"AMICHEVOLI RELAZIONI CON I BOSS". PUBBLICATA SU "SEGNO" LA SENTENZA SU ANDREOTTI


32772. PALERMO-ADISTA. È un macigno sull'innocenza di Giulio Andreotti la sentenza definitiva della Corte di Cassazione pubblicata sul numero di febbraio del mensile "Segno": l'ex presidente del Consiglio intratteneva "amichevoli relazioni" con i boss mafiosi, chiedeva loro dei favori mostrandosi disponibile a ricambiarli, aveva persino messo una buona parola per impedire che Piersanti Mattarella venisse ucciso, omettendo però, a trattativa fallita, di denunciare i responsabili dell'omicidio del presidente della Regione Sicilia. Questo hanno scritto i giudici della Cassazione che lo scorso 15 ottobre hanno confermato la sentenza precedentemente emessa dalla Corte d'Appello sull'imputato Andreotti: assoluzione, per insufficienza di prove, per il reato di associazione mafiosa (art. 416bis) e prescrizione per il reato di associazione per delinquere (art. 416), di cui il senatore a vita si sarebbe macchiato prima del 1980, prima cioè dell'assassinio, il 6 gennaio 1980, di Mattarella.
Tutto ciò che i magistrati hanno accertato e messo nero su bianco è ora possibile leggerlo sul mensile palermitano diretto da p. Nino Fasullo che ha scelto di pubblicare, rendendolo così facilmente accessibile a tutti i cittadini (si può richiedere a: tel. 091228317, e-mail rivistasegno@libero.it), il testo integrale della motivazione della sentenza, definitivamente approvata dal Collegio giudicante della Corte di Cassazione il 21 e il 28 dicembre. Il rapporto fra Andreotti e Cosa nostra emerge in maniera inequivocabile: "il sen. Andreotti - si legge in un passaggio della sentenza - aveva avuto piena consapevolezza che i suoi referenti siciliani (Lima, i Salvo e poi anche Ciancimino) intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; che egli (Andreotti, ndr) aveva, quindi, a sua volta, coltivato amichevoli relazioni con gli stessi boss; che aveva palesato ai medesimi una disponibilità non necessariamente seguita da concreti, consistenti interventi agevolativi; che aveva loro chiesto favori; che li aveva incontrati; che aveva interagito con essi; che aveva loro indicato il comportamento da tenere in relazione alla delicatissima questione Mattarella, sia pure senza riuscire ad ottenere, in definitiva, che le stesse indicazioni venissero seguite (Andreotti chiese ai boss di intervenire per limitare l'azione politica di Matterella, senza però ricorrere all'omicidio, come poi invece avvenne, ndr); che aveva conquistato la loro fiducia tanto da discutere insieme anche di fatti gravissimi (come appunto l'assassinio del presidente Mattarella), nella sicura consapevolezza di non correre rischio di essere denunciati; che aveva omesso di denunciare le loro responsabilità, in particolare in realzione all'omicidio del presidente Mattarella, malgrado potesse al riguardo offrire utlissimi elementi di conoscenza".
Quindi "secondo gli accertamenti dei giudici", si legge nell'editoriale di 'Segno', "Giulio Andreotti scende due volte in Sicilia - una volta, da presidente del Consiglio, 'nella tenuta degli imprenditori Costanzo La Scia presso Catania', un'altra 'in una villetta appartenente a Inzerillo in prossimità di Palermo' - per incontrare i vertici di Cosa nostra al fine di dissuaderli dall'uccidere il presidente della Regione, ovvero per 'stabilire (discutere insieme, sic) come intervenire per limitare l'azione dell'uomo politico (Mattarella) ritenuta pregiudizievole degli interessi economici del sodalizio (mafioso)'". "Ma i boss non fanno grazia. L'onnipotente uomo politico non ottiene ciò che chiede. Torna a casa con le pive nel sacco. Non va - come potrebbe? - a raccontare tutto in Procura. Non ha il coraggio di gridare nelle tv, nei giornali. Non fa convocare il Parlamento per denunciare al cospetto del Paese Cosa nostra, i suoi uomini, i suoi crimini. Tace."
Con la sentenza della Cassazione, nota l'editoriale, la vicenda giudiziaria si chiude. "Ma qualche problema, non giudiziario, resta. Gli uomini, i fatti, i significati e soprattutto le conseguenze di tutto ciò che è accaduto non possono essere rimessi negli archivi. Vi sono implicate e intrecciate troppe vite umane, aspetti della società, della poltica, della morale, della religione" e anche della Chiesa "che spendeva al massimo la sua autorità" in favore della Democrazia cristiana e dello stesso Andreotti: il papa, Giovanni Paolo II, durante gli anni dei processi, lo ha direttamente confortato, augurandogli in una lettera "che queste prove ingiuste che Le tocca sopportare servano, attraverso le misteriose vie della Provvidenza, a far del bene non solo a Lei ma all'Italia" (v. Adista n. 7/05); un organo vaticano, nel 1999, emise un comunicato per rallegrarsi per l'assoluzione pronunciata dal tribunale di Palermo; "l'università del papa (la Pontificia Università Lateranense, ndr) gli ha conferito (14 gennaio 2004) la laurea honoris causa in utroque iure, sempre per consolarlo dalle torture inflittegli dalla Procura di Palermo"; un cardinale, infine, all'indomani della sentenza di Perugia, si spinse a paragonare il 'calvario' di Andreotti con quello di Gesù (il card. Fiorenzo Angelini dopo l'assoluzione dall'accusa di essere stato il mandante dell'omicidio del giornalista Mino Pecorelli, ndr). E ad ulteriore testimonianza dei rapporti poco trasparenti fra Chiesa, politica e mafia c'è anche l'episodio raccontato da Gianni Parisi nel suo libro Storia capovolta. Palermo 1951-2001 edito da Sellerio: durante il viaggio del papa in Sicilia nel 1982, alla guida della 'papamobile' c'era Angelo Siino, il 'ministro degli appalti' di Cosa nostra. Questo particolare, scrive Parisi, "indica quale intreccio c'è nella società palermitana, quali labili confini tra società borghese e mafia. Chi propose Siino per questo compito? La Curia o delle autorità dello Stato che dovevano vegliare sulla sicurezza del papa?".
Prosegue l'editoriale di "Segno": "Forse a far fallire, almeno in Sicilia, l'esperienza politica dei cattolici, più che la mafia è stata la Chiesa intesa come potere non evangelico". Senza voler generalizzare e misconoscere la "buona fede di non pochi uomini e donne che hanno militato nel partito cattolico", il legame Dc-mafia "rievoca la storia del cattolicesimo politico sottoponendolo a severo giudizio. E rinvia a una verifica, sul piano storico, culturale, morale, religioso, che faccia giustizia anche a coloro che, onesti e puliti, venivano tenuti ai margini. Purtroppo, gli onesti e i puliti del partito cristiano avevano scarse possibilità concrete di obiettare e di pretendere trasparenza e rotture pubbliche con gli uomini di Cosa nostra. Infine tutti si allineavano. Criticavano, ma poi votavano, adeguandosi alle disposizioni provenienti dall'alto".

ADISTA n° 25 - 9.4.2005