"ERGERSI CONTRO IL RELATIVISMO SIGNIFICA RIFIUTARE IL PLURALISMO". BENEDETTO XVI SECONDO P. ORTENSIO DA SPINETOLI. INTERVISTA

DOC-1615. ROMA-ADISTA. Non crede, il religioso cappuccino p. Ortensio da Spinetoli, teologo e biblista, che Benedetto XVI cesserà di essere "cardinale Ratzinger". Non ci crede, anche se lo auspica, a causa di quanto detto dal papa, il giorno prima dell'elezione, a proposito di "dittatura del relativismo", un discorso perfettamente in linea con l'opera svolta da Ratzinger in qualità di prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Certo, non siamo alla Controriforma, al Medioevo, ai roghi, ma Gesù Cristo è tutt'altra storia. Ce ne parla Ortensio nell'intervista che ci ha rilasciato.

La scelta immediata del nuovo papa coincide sicuramente con la presenza di una componente conservatrice prevalente all'interno del conclave. Una maggioranza di nomina wojtyliana. Ciò significa che l'elezione di Ratzinger era assolutamente scontata? Inoltre, Benedetto XVI sarà un secondo Giovanni Paolo?
La scelta del nuovo papa non può dirsi una sorpresa. Al contrario, non poteva non ritenersi scontata, tenuto presente il collegio cardinalizio composto da porporati di nomina quasi esclusivamente wojtyliana da supporre propensi, fedeli al loro grande elettore. Si sarebbe anche potuto uscire dalla continuità, oltrepassare i confini del vecchio continente ma non era chiara la direzione da prendere e i padri hanno preferito soprassedere, ripiegando verso la scelta più comoda, quasi ovvia. Ratzinger non sarà un secondo Giovanni Paolo. Dato il suo temperamento e i suoi modi quasi timidi, almeno non del tutto disinvolti, non se lo potrebbe permettere. Per questo forse ha anche evitato di riprendere il nome, pregno di un'eredità quasi schiacciante. Non ha assunto nemmeno quelli egualmente prestigiosi di Paolo e di Pio, pur essi ben caratterizzati da coloro che li hanno portati. Ha creduto più opportuno fare un passo indietro per fermarsi a Benedetto XV, un pontefice non certamente incolore ma di diverso spessore degli altri. Eppoi, ormai lontano.


Se esiste una diversità sia "nei modi" che nella scelta del nome, esiste anche una diversità programmatica?
Se il nome segna un distacco, il suo programma sembra essere all'unisono con quello del predecessore: la salvaguardia della missione magisteriale della Chiesa nel mondo, dell'ortodossia di cui era stata per oltre un ventennio insindacabile tutore. Solo che si continua a chiamare "fede" ciò che è alla fine semplice riflessione teologica. Credere è infatti cercare di entrare in comunione con Qualcuno che si ritiene al di sopra di tutti e di tutto e che si può immaginare e chiamare nel modo che si ritiene più idoneo. È in altri termini un "contatto", sempre fugace e aleatorio, col Mistero o se si vuole un'accoglienza a "mozioni" inverificabili, non tuttavia irrazionali, che particolari esperti (i profeti) dicono venire dall'Essere ultimo, dallo Spirito di bene che da lui promana. Una realtà ben complessa ma che, secondo Gesù, si raccoglie nell'appellativo "padre", termine anch'esso improprio se si pensa a quanti sulla terra si fregiano indegnamente di tale nome, ma vale a dare un'idea di ciò che si è invitati a chiamare Dio. "Lo vedremo così com'è", afferma enfaticamente l'autore della I Lettera di Giovanni (3,2), ma è solo un auspicio più che una notizia.


Il nuovo pontificato sarà quindi una attuazione totale e austera della riflessione teologica che ha contraddistinto negli anni passati il ruolo svolto da Ratzinger?
Si spera che i fatti smentiscano le previsioni, ma stando alle dichiarazioni della vigilia sulla "dittatura del relativismo", sembra essere in vista una restrizione della libertà di opinione, ciò che equivale ad una recrudescenza del "dogmatismo teologico", la vera "dittatura" operata abitualmente dalle Istituzioni religiose, tutte tendenti a soggiogare le menti e persino le coscienze dei "sudditi". Sarebbe molto più semplice tornare alla purità della fede, accontentandosi di ricondurre gli uomini a un riferimento superiore o soprannaturale e rilasciare a ciascun individuo e alla stessa collettività, a seconda del grado della sua cultura e delle categorie di cui dispone, le formulazioni teoriche che ritiene più pertinenti. La pretesa che vi sia una sola maniera di rapportarsi con la verità non è più ammissibile dopo la scoperta della provvisorietà della conoscenza umana e della precarietà dei modi di comunicazione (vedi filosofia del linguaggio).


L'adozione della provvisorietà della conoscenza umana e della sua precarietà può legittimare un'interpretazione distorta dei riferimenti cristiani che stanno alla base della fede. È questa la considerazione da cui parte il pensiero di Ratzinger e che determina la politica "della certezza e della verità"?
Il cristianesimo non va alla deriva se nell'alveo comunitario circolano maniere diverse di intendere il Vangelo; casomai il suo messaggio diventa lettera morta. Anche le "verità" contenute nei libri sacri non sono assolute, poiché gli scritti degli ispirati non cessano di essere elaborati di uomini di un determinato periodo storico, di una particolare maturità spirituale, proporzionata al loro tempo, quindi limitata, imperfetta, imprecisa, e perciò relativa. Anche se (per il credente) qualche sprazzo di verità vi si può vedere contenuto, questo non coincide con la formulazione che gli è stata data. Ergersi contro il relativismo (che non è indifferenza o agnosticismo) significa rifiutare il pluralismo, chiudersi al dialogo, al progresso filosofico, teologico, biblico, non andare verso il futuro, ma tornare indietro, anche se senza proprio volere arrivare alla Controriforma (= inquisizione) o al Medioevo (i roghi).
Il secondo polo su cui sembra instaurarsi il pontificato di Benedetto XVI è la centralità di Cristo. Non è mai fuori posto; è sempre il punto di partenza e convergenza della fede cristiana, ma Cristo non è la cristologia, né di Efeso né di Calcedonia, nemmeno del Vaticano I o del Vaticano II; è solo una testimonianza di vita sconvolgente che si è invitati a riattualizzare più che a riformulare con maggiore esattezza. E il Cristo non si può comprendere al di fuori dei quadri della comune antropologia. Se non si parte da una piena identità tra Gesù e gli altri componenti della famiglia umana non si vede come si possa continuare a proporre l'ideale cristiano ai poveri mortali. Se Gesù usufruendo della sua potenza e chiaroveggenza divina ha trovato facile svolgere il suo compito, compiere il bene, perdonare persino i crocifissori mentre ai suoi "seguaci" rimane tutto arduo, quasi impossibile, è un assurdo, quasi un'irrisione stare a riproporre la sua "imitazione", che è senz'altro il perno del Vangelo.


Come intendere, dunque, il comando di Gesù "Fate questo in memoria di me"?
La storia ha sì il corso che Dio gli ha impresso, ma il cammino concreto è quello che l'uomo riesce a dare facendo leva sulle sue doti e sul proprio senso di responsabilità. Anche Gesù ha dovuto fare la sua parte seguendo i dettami dello Spirito, ossia del suo io migliore, della coscienza. Egli è chiamato salvatore non tanto perché ha placato l'inesistente ira dell'Essere divino o perché ha rimesso in ordine le pedine spostate da sedicenti progenitori, ma perché ha compiuto scelte giuste contrapponendosi coraggiosamente ai tiranni sia notori (Cesare) che meno, come a quelli del sapere (i dottori della legge), dello spirito (gli scribi e i farisei), del sacro (il clero) a favore degli oppressi, degli emarginati, degli esclusi (i "peccatori", gli "impuri"), prospettando per tutti un'era di prosperità (pace) e benessere totale. Un programma appena avviato ma che, a quanti vogliono mettersi alla sua scuola, cioè ripercorrere le sue orme, ha proposto o imposto di portare al suo ultimo compimento. Il comando "Fate questo in memoria di me" è l'espressione della sua ultima volontà, il testamento lasciato a quanti sono in ascolto della sua parola. Più che un rito è un compito, un servizio, un impegno da assumersi anche a rischio della propria vita (spezzare il corpo e versare il sangue!) per il bene delle moltitudini.
Gesù guarda anche oltre la storia ma in primo luogo invita a rimanere saldi alla prospettiva terrena fino a rendere il mondo di quaggiù sempre più "simile" a quello dell'alto. La "risurrezione" non è un'alienazione ma il compimento del "Regno di Dio" che è il luogo della felicità di tutti e di tutto l'uomo. La convergenza degli animi, la comunione diviene possibile solo grazie alla reciproca comprensione, la carità non la verità di ognuno ha inevitabilmente la sua rispettabile interpretazione. Messe insieme tutte le varie e variegate versioni si raggiunge il sapere pur sempre provvisorio dell'uomo.
Il teologo Ratzinger ha avuto all'inizio della sua carriera scolastica delle felici intuizioni sulla Chiesa, il papato, il popolo di Dio, ecc. che poi gli sono passate di mente quando ha cominciato a ricoprire incarichi ecclesiali, chissà che ora che è libero da ogni preoccupazione non gli tornino alla memoria e non si provi a dar loro attuazione. Sarebbe il vero miracolo operato dallo Spirito Santo, più che dentro, al di fuori del conclave. È quanto i più si ripromettono e sinceramente si augurano.

ADISTA n° 36 del 14.5.2005