INTERVISTA
Abbagliati dall'immagine o interpellati dall'ascolto?
Due religioni e religiosità diverse. Un giudizio su papa Giovanni Paolo II del biblista Giuseppe Barbaglio: «Wojtyla è stato un solista dagli accenti monocratici e non una voce espressiva della comunione delle chiese e della collegialità episcopale». Una intervista di Rossana Rossanda
ROSSANA ROSSANDA

G iuseppe Barbaglio è biblista, studioso delle origini cristiane. Ha pubblicato fra l'altro Le lettere di Paolo (Borla, Roma 1990), Dio violento?, lettura delle scritture ebraiche e cristiane (Cittadella, Assisi 1990 e tradotto in Francia da Senie nel 1994), Gesù ebreo di Galilea, indagine storica (Edizioni Dehoniane; Bologna 2003 in diverse ristampe) e il recentissimo Il pensare dell'apostolo Paolo (sempre Edb, 2004).

Per un bilancio del papato di Wojtyla è stato severo il giudizio di Hans Küng: Giovanni Paolo II ha rovesciato il Vaticano II, puntando al ritorno alla chiesa preconciliare. Sei d'accordo?

Sì, sono d'accordo: il monolitismo del suo «governo» ha disatteso la realtà complessa delle chiese locali, l'importanza della collegialità episcopale e delle conferenze episcopali nazionali e continentali, cioè la partecipazione dell'episcopato alla conduzione della chiesa. Paolo di Tarso parla soprattutto di chiese al plurale , la chiesa che abita a Corinto, le chiese della Galazia, i santi che sono a Filippi. Tutta la grazia ecclesiale è nelle singole comunità, che non sono parti di un tutto - la chiesa cattolica - ma individuazioni diverse della stessa realtà di chiesa appartenente a Dio e a Cristo. Nelle singole comunità l'apostolo riconosce a ciascun credente uno specifico ruolo attivo di «costruttore» della stessa comunità. Invece qui abbiamo molto papa, poco le chiese: un papa re o monarca assoluto che governa mediante la sua curia.

Non c'era già stato un rallentamento della spinta innovatrice del Vaticano XII al tempo del tormentato Paolo VI? A distanza, come ne definiresti l'apporto teologico più innovativo? Per capire quali modifiche, o limitazioni, vi ha apportato Wojtyla. Oppure la sua è stata più che altro una pratica di governo?

Paolo VI ha condotto in porto il concilio iniziato da Giovanni XXIII e ha attuato alcune iniziative peculiari del Vaticano II, come la riforma liturgica, l'istituzione di organi di partecipazione ecclesiale e guardando in basso i consigli pastorali nelle singole parrocchie. L'apporto innovativo del Vaticano II è stato soprattutto il fatto di esserci stato: l'assemblea di tutte le chiese cattoliche del mondo che insieme con il papa, dopo accese discussioni e fecondi scambi di vedute, ha deliberato mediante i suoi rappresentanti sui più scottanti problemi della presenza cristiana nel mondo. Chiesa e mondo ne è stato il baricentro. Con Giovanni Paolo II il pendolo è ritornato con forza sul ruolo del papa interpretato non come voce espressiva della comunione delle chiese, bensì quale solista dagli accenti monocratici. Certo, il papa si è confrontato con forza con il mondo contemporaneo, ed è un merito, ma al binomio di chiesa-mondo è subentrato quello di papa-mondo .

E' significante il suo culto per Maria? Il suo motto «Totus tuus», al di là dell'aspetto psicologico, che significa sotto quello della rivelazione e della fede? Se non sbaglio è un culto che sta andando crescendo rispetto ai primissimi secoli.

In Giovanni Paolo II è non solo il segno chiaro di una religiosità popolare, erede, penso, di una intensa devozione mariana polacca, ma anche e soprattutto la testimonianza di uno sviluppo non privo di aspetti degenerativi di secoli di cristianesimo e di cattolicesimo, culminato nei dogmi mariani dell'Immacolata Concezione (Pio IX a metà del 1800) e dell'Assunzione in cielo di Maria anima e corpo (Pio XII a metà del 1900), che hanno inferto duri colpi alla comunione cristiana con Ortodossi, Protestanti, Anglicani. Il culto di Maria nei secoli ha avuto una svolta pericolosa e persino deleteria quando dall'interesse del cristianesimo delle origini di Maria vista in funzione di Cristo (la madre, il concepimento verginale di Gesù) e della chiesa (Maria icona ideale della comunità dei credenti che accolgono e meditano la parola di Dio così il vangelo di Luca), si è passati ad esaltare la sua persona, come appare per esempio nella credenza della sua verginità ante partum, in partu e post partum, e più tardi nell'assioma di S. Bernardo assurto a norma della riflessione mariana: De Maria nunquam satis (Maria non possiamo mai esaltarla abbastanza).

Riflettendo sulla sparizione nei monoteismi del femminile come principio cosmico, tu rivedevi soprattutto un processo più profondo di astrazione dell'idea di Dio. Su questo io non conosco le tesi di Wojtyla, che oppongono un «pensato altro» alla secolarizzazione.

Il monoteismo ebraico, all'origine di quello cristiano, si è di fatto contrapposto alle religioni naturalistiche dell'ambiente e del tempo, incentrate sul culto della fertilità e della fecondità. Le divinità erano personificazioni delle forze vitalistiche della natura, diadi divine maschili-femminili con al centro il sesso come fonte di fecondità e fertilità. Il popolo ebraico si è invece raffigurato un dio asessuato, dunque solo, senza accompagnamento di alcuna paredra cui unirsi sessualmente e così donare agli uomini e agli animali i beni della natura. Un dio della storia , che ha liberato il suo popolo oppresso in Egitto, e non della natura . Dunque un dio che si rapporta agli uomini sul piano delle relazioni personali: ha scelto Israele, chiamato a decidersi liberamente per lui; gli ha dato una legge morale e rituale da praticare responsabilmente; lo ha eletto come partner di un patto liberamente sancito. Vorrei dire in proposito che la storia gioca strani scherzi: oggi la chiesa cattolica fonda buona parte della propria etica sessuale sulla natura, mentre la tradizione originaria ha assegnato il primato alla persona. Di fatto il magistero cattolico in materia si rifà all'etica stoica di marca immanentistica: agire secondo natura ( kata physin ), non comportarsi contro natura ( para physin ).

Ancora sul culto di Maria, esso non mette di fatto a margine la Trinità - sempre ammesso che un fedele normale (di quelli che facevano la fila davanti a S. Pietro) della Trinità sappia qualcosa? O Maria è per Wojtyla soprattutto un culto devozionale, più alla mano, una religiosità più facile - meno da adulti direbbe Bonhoeffer - rispetto a una fede difficile? Paolo come ne parla? Esso non rende in ogni caso più impervia la riunificazione delle chiese cristiane?

Non c'è dubbio che l'iperculto mariano, sorretto più da entusiasmi emozionali che non da ragioni teologiche approfondite, costituisca un ostacolo sul cammino del dialogo ecumenico delle chiese cristiane. Come è indubbio che in un clima surriscaldato di apparizioni di Maria, di pellegrinaggi ai santuari mariani, di segreti di Fatima, di salvataggio miracoloso del papa per mano di Maria, la centralità di Cristo morto e risorto finisca per essere disattesa o almeno marginalizzata. Non è senza significato che in Paolo, missionario e interprete del vangelo di Cristo, del cuore dell'annuncio cristiano, non appaia alcun accenno a Maria.

Quanto all'immagine della donna non la restituisce alla tradizione (niente sacerdozio per minore, suppongo, qualità e purezza intellettiva, la genialità femminile pensata come mero supporto e pietà al pensare e fare maschile) abbigliandola di belle parole? O è un escamotage del difficile rapporto con la sessualità?

Le conseguenze sul piano strettamente antropologico sono essenzialmente due: anzitutto la concezione della donna viene unilateralmente incentrata nella maternità (Maria madre). Inoltre l'ideale di Maria sempre vergine porta non a un rifiuto ma a una severa riserva sulla dimensione sessuale di maschi e di femmine. Il documento ultimo di Ratzinger sulla donna, a mio avviso, costituisce un passo avanti rispetto ai documenti precedenti, però ancora unilateralmente al «genio femminile» alle disponibilità ai bisogni dell'uomo, una disponibilità a senso unico. Mentre quando Paolo esorta a vivere non per se stessi, bensì per gli altri, si riferisce a tutti i credenti, uomini e donne, e la sua esortazione ha valore di reciprocità.

Secondo. Questo papa e l'avversità al dilatarsi della comunità ecclesiale alla base? Penso alle comunità di base, alla teologia della liberazione, a «Noi siamo chiesa», a quel che pensa Küng o hanno fatto alcuni francesi? Quali sono state le correnti cattoliche più avversate da Wojtyla?

In breve ha avversato tutte le correnti che non si muovevano sulla sua lunghezza d'onda. Soprattutto è stato molto duro con i rappresentanti della teologia della liberazione dell'America Latina e con la pastorale di padre Arrupe, generale dei gesuiti. Dopo tutto, la sua concezione monarchica del papa che decide lui solo senza ascoltare la voce delle chiese locali, non poteva non portarlo sulla strada della «repressione» ecclesiale. Mi si permetta in proposito un riferimento a Paolo che scrivendo ai credenti di Corinto definisce la chiesa locale corpo, corpo sociale che appartiene a Cristo, in cui essenziali sono la pluralità, la diversità e la solidarietà delle molte membra, a tal punto che in assenza di queste non c'è corpo, non c'è chiesa di Cristo.

Terzo. Secondo me il peso «politico» di questo papa si è incrociato con la crisi del comunismo più che produrla: perfino in Polonia, dove l'irrequietezza sociale è cominciata prima che altrove ma dal 1970 (Stettino scioperi, scioperi dei metalmeccanici per tutto il decennio che preludono al 1980). Questa forse ha avuto influenza su di lui più che viceversa, più che distruggere il comunismo ne ha cavalcato la crisi. Oppure no? Lo stesso per la critica al capitalismo; è la tradizionale condanna del ricco o riflette in qualche modo sulla questione sociale?

Credo anch'io che la crisi del comunismo abbia avuto cause interne molto profonde e il suo disfacimento ne sia stato la conseguenza ultima; ma in materia non ho alcuna competenza. Quanto alla critica del capitalismo credo che vi sia implicata non tanto la tradizionale critica del ricco, quanto piuttosto una visione negativa dello stile di vita attuale imperante nell'occidente, imperniato, si dice, sull'edonismo, l'individualistica affermazione di sé, la riduzione dell'uomo a produttore di merci e di beni, la cosificazione delle esperienze sessuali ( fare sesso).

Infine il fenomeno, senza precedenti nella modernità, dei funerali. Dice qualcosa del suo rapporto con i media ma non prova anche le incertezze della folla, il bisogno cieco d'un padre, una soluzione facile, emotiva, affettiva? Non indica una crisi del laicismo come sottolineatura delle responsabilità terrene? Mentre tutti si accalcavano per «vedere» quel cadavere le chiese erano vuote. Avevano bisogno del corpo di un padre, più che del vicario di Cristo: o no?

I funerali, nella loro mondanità e sfoggio di splendore e potenza, non sono che il risultato scontato di un'altra caratteristica del papa defunto, che è stato e ha voluto essere una grande star televisiva, la più grande star televisiva dei nostri tempi. Ho sentito un commentatore televisivo che diceva: «Il papa ha portato la sua icona nel mondo». Esatto: si è affidato al trionfo dell'immagine da guardare, contemplare, di fronte alla quale estasiarsi nel senso letterale del termine: uscire dalla quotidianità del vivere e sostare in una sfera di luce che compenserebbe una vita impregnata, troppo spesso e troppo duramente, di ombre e di tenebre. Vorrei approfondire in breve. C'è una religione, meglio una religiosità, di carattere epifanico, dell' epifania del dio, della sua apparizione ai mortali, abbacinati da luce divina, spettatori di un evento esaltante. Quante volte alla televisione nei giorni scorsi abbiamo sentito parlare di evento, evento straordinario, evento mediatico! Un evento teatrale, non di vita vissuta, un evento di immagine, un evento che alla fine non è propriamente evento, accadimento nella vita e nella storia degli uomini, ma una rappresentazione scenica. Di fronte al quale si è passivi quanto a decisioni e a prese di coscienza, o anche attivi ma solo sul piano emozionale: lacrime copiose, gioia incontenibile, acclamazioni. Di fronte al quale si è massa amorfa. C'è poi una religione, e religiosità, di carattere profetico, imperniata sulla parola, sul messaggio, sull'annuncio, sull'appello, di fronte al quale l'ascoltatore è posto in stato di decisione: può accogliere o rifiutare. Se la religione epifanica è simboleggiata dall'occhio, quella profetica lo è dall'orecchio. «Ascolta, Israele....»: così l'inizio del credo israelitico e della preghiera secolare degli ebrei. Nel Deuteronomio Mosè sfida così il popolo sempre alla ricerca dell'icona del vitello d'oro: al Sinai voi non avete avuto alcuna visione; nessuna immagine di Dio è apparsa ai vostri occhi; avete soltanto ascoltato la voce ( qôl ) del Signore. E il prologo del vangelo di Giovanni: La Parola di Dio è diventata «carne», uomo caduco e mortale. Certo, Giovanni Paolo II ha compiuto gesti profetici, cioè parlanti, di grande rilevanza: uno solo, la visita al muro del pianto a chiedere perdono. Ma preponderante nella sua vicenda su scala mondiale è stata la sua immagine: ha portato la sua icona per le strade del mondo, un'icona da venerare ed esaltare. Non per nulla è stato più ammirato che ascoltato. Religiosità epifanica coniugata con il culto della personalità straordinaria.

il manifesto del 19.4.2005