuovo fiorire di ricerche esegetiche, storiche e dogmatiche.

Lo stesso Concilio Vaticano II ha rappresentato, pur con il compromesso delle formule che lo ha caratterizzato, un momento in cui si sono aperti spazi nuovi. La ricerca cristologica vive da almeno cento anni una stagione straordinariamente viva e feconda (9) .  Dunque, pur in mezzo a guerre e drammi, anche se stretti da tutte le parti da una politica vaticana oppressiva, Dio non ha cessato di offrirci nuove opportunità. Voglio dire che tutto questo travaglio e questo fermento ai quali ho fatto cenno possono rappresentare un Kairòs. “Kairòs è un punto della storia in cui, a motivo della particolare costellazione di eventi e di personalità, sono latenti possibilità e progressi genuinamente nuovi. Esso non è soltanto una situazione, ma è anche una opportunità. Se lo perdiamo, perdiamo qualcosa di molto importante” (10).  Se noi, al crocevia di queste rilevanti opportunità, non assumiamo la responsabilità che il Kairòs ci affida e ci rifugiamo nella ripetizione del passato, rischiamo di "porre la luce del Vangelo sotto il moggio e di rendere più difficile la fede nella buona novella” (11). Cogliere questo Kairòs significa per il cristianesimo, secondo questo orientamento di prassi e di pensiero, valorizzare “l’opportunità di crescere e di evolversi in maniera genuina e di comprendere il Vangelo in modo nuovo, in una maniera che permette alla potenza del Vangelo di continuare a brillare in forme fresche e più comprensibili” (12).

Una rottura?

Noi, in questo passaggio, non stiamo “rompendo” con la fede dei nostri padri. Talune discontinuità teologiche non negano una sostanzia1e continuità nella fede.

 Non stiamo nemmeno “inventando” un’operazione inedita.  Nel corso della lunga esistenza del movimento di Gesù i linguaggi cristiani hanno più volte dovuto fare i conti con il mutevole contesto storico. Semmai è il fatto che noi oggi ci siamo fermati alle formule di Nicea e Calcedonia e le abbiamo imbalsamate a costituire problema. I nostri “padri" hanno cercato di dire per il loro tempo -in bene e in male - il cuore della loro fede. Noi, in un contesto completamente e radicalmente mutato, ci permettiamo di ripetere pigramente quelle formule. storicamente situate e linguisticamente contingenti, figlie di una cultura e di un immaginario che abbiamo in larga misura alle spalle.  Questo aggrapparci a tali formulazioni. come se esse fossero la fotografia della verità e delle reliquie intangibili, offende lo spirito di ricerca di quelle generazioni di credenti.  La genesi storica di quegli antichi linguaggi, sia pure con le ombre che i secoli non ci permettono di dissipare, ha ragioni ben comprensibili. Quando le comunità primitive entrarono nell’area della cultura greco-romana e persero progressivamente contatto con le loro radici ebraiche (13), le immagini mitiche e le categorie funzionati di “figlio di Dio” e di “incarnazione” furono ontologicizzate e trasformate in categorie assolute ed esclusive. Il linguaggio mitico, poetico, narrativo “si trasformò in prosa solida e passò da un metaforico figlio di Dio a indicare un metafisico Dio Figlio, della stessa sostanza del Padre” (J. Hick).

Oggi siamo diventati più coscienti che questi dogmi cristologici e trinitari hanno alle loro spalle una storia e si sono storicamente “costruiti”, in bene e in male, anche in risposta a situazioni culturali, comunitarie, pastorali e politiche del tempo in cui furono redatte. Quindi lo schema trinitario che si è insediato nella dogmatica e nella liturgia va compreso ed eventualmente superato o reinterpretato a partire da questa consapevolezza.

Un percorso da capire

Si tratta di un percorso storico e culturale che oggi molti studiosi e studiose hanno ricostruito con sufficiente chiarezza. Mi permetto di citarne uno tra mille: “Gli studiosi del Nuovo Testamento oggi sono tutti ampiamente d’accordo, compresi anche i più conservatori fra essi, che , il Gesù storico stesso non insegnava che Egli era Dio Figlio, la seconda persona della Trinità divina, vivente una vita umana. Egli era profondamente cosciente che Dio era il Padre celeste, la sua vita (certamente durante i due o tre anni del suo ministero) era dedicata alla proclamazione dell’imminente arrivo del regno di Dio e alla manifestazione del suo potere negli atti di guarigione, era dedicata pure all’insegnamento di come vivere per poter diventare parte del regno che stava per essere stabilito. Egli probabilmente si considerava l’ultimo profeta, che aveva la missione d’essere l’araldo della fine di un’epoca. Forse si fregiò di uno dei due titoli principali che la tradizione ebraica offriva a colui che avrebbe ricoperto questo ruolo - quello del figlio dell’uomo che doveva giungere in gloria sulle nubi celesti, e quello del messia che doveva governare il mondo dal suo nuovo centro, Gerusalemme. Nessuno dei due ruoli, si noti bene, voleva indicare la divinità; entrambe le figure erano quelle di glorificati servitori umani di Dio. Ma è ugualmente possibile che Gesù abbia rifiutato tutte le identificazioni, e forse furono i suoi seguaci a conferirgli questi e altri titoli.  Oppure egli avrebbe potuto usare il termine “figlio dell’uomo” semplicemente come un ebraismo, un termine che poteva essere rivendicato da chiunque.

Il titolo "figlio di Dio”, che è diventato standard nella teologia della chiesa, probabilmente ebbe inizio nell’Antico Testamento e un uso più ampio si ritrovava nell’antico Vicino Oriente in cui significava servitore speciale di Dio.  In questo senso i re, gli imperatori, i faraoni, i grandi filosofi, coloro che compivano cose strabilianti, e gli altri uomini santi erano comunemente chiamati figli di Dio. Ma quando il vangelo travalicò il suo ambiente giudaico verso il mondo non-cristiano dell’impero romano, questa poesia si trasformò in prosa e la metafora vivente venne congelata in un dogma rigido e letterale. Era per trovare un posto a questa figliolanza metafisica che la chiesa, dopo ben tre secoli di dibattiti contrastanti, si decise a teorizzare che Gesù aveva due nature, una divina e l’altra umana: attraverso quella divina era una sola sostanza con Dio Padre e in quella umana era una cosa sola con l’umanità - una costruzione filosofica così lontana dal mondo del pensiero e dell’insegnamento di Gesù stesso come in modo parallelo la dottrina buddhista mayahana del Trikaya, da quella dello storico Gautama.

Ma vi sono sempre state altre linee di pensiero cristologico, anche se le variazioni erano ufficialmente oppresse durante il lungo e relativamente monolitico periodo della cristianità medievale” (13bis).

Una cristologia epifanica e funzionale

Era naturale che le comunità primitive, nel contesto della nuova cultura, cercassero di esprimere la loro esperienza di Gesù con questi concetti filosofici e nel linguaggio degli assoluti (14). “Quei padri conciliali parlavano da cristiani, ma pensavano da greci", ma “noi non siamo obbligati ad

accettare i presupposti filosofici e antropologici di quei concili greci come condizione di una fede viva. ..In essi l’uomo Gesù, ebreo di Nazareth, scomparve. ...Inoltre, ciò che quei concili intendevano dire fu essenzialmente indurito e spesso distorto nella catechesi, nella predicazione e nella teologia” (15). Ecco perché diventa antistorico mantenere ossessivamente l’intangibilità di quelle formulazioni: “Il modello di Calcedonia non parla più in termini umani ed è di solito incomprensibile” (16). Basti pensare alla distanza che esiste tra l’attuale concetto di persona rispetto all’ipostasi del passato. Oggi, nella mutata costellazione dell’esperienza umana soggettiva e oggettiva, la dottrina cristiana delle due nature dà luogo ad una vera “fallacia ipostatica “ con “il rischio di ridurre Gesù a un semplice manichino guidato da un burattinaio invisibile. In tale modo la cristologia dei vangeli viene inserita in un modello a lei estraneo e di fatto la figura umana di Gesù è completamente falsata” (17).

Oggi, riprendendo un contatto mai completamente interrotto con molte cristologie di tutti i secoli passati, fiorisce una ricerca cristologica che non parte più dalla questione del rapporto tra le due nature in Gesù, ma da ciò che è centrale nella testimonianza dei vangeli: Gesù è vissuto in una comunicazione profonda con Dio e, per noi cristiani, in forza della chiamata che Dio gli ha rivolto, in forza della missione particolarissima che Dio gli ha affidato, egli è il testimone, l’epifania, la icona, la sapienza di Dio, la parabola di Dio, il “figlio prediletto” (18). Egli è cresciuto in totale obbedienza e dedizione al regno di Dio.  “Gesù non ha mai fatto della sua persona la realtà ultima e centrale. ..Gesù addita oltre se stesso, a un mistero carico di senso... che egli chiama “Padre più grande di me” (19).

Gesù, dunque, non è un semidio o un essere metastorico, una persona con due nature. Egli è esclusivamente uomo “e non ha alcuna maggiorazione che lo faccia diverso da noi. Gesù, perciò non ha rivelato Dio perché nella sua natura umana fosse divino, ma perché era stato reso così umano da diventare traduzione del progetto che Dio ha  dell’uomo, era diventato così trasparente alla presenza di Dio da consentirne la piena manifestazione nella carne” (20).  Certo, tutto questo ad intra per noi cristiani, senza vantare nessun monopolio dell’epifania, delle testimonianze di Dio in altre vie di salvezza.

Ecco perché “è impossibile vincolare l'esperienza cristiana alla concezione teologica della divinità di Gesù” (21) e perché “identificare Gesù Cristo con Dio va oltre la testimonianza delle Scritture cristiane” (22).  Sarebbe fuorviante pensare che questo orizzonte teologico “diminuisca” il ruolo e la rilevanza di Gesù nella nostra vita cristiana (23) .

E’ proprio Gesù che ha messo i suoi discepoli sulla strada della diocentralità. Il suo richiamarsi a Dio è profondo e costante.

Il Dio più grande

Questa prospettiva, saldamente ancorata all'evangelo, che riconduce tutta l'opera e l'esistenza dell’artigiano e profeta di Nazareth nel servizio della signoria-regno di Dio, non diminuisce di un millimetro l'importanza essenziale di Gesù per un cristiano / a, ma fa propria la consapevolezza, felice e liberante, che il fenomeno cristiano non esaurisce il campo e l'azione salvifica di Dio.

Dio e la Sua salvezza sono più grandi anche del cristianesimo, sono più grandi di Gesù.

Ma, per preservare i nuovi linguaggi dalle diffuse patologie catechistiche, è importante sapere che nessuna cristologia è universalmente “parlante” e che di nessuna formulazione occorre fare un idolo. Le nostre elaborazioni restano sempre approssimazioni. Anche in teologia possiamo “innalzare idoli nel nostro cuore”, come dice il profeta Ezechiele. Ma c’è di più: l'elemento decisivo è sempre, come ha fatto e insegnato Gesù, accogliere in noi l’amore con cui Dio ama il mondo e compiere la Sua volontà. Su questo terreno le diverse teologie, anziché minacciare l’unità della fede, la costruiscono facendone brillare i molteplici colori. Ma il problema non può essere rimosso: “Poche cose hanno contribuito all’irrilevanza del cristianesimo come la scuola di catechismo. ..La potenza originaria dei grandi simboli cristiani è andata perduta. ..Ora sono delle pietre di inciampo... L’impossibilità della persona moderna di comprendere il linguaggio della tradizione riguarda quasi tutti i simboli cristiani... Essi hanno perso il potere di trafiggere l’anima...” (24).

Non possiamo sottrarci a questo impegno di ridire, con parole sia vecchie che nuove, l’evento della salvezza, l’amore di Dio per questo mondo. Non si tratta di maledire le istituzioni ecclesiastiche, ma di accettare il rischio che la fede nel Dio di Gesù ridiventi la più radicale messa in crisi anche della religione e della dogmatica ufficiale (25) .Senza mai dimenticare che, per noi, ciò che è decisivo non è la nostra cristologia, ma la sequela di Gesù nella vita di ogni giorno. La teologia vive a servizio dell’amore, oppure è parola vana, vuota dottrina.

Dalle cristologie alla sequela di Gesù

La “partita” non è di poco conto. Infatti le formulazioni dogmatiche, venerate come sacre ed immutabili, sono diventate simili a tanti sarcofagi. Il Gesù “vivo” è così imbalsamato, mummificato, divinizzato da diventare un tale “oggetto di culto, spesso una specie d’icona dalla quale sono stati allontanati o appianati i tratti del profeta.  L’aspetto critico e provocatorio, la forza di sconvolgere e di mobilitare del grido profetico di liberazione sembrano svanire nella nuvola di incenso della nostra adorazione. Anche questo è un modo per ‘ibernare’ un profeta, farlo tacere” (Edward Schillebeeckx, Narrare il Vangelo, Queriniana, pag. 64).

“La freschezza dell’immagine autentica di Gesù sembra oggi sepolta sotto uno spesso strato di detriti. ...Il processo di divinizzazione, secondo Scheler, ha un duplice effetto, soprattutto per la grande massa dei credenti: da una parte il fondatore, grazie ai rapporti del tutto eccezionali che gli sono attribuiti con la divinità, diviene un’autorità assoluta, il che consente nel gruppo dei suoi devoti il formarsi di un’alta autocoscienza e dello stretto vincolo interno a essa collegato. D’altra parte la divinizzazione costituisce un processo di liberazione. La comunità si sente liberata dall’impegno, non sempre facile, di seguire le orme del fondatore, proprio perché questi è divenuto Dio: un uomo infatti non può seriamente misurarsi con un essere che è, per definizione, un Dio, o almeno di origine divina. Con la divinizzazione si opera una estraniazione, un allontanamento dal fondatore: proiettato nell’aldilà, egli può essere venerato, ma non veramente imitato. ..Non appena l’originaria posizione del seguace si è trasformata in adorazione, l’opera del fondatore diviene un capitale sacro, precostituito, amministrato dalla casta sacerdotale” (Adolf Holl, Gesù in cattiva compagnia, Einaudi, Torino 1991, pag. 39) .

La mania della dogmatizzazione ha prodotto frutti nefasti.  Vogliamo aprire il sarcofago, come milioni di donne e di uomini hanno fatto in questi secoli? Certo, la conoscenza storica è necessaria, ma “una conoscenza puramente storica di Gesù diventa vuota e superflua, proprio se lo considera come un fenomeno ormai concluso. Si deve invece proporre una conoscenza che porti avanti il processo iniziato da Gesù, che cammini con lui” (Idem. pag. 162).  Gesù è per me un evento aperto, il testimone di Dio sempre da scoprire e da seguire con la sicurezza che la sua vita, la sua testimonianza e il suo messaggio costituiscono per noi cristiani/ e la via di Dio nelle strade del mondo.

 

Note

Sono costretto a citare soltanto alcune delle ricerche cristologiche più recenti data la natura del presente scritto. La bibliografla è quasi immensa.

(1)       AA.VV., Gesù di Nazareth. CNT, Roma 1991, pag. 75. (Ibis)

SALLIE McFAGUE, Modelli di Dio, Claudiana, Torino 1998, pag.  49.   (2) B. BESBOUE’, Gesù Cristo neUa tradizione della chiesa, Paoline, Cinisello Balsamo 1987, pag. 106. Sostanzialmente convergenti le opere di Alois Grillmeier, di Marcello Bordoni, di Bruno Forte e di gran parte della produzione protestante più legata al pensiero barthiano.   (3) Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1992.   (4) Fondamentali tutte le opere - ben note ai lettori -di Hans Kung, Eduard Schillebeeckx, John Hick e Paul Knitter. Si tratta di oltre quaranta impegnative pubblicazioni nell’arco deglil ultimi 30 anni. In particolare HANS KUNG, Cristianesimo, Rizzoli, Milano 1997 e PAUL KNITTER, Una terra molte religioni, Cittadella, Assisi 1998.   (5) Si veda “La chiesa in .frammenti”’ (Concilium 3/97); “La riscoperta di Gesù” (Concilium 1/97); MAURO PESCE in Annali di storia dell’esegesi 14/97, pag. 11-38; ELENA LOEWENTHAL, Gli ebrei questi sconosciuti, Baldini & Castoldi; “Questioni non risolte” (Concilium 1/99); DAVID FLUSSER, Jesus, Morcelliana; SALVATORE NATOLI, Dio e il divino, Morcelliana, Brescia 1999.   (6) ERICH ZENGER Il primo testamento, Queriniana, Brescia 1997; J. HICK- P. KNITTER, L’unicità cristiana: un mito?, Cittadella, Assisi 1994; ROLF RENDTORFF, Cristiani ed ebrei oggi. Claudiana, Torino 1999; KARL JOSEF KUSCHEL, Generato prima di tutti i secoli?, Queriniana, Brescia 1996. Interessanti le riflessioni di Ortensio da Spinetoli comparse in riviste teologiche di base e le opere di Eugen Drewermann.   (7) Si veda ADOLF HOLL, Gesù in cattiva compagnia, Einaudi, Torino 1991 (la prima edizione è del 1971); AA.VV., Gesù di Nazareth, CNT, Roma 1991; JON SOBRINO, Gesù Cristo liberatore, Cittadella, Assisi 1990; JULIE M.  HOPKINS, Verso una cristologia femminista, Queriniana, Brescia 1996; E. SCHUSSLER FIORENZA, Gesù figlio di Miriam. profeta della sofia, Claudiana, Torino 1996; E. P. SANDERS, Gesù, Mondadori 1995; J R. GUERRERO, L’altro Gesù, BorIa, Roma 1977; C. MOLARI, La fede nel Dio di Gesù, Edizioni Camaldoli 1991; di grande interesse ROBERTO DE MATTEI, A sinistra di Lutero, Città Nuova, Roma 1999, che registra il plurale della tradizione.  (8) Si veda l’opera stupenda della suora e teologa cattolica ELISABETH A. JOHNSON, Colei che è, Queriniana, Brescia 1999. L’autrice rilegge tutta la dottrina trinitaria in chiave simbolica denunciando le deviazioni che la ripetizione delle formule conciliari ha causato e la loro inintelligibilità ed inadeguatezza per il nostro tempo. Nelle pagine di questo volume a più riprese viene illustrato il processo storico che ha portato alla costruzione del dogma trinitario, “un pensiero che fu elaborato in una cornice speculativa ellenistica “ (pag. 387) e viene rilanciata la consapevolezza dei linguaggi allusivi, simbolici, analogici del nostro parlare di Dio per evitare di credere che i nostri linguaggi teologici “descrivano” la vita interna di Dio. Si veda JOHN HICK in “L’unicità cristiana: un mito?”, op. cit. pagg.  104-105. In quest’opera si trova un vasto panorama bibliografìco. Mi permetto qui di raccogliere alcune osservazioni di una , notissima teologa protestante, J. M. HOPKINS, tratte dal suoi volume “Verso una cristologia femminista” (op. cit.). Un libro assolutamente da leggere. Le riflessioni cristologiche al femminile vengono ripercorse con grande ampiezza e competenza. Molto vivace e coraggiosa la rimessa in discussione delle formulazioni di Nicea e Calcedonia, nella consapevolezza che “una cristologia dogmatica universale non è possibile” (pag. 24). “Le donne cristiane che formano la spina dorsale delle loro comunità. ..  non credono più nelle dottrine cristologiche che odono ogni settimana esposte dal pulpito o liricamente descritte nel loro innario” (pag. 32). Calcedonia, con la sua formula del “vero Dio e vero uomo” può essere capita come “simbolo esistenziale” (pag.  97) dell’incarnazione del divino nella nostra umanità. La “dottrina della Trinità” per la nostra Autrice risulta essere un “dogma confuso” (pag. 103). Anche le formule di Calcedonia devono essere rilette come simboli e metafore: il dogma di Calcedonia, secondo cui Gesù era “vero Dio e vero uomo”, può essere interpretato intendendo che Gesù era un essere umano veramente “divinizzato”, cioè “invaso”, guidato da Dio. “Gesù è importante soltanto se era pienamente e unicamente umano. Altrimenti parliamo di qualcosa-qualcuno che non aveva una relazione piena e unicamente umana con Dio, con le sue sorelle e i suoi fratelli” (C. Heyward, pag. 144). Per l’Autrice “la divinizZazione di Gesù cominciò quando nella missione i cristiani cercarono di dare espressione al loro senso della salvezza nel mondo greco-romano. In questo ambiente i miti discendenti e ascendenti di un redentore, l’apparizione degli dei in forme umane, animali o di spiriti, le speculazioni gnostiche su un Uomo Celeste o Divino e il culto dell’imperatore erano all’ordine del giorno” (pag. 147).

Se il dogma di Calcedonia “è sorto come riflessione teologica sulla persona di Gesù di Nazareth e sull’esperienza salvifica di Dio che la sua vita, la sua morte e la sua risurrezione hanno generato fra i primi cristiani...” (pag. 150), noi oggi, interrogandoci sulla nostra comprensione di Gesù, possiamo formulare “comprensioni diverse” e usare altri linguaggi. La cristologia deve riscoprirsi plurale, con “molte sfaccettature” (pag. 171). “Non trovo che questa prospettiva faccia paura” (pag. 171).  (9) Le ultime opere di Kung forniscono una bibliografia che abbraccia tutte le aree culturali. Si veda anche” La Teologia del XX secolo” di Rosino Gibellini (Queriniana) e JACQUES DUPUIS, Verso la teologia cristiana del pluralismo religioso, Queriniana, Brescia 1997. ( lO) P. KNITTER, Nessun altro nome?, pag. 47. (11) IDEM, op. cit.  Anche un’opera significativa (e fantasiosa per ciò che riguarda l’ipotesi dell’Autore) come quella di Robert Kisor (Giovanni, Claudiana, Torino 2000), che si colloca con coraggio sul piano esegetico e tuttavia cerca di non uscire dal “tracciato” dogmatico ufficiale, in realtà dimostra che la pratica tradizionale di piegare e usare l’esegesi biblica ai fini del al dogmatica sta diventando sempre più “faticosa”, difficile e inconcludente. In essa, al di là della sottolineatura della divinità di Gesù, l’Autore riconosce (pag. 58) come pienamente accreditate dalle Scritture cristiane la “cristologia adozionista” e la “cristologia dell’inviato” che escludono radicalmente la possibilità di comprendere Gesù come Dio. Non solo l’Autore sottolinea, a più riprese, che Gesù è una “creatura divina” (pag. 32), “comunque subordinato al Padre” (pag. 40), “il figlio obbedisce al Padre” perchè il “Padre è più grande del Figlio” (pag. 73), “l’equivalenza funzionale di Dio e di Cristo” (pag. 81), ma riafferma che Gesù “è subordinato al Padre” (pag. 90), “gli è subordinato” (pag. 91) così tante volte da lasciar capire che si aprono vistose crepe nella concezione della divinità ontologica di Gesù e ci si può avviare verso una cristologia funzionale.   (12) IDEM, op. cit. pag. 47.   (13) Si veda GEZA VERMES, Gesù l’ebreo, BorIa, Roma 1984 e AA.VV. Il Gesù storico, Piemme, Casale Monferrato 1988; H. KUNG, Ebraismo, Rizzoli, Milano 1994. (13bis) J. HICK- P. KNITTER, op. cit. pag.  105.   ( 14) Si vedano gli studi di Christian Duquoc, Nicholas Las, J. Gonzales Faus, Meinrod Hebga, Karl H. Schelkle e molti altri.  (15) EDWARD SCHILLEBEECKX, Perché la politica non è tutto, Queriniana, Brescia 1988, passim pagg. 52-60.   (16) IDEM, op.  cit.   (17) CARLO MOLARI, in Rocca 15/12/1999, pag. 48. (18) EDUARD SCHWEIZER, Gesù, la parabola di Dio, Queriniana, Brescia 1996 e soprattutto il suo capolavoro “ Gesù Cristo: l'uomo di Nazareth e il Signore glorificato”, Claudiana, Torino 1992, pagg. 155-161. (19) F. NOCKE, Parola e gesto, Queriniana, pag. 165. (20) CARLO MOLARI, Rocca.. pag. 49. (21) ST. SAMARTHA. L ‘unicità cristiana: un mito?, pag. 179 ss. (22) IDEM e Concilium 1/1997, pagg. 81-116; F. BARBERO, Le mammelle di Dio, Pinerolo 1999. Sono stupende le pagine che Ortensio da Spinetoli nel suo recente volume” Bibbia e Catechismo” (Paideia 1999) dedica al tema cristologico distinguendo nettamente Gesù da Dio. (23) Chi vedesse in queste prospettive “molti discorsi superficiali di cristologia” (Sergio Rostagno in Gesù, il Liberatore, pag. 46) si è confrontato davvero con essi? Qui non si tratta affatto di “rispolverare la contrapposizione tra un antico Gesù del dogma, che sopravvalutava la divinità, e un Gesù più umano e moderno”. Nulla di più estraneo di questa contrapposizione che rappresenta una riduzione ed una grave semplificazione delle ricerche cristologiche alle quali ho accennato. Anzi un travisamento.   (24) P. TILLICH, L’irrilevanza e la rilevanza del messaggio cristiano per l’umanità oggi” , Queriniana, Brescia 1998, pagg. 42-43.   (25) Sarà bene porre attenzione agli studi di Maurice Sachot in” La predicazione del Cristo” (Einaudi, Torino 1999) .Lo studioso francese vede nel processo di istituzionalizzazione del cristianesimo un passaggio dall’annuncio alla “verità decretata” (pag. 183). “La verità è decretata ma questa è la definizione dell’ortodossia. Tale statuto della verità tramuta d’acchito un disaccordo dottrinale ...in una rottura istituzionale: l’eresia assume il volto dello scisma” (pag. 183). Il “colpo fatale” portato all’annuncio cristiano avverrà progressivamente quando gli enunciati dogmatici si presenteranno “in una sorta di blindatura sistemica che si configura inevitabilmente come discorso di autorità” (pag. 185).  Molto stimolanti le riflessioni cristologiche di HERMANN HARING in Concilium 2/2000 (pagg. 137-154). Particolarmente preziosi e documentati i due volumi del teologo cattolico Luciano Scaccaglia (Gesù Cristo liberatore, Parma 1999 e 2000).  Significativi gli studi di Paul Abela (Je crois mais parfois autrement, Paris 2002). C.J. Den Heyer (La storicità di Gesù, Claudiana 2000). Ricordo inoltre le opere di M. E. Boismard, Martin Wemer, Hans Joachim Schulz, Tissa Balasuriya, Roger Haight. Molti stimoli ho ricavato dai volumi di P.E Meier (Un ebreo marginale, Queriniana 2000-3) e soprattutto dal volume di Giuseppe Barbaglio ( Gesù ebreo di Galilea, Dehoniane) e dalle opere di Francois Vouga e di Gerd Theissen.