Don Franzoni, l’eretico: «Il referendum va fatto»

«Sia Stato sia Chiesa oggi reprimono. Il primo non si fida degli elettori, la seconda dei fedeli. Hanno paura della libertà» C’é chi mi chiama ancora padre, chi don, chi semplicemente Gianni. Anche lei, può chiamarmi come vuole». Uno spirito libero, Don Franzoni. Trent’anni dopo aver osato dire che al referendum sul divorzio i cattolici avrebbero dovuto votare secondo coscienza, Don Giovanni Franzoni è ancora un monaco benedettino, ancora non può dire messa, e ancora la pensa allo stesso modo. Specie se in ballo c’è, ancora una volta, un referendum come quello sulla fecondazione assistita, in cui si pretende di tornare a schierare i cattolici in politica. Allora come oggi «il guaio dell’Italia resta che lo Stato non si fida dei cittadini, e la Chiesa non si fida dei cattolici».

 

Parole forti, padre. Lo scontro politico sul referendum per la fecondazione assistita è fortissimo. Lei crede che davvero la Chiesa sia così impegnata? Il governo ha impugnato il referendum davanti alla Consulta, cosa che non è accaduta nemmeno con il partito dei cattolici in politica ai tempi del divorzio e dell’aborto...

«Ha visto le motivazioni? Dicono che non si può abolire la legge perché c’è un accordo internazionale. A me pare strano, mica si tratta di una legge di ratifica. Poi, sa, l’argomento che si usa è che senza la legge c’è il Far-West. Per carità. Ma bisogna considerare che qualche volta anche nel Far-West ci possono essere fermenti positivi. Non ci dimentichiamo che anche prima del divorzio e dell’aborto c’era la giungla».

 

Se mi consente, c’erano anche la Sacra Rota e una serie di lussuose cliniche in Svizzera e in Inghilterra...

«Certo! Dunque anche in questo caso c’era bisogno di una legge. Ma non facendo passi indietro perfino rispetto al Far-West. I numeri degli embrioni, per esempio: tre soli consentiti, mentre per la donna che chiede l’impianto il tempo passa. E’ un controsenso. E perché invadere il campo della libertà personale e della ricerca scientifica? Che motivo c’è? E poi questa storia dell’embrione, con l’amico Carlo Casini che parla addirittura di “fratellini uccisi”... Una follia dal punto di vista scientifico, di certo non sostenuta dalla teologia. Il grosso problema, vede, è quello della cultura diffusa. Lo Stato e la Chiesa dovrebbero responsabilizzare i cittadini e i fedeli, non fare su di loro pressioni di carattere utilitaristico. Far crescere le coscienze e la responsabilità nella libertà: questa dovrebbe essere la battaglia, soprattutto della religione. Su un tessuto sano poi si può lasciare libero spazio alla ricerca scientifica, confidando che non ci sia l’abuso. E invece adesso Stato e Chiesa reprimono. Non si fidano né dei cittadini, né dei fedeli. Oggi, come nel ‘74 e nel ‘78».

Lei come ricorda quel 1974?

«Anche quel referendum avrebbe dovuto trovarci tutti neutrali. Monsignor Monicelli aveva assicurato che dalla Cei non ci sarebbe stato nessun intervento. Invece successe che, su iniziativa di qualche politico particolarmente acceso...

 

Fanfani?

«Quel che so è che fu esercitata una pressione direttamente sul Consiglio di presidenza della Cei, che allora era guidata dal cardinal Antonio Poma. E quando il Consiglio fece questa notificazione in cui si diceva una cosa buffa, e cioè che i cittadini italiani potevano votare come volevano, ma che i cattolici avrebbero dovuto dire sì all’abrogazione della legge sul divorzio, e bisogna considerare che i cattolici erano il 98 per cento degli italiani, il cardinal Pellegrino uscì dalla stanza per non dover prendere quella posizione. Rifiutava quell’intervento, molto politico. Io percepii che si stava compiendo una violenza sui cattolici italiani, percepii che si premeva sulla loro coscienza. Che intervenendo nel campo laico, sarebbe stata la Chiesa a rompere la comunità. Non viceversa. Ecco, io dissi queste cose, insieme a tanti altri. Solo che io ero delegato pontificio. E stavo a Roma. Infatti poi mi offrirono di spostarmi in Francia, ma io rifiutai di lasciare la mia comunità».

 

Promoveatur ut amoveatur...

«Anche solo amoveatur».

 

Lei diceva Roma. Ma anche l’allora patriarca di Venezia, Albino Luciani che poi diventerà Papa Giovanni Paolo I, minacciò provvedimenti per altri sacerdoti che avessero assunto le sue stesse posizioni.

«Sì. Ma vede, quando mi arrivò l’ingiunzione a non partecipare a manifestazioni divorziste, io stavo predicando a dei missionari. Voglio dire: non solo io obbedii a quell’ingiunzione, ma quel che avevo fatto era solo partecipare a dei dibattiti. In cui mi ero limitato a rispondere a delle domande. Dicendo una cosa semplicissima: che i cattolici erano chiamati a decidere di una legge che non riguardava solo loro, ma anche tutti gli altri. Di una legge che riguardava la libertà degli altri, capisce? Che loro avrebbero dovuto valutare se era opportuna o meno, ma che essa non avrebbe intaccato l’istituto del matrimonio, il che sarebbe stata evidentemente cosa ben diversa. Credo che occorresse un capro espiatorio, si dice così? Fu il cardinal vicario Poletti poi a dirmi che la decisione di punirmi secondo lui era illegittima, nel diritto canonico si dice «latae sententiae», cioè senza giudice. E per giunta senza crimine, perché io avevo obbedito. Quando glielo feci notare, mi disse va bene, trovati un vescovo benevolo. Io lo trovai nella persona del vescovo di Frascati. Ma allora mi dissero che era troppo vicino a Roma, avrei dato fastidio. E così io a un certo punto lasciai perdere. Avevo la mia comunità di base, la San Paolo a Roma. E sa una cosa, ho lavorato benissimo, con molta libertà, affetto e stima, anche in tutto il mondo, per trent’anni. Mi manca il sacerdozio, certo. Ma sono stato molto fortunato».

Antonella Rampino (da La Stampa del 9 gennaio 2005)