Repubblica, 26 gennaio 2010
Nel mese di agosto del 2009 il re saudita Abdullah ha
  festeggiato il primo raccolto di riso realizzato in Etiopia. E al riso
  seguiranno orzo e grano. Cresciuta in mezzo al deserto come tutti gli Stati
  del Golfo, l’Arabia Saudita ha scelto di risolvere il problema del cibo
  accaparrandosi terre coltivabili sull’altra sponda del Mar Rosso, nel Corno
  d’Africa: in Paesi come l’Etiopia, con 10 milioni di affamati, o come il
  Sudan, che non riesce a uscire dall’immensa tragedia del Darfur. È un
  fenomeno nuovo (iniziato circa 15 mesi fa) e ancora poco studiato (anche perché
  la maggior parte degli accordi è segreta): è il diabolico furto di terra e
  cibo al continente più affamato e povero del mondo. Milioni di ettari in
  Etiopia, Ghana, Mali, Sudan e Madagascar sono stati ceduti in concessione per
  venti, trenta, novant’anni alla Cina, all’India, alla Corea, in cambio di
  vaghe promesse di investimenti. Seul possiede già 2,3 milioni di ettari,
  Pechino ne ha comprati 2,1, l’Arabia Saudita 1,6, gli Emirati Arabi 1,3. I
  protagonisti e anche questa è una novità – sono i governi: da una parte ci
  sono Paesi che hanno soldi e bisogno di terra. Dall’altra governi
  poverissimi – e spesso corrotti – che, in cambio di un po’ di denaro,
  tecnologia e qualche infrastruttura, mettono a disposizione senza indugio il
  bene più prezioso di un continente ancora prevalentemente agricolo: la terra.
  D’altra parte quasi nessun contadino africano può provare di possedere un
  terreno. Il diritto formale di proprietà (o di affitto) riguarda dal 2 al 10%
  delle terre. Nella maggioranza dei casi ci si affida a norme tradizionali,
  riconosciute localmente, ma non dagli accordi internazionali. E così terre
  abitate, coltivate e usate come pascolo da generazioni sono considerate
  inutilizzate. C’è chi si porta da casa anche la manodopera, come la Cina,
  che ormai dal 2000 sta incentivando l’emigrazione in Africa come soluzione
  al problema demografico. Nel loro nuovo far west, 800 mila cinesi gestiscono
  imprese, costruiscono ferrovie, strade, dighe, si appropriano delle materie
  prime (petrolio, minerali, legno) e piazzano prodotti a buon mercato. Accanto
  ai governi, ci sono gli investitori privati: dopo la crisi finanziaria, molti
  hanno iniziato a guardare a beni di investimento più tangibili: il settore in
  cima alla lista è la terra (cibo e biocarburanti). Non a caso, nell’agosto
  del 2009, a New York, si è svolta la prima conferenza del commercio mondiale
  di terre coltivabili... Che cosa succede nelle terre africane quando arrivano
  gli investitori stranieri? Si passa dall’agricoltura tradizionale – basata
  sulla diversità, sulle varietà locali, sulle comunità –
  all’agroindustria: che significa monocolture destinate all’esportazione
  (riso, soia, olio di palma per biocarburanti...) e ricorso massiccio alla
  chimica (fertilizzanti e pesticidi). Quando i terreni saranno completamente
  impoveriti, gli investitori stranieri potranno facilmente spostarsi da
  un’altra parte. Una formula vecchia, che riporta indietro di
  cinquant’anni, alla cosiddetta "rivoluzione verde", avviata negli
  anni Sessanta con i soldi della Fondazione Ford, della Fondazione Rockefeller
  e della Banca Mondiale per aumentare la produzione di cibo nei Paesi poveri,
  puntando su tecnologia e monocolture. Le prove del completo fallimento di
  questa strategia sono incontrovertibili. Un dato su tutti: nel 1970 i
  sottoalimentati in Africa erano 80 milioni. Dieci anni dopo questo numero è
  raddoppiato, per raggiungere i 250 milioni di persone nel 2009. Eppure, in
  nome della sicurezza alimentare, si sta cercando di rilanciarla con il
  programma Agra (acronimo di "Alliance for a Green Revolution in
  Africa", ovvero "alleanza per una rivoluzione verde"). Uno dei
  suoi prodotti simbolo è il riso Nerica ("New Rice for Africa",
  "nuovo riso per l’Africa"). Un riso che dà alte rese solo se
  coltivato con tecniche industriali e sostanze chimiche. I semi (venduti in
  esclusiva da pochissime aziende che fanno soldi a palate) devono essere
  riacquistati ogni anno. Un sistema impraticabile per i piccoli contadini di
  Paesi come il Mali o la Liberia, che possiedono e si tramandano da generazioni
  decine di ecotipi tradizionali di riso. Chi c’è dietro questa strategia? I
  soliti nomi – la Fondazione Rockefeller, la Banca Mondiale, l’Usaid
  (l’agenzia per lo sviluppo internazionale degli Stati Uniti) – e poi un
  nuovo, potentissimo protagonista: Bill Gates, che ha deciso di dedicarsi alla
  solidarietà... Il riso è solo un esempio: Agra sta promuovendo decine di
  varietà selezionate e brevettate (nuove varietà di cassava, sorgo, mais...);
  le aziende sementiere nascono come funghi; i contadini ricevono pacchetti di
  sementi e fertilizzanti (gratis per un anno, scontati per altri tre o quattro
  anni). E i prodotti tradizionali, che hanno nutrito generazioni di contadini
  africani, scompaiono. Nel 1960 – all’alba della decolonizzazione – i
  Paesi africani producevano cibo a sufficienza per il consumo domestico, anzi
  riuscivano addirittura a esportare. Oggi, invece, sono costretti a importare
  la maggior parte degli alimenti. A Sandaga, il più grande mercato alimentare
  nell’Africa occidentale (nel cuore di Dakar) si possono comprare frutta e
  ortaggi portoghesi, spagnoli, italiani, greci a metà del prezzo degli
  equivalenti locali. E questo vale per tutti i prodotti: dalle ali di pollo
  degli allevamenti industriali europei al cotone americano al riso tailandese.
  L’agro-industria occidentale, grazie a giganteschi sussidi pubblici, piazza
  le proprie eccedenze sottocosto sui mercati poveri, rovinando i contadini
  locali. In mare la situazione non è meno grave. Le flotte di Europa, Cina,
  Giappone e Russia devastano i litorali africani, comprando le licenze di pesca
  dai governi locali e pescando in modo indiscriminato. E così si disgregano le
  comunità costiere (in Africa vivono di piccola pesca nove milioni di
  persone): i pescatori si trasformano in operai per le fabbriche del pesce
  (gestite da compagnie straniere) e spesso sono costretti a vendere le barche a
  prezzi stracciati ai passeurs di esseri umani. Su queste piccole barche –
  inadatte alla navigazione in alto mare – ogni anno muoiono migliaia di
  disperati in cerca di una vita migliore. Insomma, non possiamo fare altro che
  sottoscrivere le parole del sociologo Jean Ziegler: «Da una parte si
  organizza la fame in Africa, dall’altra si criminalizzano i rifugiati della
  fame». E quelle di Thomas Sankara, rivoluzionario e capo del governo del
  Burkina Faso per qualche anno, prima di essere ucciso nel 1987, in un agguato
  organizzato dall’attuale presidente: «Bisogna restituire l’Africa agli
  africani». Postilla Vendere la terra di tutti per qualche promessa di strade
  e “sviluppo” che, seppure mantenuta, favorisce pochi. Lo fanno in Africa i
  governi corrotti, a favore dei più ricchi. Ma non è quello che fanno i
  nostri governanti locali quando inseriscono nei piani urbanistici grandi
  operazioni immobiliari finalizzate solo allo “sviluppo del territorio”
  (cioè alla sua cementificazione)? L’Africa è una tragedia della civiltà
  nordatlantica provocata lontana dai suoi confini, ma è anche la metafora di
  ciò che accade da noi