IL PAPA E IL PAPATO


 
di José María Castillo

da ADISTA n° 59 del 30.5.2009

Non c’è dubbio che l’esercizio del papato sia estremamente difficile. Benedetto XVI dice di sentirsi solo. E, anni fa, Paolo VI e Giovanni Paolo II avevano chiesto aiuto a vescovi e teologi per cercare nuovi modi di esercitare il “ministero di Pietro”, cioè il papato. Il problema di fondo non risiede principalmente nella persona del papa (se è conservatore o progressista, di questa o quella tendenza…), ma nell’incarico in quanto tale, vale a dire nella modalità e nella forma che il papato ha finito per assumere.

È chiaro che un’istituzione di livello mondiale come la Chiesa cattolica ha bisogno di un’autorità sovranazionale che possa coordinare le attività che travalicano le frontiere e risolvere i problemi che non possono essere affrontati localmente. Però è altrettanto sicuro che una simile autorità può organizzarsi in modi molto diversi. Può essere un’autorità democratica o, piuttosto, monarchica. La forma più antica nella Chiesa è stata la democrazia. La stessa parola Ecclesia è stata tratta dal linguaggio tecnico della democrazia greca e indicava l’‘assemblea’ dei cittadini liberi, riuniti per prendere le proprie decisioni. Così ha funzionato la Chiesa per più di mille anni, fino all’XI secolo. In quei secoli i grandi difensori della democrazia nella Chiesa furono proprio i papi. Esemplare il testo di san Leone Magno (s. V): “Colui che deve essere posto alla testa di tutti, deve essere eletto da tutti” (Epist. 14, 4). D’altra parte, in quei secoli, il vescovo di Roma non ricopriva il ruolo di oggi. A partire da Giustiniano (s. VI), la Chiesa fu governata da cinque patriarcati: Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme (Novella 109). Roma aspirò sempre alla presidenza, basandosi sulla tradizione secondo cui san Pietro era sepolto lì. Ma è rilevante che san Gregorio Magno si rifiutò sempre di essere designato come “papa universale”. D’altronde, l’esercizio del governo non era concentrato nelle mani di alcun patriarca, neanche di quello d’Occidente (Roma), ma era diviso tra tutti i vescovi che, nei sinodi locali, prendevano le decisioni dottrinali e di governo. Si sa anche che il testo di Matteo 16, 18-19, che ora si applica al primato di Pietro, in tutto il Medioevo veniva riferito ai dodici apostoli ed era letto durante la cerimonia di ordinazione dei vescovi. Si aveva coscienza che gli Apostoli avevano ricevuto lo stesso ‘onore’ e la stessa ‘potestà’ di Pietro (Yve Congar).

A partire dal 1073, Gregorio VII prese la decisione più importante della storia del papato: decise di concentrare tutto il potere nelle mani del vescovo di Roma. Una decisione che si rafforzò nei secoli seguenti, soprattutto a partire da Innocenzo III (1196-1216), i cui teologi inventarono la teoria della plenitudo potestatis, cioè, in pratica, del papa come padrone assoluto del mondo: una follia che non si poté equilibrare neanche con il Grande Scisma, quando dal 1409 la Chiesa si trovò con tre papi, nessuno dei quali disposto a rinunciare. Il Concilio di Costanza (1415) affermò che il concilio era al di sopra del papa, il che equivaleva a dire che l’episcopato era al di sopra del papato. Questa decisione fu ratificata dal Concilio di Basilea (1431). Ma durò poco, dal momento che il Concilio di Firenze (1439) stabilì che la “Sede apostolica e il Pontefice romano possiedono il primato nell’universo intero”. Così rimasero le cose fino al Vaticano II, che, nella Costituzione sulla Chiesa (n. 22) dichiara che il papa ha una potestà piena, suprema e universale, nella Chiesa, ma aggiungendo immediatamente che anche l’episcopato mondiale, insieme al papa, detiene questa potestà. Senza tuttavia specificare come armonizzare nella pratica questi due poteri.

L’attuale Codice di Diritto Canonico ha risolto giuridicamente questo enorme problema teologico, affermando il potere supremo del papa su tutti i vescovi e su tutta la Chiesa (Can. 331 e 333). Per cui la Chiesa intera è rimasta alla mercé delle decisioni di un solo uomo. Cosa che non trova sostegno né nel nuovo Testamento né nella tradizione della Chiesa nei suoi venti secoli di storia.

Questa situazione ha, soprattutto, tre gravi conseguenze: 1) Finché il papato resterà così, sarà impossibile l’unione dei cristiani. Perché le altre confessioni cristiane conoscono bene la storia che io ho riassunto in poche righe. E questi cristiani non si sentono, e non possono sentirsi, in coscienza motivati a sottomettersi a un potere che non trova giustificazione nella fede cristiana. 2) Il papato così organizzato, come monarchia assoluta, rende anche impossibile alla Chiesa far propri e integrare nella sua vita (e nelle sue relazioni internazionali) i Diritti umani. Per cui i problemi e i conflitti con i poteri pubblici e con la cultura contemporanea saranno perenni, come lo stiamo vivendo quotidianamente ovunque. Il papato continuerà ad esortare gli altri a rispettare i Diritti umani, ma la Chiesa continuerà a non farlo. Con le conseguenti aggressioni violente alle persone, ai gruppi umani e alle istituzioni pubbliche. 3) Stando così le cose, la Chiesa vive e vivrà in costante contraddizione con il Vangelo. Gesù non permise mai che al-cuno degli apostoli pretendesse di essere il primo, il più importante, co-lui che stava al di sopra degli altri. Questo fatto, tanto fondamentale e tanto insistentemente ripetuto nei vangeli, non è stato integrato nella teologia del papato. E questo è importante quanto quello del “Tu sei Pietro…”, se non di più. Non si può prendere dal Vangelo ciò che conviene e lasciare ciò che non fa comodo.

Sono d’accordo sul fatto che Benedetto XVI abbia preso un cammino sbagliato. Perché è un cammino di regresso, non di progresso. Il problema, però, non è nel papa, ma nel papato.

* teologo spagnolo