Rodotà, Gallino e altri: Appello a sostegno della Fiom

da il Manifesto, 29 dicembre 2010

46 economisti contro Marchionne - Produrre e lavorare meglio, con democrazia Lettera degli economisti sulla Fiat http://sbilanciamoci.info/  - 07/01/2011

 

Mirafiori peggio di Pomigliano di Marco Revelli, da cadoinpiedi.it  - 3 gennaio 2011

Padroni che sbagliano Alessandro Robecchi il manifesto, 2 gennaio 2011

Da Pomigliano a Mirafiori, la Costituzione è carta straccia Con la Fiom per difendere le libertà e i diritti di tutti di Paolo Flores d’Arcais, il Fatto Quotidiano, 30 dicembre 2010

L'America a Torino di LUCIANO GALLINO la Repubblica 24 dicembre 2010

 


 

46 economisti contro Marchionne

 

Produrre e lavorare meglio, con democrazia

Lettera degli economisti sulla Fiat

 

 http://sbilanciamoci.info/  - 07/01/2011

 

Il conflitto Fiat-Fiom scoppiato a fine 2010 sul progetto per lo stabilimento di Mirafiori a Torino – che segue l’analoga vicenda per lo stabilimento di Pomigliano d’Arco – è importante per il futuro economico e sociale del paese. Giornali e tv presentano la versione Fiat, sostenuta anche dal governo, per cui con la crescente competizione internazionale nel mercato dell’auto i lavoratori devono accettare condizioni di lavoro peggiori, la perdita di alcuni diritti, fino all’impossibilità di scegliere in modo democratico i propri rappresentanti sindacali.

 

Vediamo i fatti. Nel 2009 la Fiat ha prodotto 650 mila auto in Italia, appena un terzo di quelle realizzate nel 1990, mentre le quantità prodotte nei maggiori paesi europei sono cresciute o rimaste stabili. La Fiat spende per investimenti produttivi e per ricerca e sviluppo quote di fatturato significativamente inferiori a quelle dei suoi principali concorrenti europei, ed è poco attiva nel campo delle fonti di propulsione a basso impatto ambientale. A differenza di quanto avvenuto tra il 2004 e il 2008 – quando l’azienda si è ripresa da una crisi che sembrava fatale – negli ultimi anni la Fiat non ha introdotto nuovi modelli. Il risultato è stata una quota di mercato che in Europa è scesa al 6,7%, la caduta più alta registrata nel continente nel corso del 2010.

 

Al tempo stesso, tuttavia, nel terzo trimestre del 2010 la Fiat guida la classifica di redditività per gli azionisti, con un ritorno sul capitale del 33%. La recente divisione tra Fiat Auto e Fiat Industrial e l’interesse ad acquisire una quota di maggioranza nella Chrysler segnalano che le priorità della Fiat sono sempre più orientate verso la dimensione finanziaria, a cui potrebbe essere sacrificata in futuro la produzione di auto in Italia e la stessa proprietà degli stabilimenti.

 

A dispetto della retorica dell’impresa capace di “stare sul mercato sulle proprie gambe”, va ricordato che la Fiat ha perseguito questa strategia ottenendo a vario titolo, tra la fine degli anni ottanta e i primi anni duemila, contributi pubblici dal governo italiano stimati nell’ordine di 500 milioni di euro l’anno.

 

A fare le spese di questa gestione aziendale sono stati soprattutto i lavoratori. Negli ultimi dieci anni l’occupazione Fiat nel settore auto a livello mondiale è scesa da 74 mila a 54 mila addetti, e di questi appena 22 mila lavorano nelle fabbriche italiane. Le qualifiche dei lavoratori Fiat sono in genere inferiori a quelle dei concorrenti, i salari medi sono tra i più bassi d’Europa e la distanza dalle remunerazioni degli alti dirigenti non è mai stata così alta: Sergio Marchionne guadagna oltre 250 volte il salario di un operaio.

 

Questi dati devono essere al centro della discussione sul futuro della Fiat. L’accordo concluso dalla Fiat con Fim, Uilm e Fimsic per Mirafiori – che la Fiom ha rifiutato di firmare – prevede un vago piano industriale, poco credibile sui livelli produttivi, tanto da rendere improbabile ora ogni valutazione sulla produttività. L’accordo appare inadeguato a rilanciare e qualificare la produzione, e scarica i costi sul peggioramento delle condizioni dei lavoratori. Sul piano delle relazioni industriali i contenuti dell’accordo sono particolarmente gravi: l’accordo si presenta come sostitutivo del contratto nazionale di lavoro, e cancellerebbe la Fiom dalla presenza nell’azienda e dal suo ruolo di rappresentanza dei lavoratori che vi hanno liberamente aderito.

 

Il referendum del 13-14 gennaio tra i dipendenti sull’accordo, con la minaccia Fiat di cancellare l’investimento nel caso sia respinto, pone i lavoratori di fronte a una scelta impossibile tra diritti e lavoro. In questa prospettiva, la strategia Fiat appare come la gestione di un ridimensionamento produttivo in Italia, scaricando costi e rischi sui lavoratori e imponendo un modello di relazioni industriali ispirato agli aspetti peggiori di quello americano.

Esistono alternative a una strategia di questo tipo.

 

In Europa la crisi è stata affrontata da imprese come la Volkswagen con accordi sindacali che hanno ridotto l’orario, limitato la perdita di reddito e tutelato capacità produttive e occupazione; in questo modo la produzione sta ora riprendendo insieme alla domanda. Produrre auto in Europa è possibile se c’è un forte impegno di ricerca e sviluppo, innovazione e investimenti attenti alla sostenibilità ambientale; per questo sono necessari lavoratori con più competenze, meno precarietà e salari adeguati; un’organizzazione del lavoro contrattata con i sindacati che assicuri alta qualità, flessibilità delle produzioni e integrazione delle funzioni. E’ necessaria una politica industriale da parte del governo che non si limiti agli incentivi per la rottamazione delle auto, ma definisca la direzione dell’innovazione e degli investimenti verso produzioni sostenibili e di qualità; le condizioni per mercati più efficienti; l’integrazione con le politiche della ricerca, del lavoro, della domanda. Considerando l’eccesso di capacità produttiva nell’auto in Europa, è auspicabile che queste politiche vengano definite in un contesto europeo, evitando competizioni al ribasso su costi e condizioni di lavoro. Su tutti questi temi è necessario un confronto, un negoziato e un accordo con i sindacati che rappresentano i lavoratori dell’azienda.

 

In nessun paese europeo l’industria dell’auto ha tentato di eliminare un sindacato critico della strategia aziendale dalla possibilità di negoziare le condizioni di lavoro e di rappresentare i lavoratori. L’accordo Fiat di Mirafiori riduce le libertà e gli spazi di democrazia, aprendo uno scontro che riporterebbe indietro l’economia e il paese.

 

Ci auguriamo che la Fiat rinunci a una strada che non porterebbe risultati economici, ma un inasprimento dei conflitti sociali. Ci auguriamo che governo e forze politiche e sindacali contribuiscano a una soluzione di questo conflitto che ristabilisca i diritti dei lavoratori a essere rappresentati in modo democratico e tuteli le condizioni di lavoro. Esprimiamo la nostra solidarietà ai lavoratori coinvolti e alla Fiom, sosteniamo lo sciopero nazionale del 28 gennaio 2011 e ci impegniamo ad aprire una discussione sul futuro dell’industria, del lavoro e della democrazia, sui luoghi di lavoro e nella società italiana.

 

Margherita Balconi, Università di Pavia

Paolo Bosi, Università di Modena e Reggio Emilia

Gian Paolo Caselli, Università di Modena e Reggio Emilia

Daniele Checchi, Università Statale di Milano

Tommaso Ciarli, Max Planck Institute of Economics

Vincenzo Comito, Università di Urbino

Marcella Corsi, Università di Roma “La Sapienza”

Pasquale De Muro, Università di Roma Tre

Giovanni Dosi, Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa

Marco Faillo, Università degli Studi di Trento

Paolo Figini, Università di Bologna

Massimo Florio, Università Statale di Milano

Maurizio Franzini, Università di Roma “La Sapienza”

Lia Fubini, Università di Torino

Andrea Fumagalli, Università di Pavia

Mauro Gallegati, Università Politecnica delle Marche

Adriano Giannola, Università di Napoli Federico II

Anna Giunta, Università di Roma Tre

Andrea Ginzburg, Università di Modena e Reggio Emilia

Claudio Gnesutta, Università di Roma “La Sapienza”

Elena Granaglia, Università di Roma Tre

Simona Iammarino, London School of Economics

Peter Kammerer, Università di Urbino

Paolo Leon, Università di Roma Tre

Stefano Lucarelli, Università di Bergamo

Luigi Marengo, Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa

Pietro Masina, Università di Napoli “L’Orientale”

Massimiliano Mazzanti, Università di Ferrara

Marco Mazzoli, Università Cattolica di Piacenza

Domenico Mario Nuti, Università di Roma “La Sapienza”

Paolo Palazzi, Università di Roma “La Sapienza”

Cosimo Perrotta, Università del Salento

Mario Pianta, Università di Urbino

Paolo Pini, Università di Ferrara

Felice Roberto Pizzuti, Università di Roma “La Sapienza”

Andrea Ricci, Università di Urbino

Andrea Roventini, Università di Verona

Maria Savona, University of Sussex

Francesco Scacciati, Università di Torino

Alessandro Sterlacchini, Università Politecnica delle Marche

Stefano Sylos Labini, Enea

Giuseppe Tattara, Università di Venezia

Andrea Vaona, Università di Verona

Marco Vivarelli, Università Cattolica di Piacenza

Antonello Zanfei, Università di Urbino

Adelino Zanini, Università Politecnica delle Marche




 

 

 

 

Mirafiori peggio di Pomigliano

di Marco Revelli,

da cadoinpiedi.it  - 3 gennaio 2011



L'accordo recente su Mirafiori ricalca nelle sue linee generali quello di Pomigliano. Come per Pomigliano, appunto, la Fiat e i sindacati favorevoli alle nuove regole, hanno rivisto la riorganizzazione del tempo di lavoro, i turni, le pause, i diritti. Per Mirafiori, però, penso che addirittura ci sia stato un peggioramento su un punto sostanziale che è stato determinato dall'uscita della FIAT di Marchionne da Confindustria: quello che riguarda la rappresentanza sindacale in fabbrica. Col nuovo accordo non potranno essere rappresentati i lavoratori della Fiom, la rappresentanza aziendale sarà decisa dall'alto, dalle organizzazioni sindacali e solo da quelle che hanno firmato l'accordo. Questo è un punto di peggioramento ulteriore rispetto già all'accordo di Pomigliano.

Avevo definito l'accordo di Pomigliano un atto che reintroduceva la dimensione servile del lavoro, un arretramento non solo rispetto agli anni più recenti, al periodo della democrazia industriale, ma un arretramento rispetto al capitalismo nel suo complesso. Il capitalismo ha anche rappresentato il riconoscimento della persona al lavoro, il superamento della dimensione servile del lavoro. Qui, invece, il lavoro ritorna a essere separato dai diritti del cittadino, da quei diritti garantiti dalla legge, dalla costituzione e dalla civiltà giuridica di un Paese.

L'impresa si definisce in una dimensione di extraterritorialità, come se vivesse in uno spazio diverso da quello del Paese, degli stati, della loro legislazione etc. e tratta il lavoro come risorsa pienamente disponibile senza il riconoscimento della soggettività, della dignità dei soggetti che lavorano.

Per quanto riguarda le recenti dichiarazioni del candidato in pectore a sindaco di Torino, Piero Fassino, stenderei un velo pietoso. Sono atteggiamenti e dichiarazioni che fanno cadere le braccia. Su una vicenda decisiva per quanto riguarda la civiltà del lavoro, trovo desolante la posizione del Partito Democratico di cui Fassino è un degno esponente. Questa formazione, questa organizzazione che rappresenta un nulla politico, tuttavia produce gravissimi danni nel momento in cui questo ceto politico che ha, quantomeno le sue origini, radici nel mondo del lavoro che dovrebbe in qualche maniera essere sensibile alla dignità del lavoro, invoca esplicitamente atteggiamenti che contraddicono nettamente il principio della dignità del lavoro e dei lavoratori.

Non metto in discussione che un lavoratore di Mirafiori schiacciato da una situazione economica per certi versi drammatica, con alle spalle mesi di cassa integrazione, con difficoltà estrema a raggiungere la fine del mese, con magari il mutuo da pagare. Non discuto la scelta di un lavoratore preso per la gola da un padrone onnipotente in grado di scegliere la localizzazione del proprie produzioni, di andarsene in Serbia o in Turchia, piuttosto che a Torino. Che un lavoratore in queste condizioni che voti sì, lo capisco pienamente. Ma un esponente politico che proviene dal movimento operaio che se ne esce con una dichiarazione di questo tipo che contraddice qualsiasi principio di rispetto della persona umana, è uno spettacolo indecoroso.

Come rispondere al "ricatto" della delocalizzazione? Si risponde guardando quello che succede in paesi come la Germania o come la Francia in cui questo tipo di ragionamento non ha molto spazio. Il sindacato e gli operai tedeschi hanno ceduto su alcuni punti, hanno accettato di fare alcuni sacrifici, non hanno mai rinunciato alla propria dignità e ai propri diritti, hanno dei salari che sono di un 30/40% a volte anche 50% superiori a quelli dei lavoratori italiani, hanno un'imprenditoria che ha giocato le proprie carte non nei gironi più bassi del mercato internazionale a un alto livello con buoni investimenti di ricerca e sviluppo, con innovazione tecnologica, con una maggiore dignità dell'imprenditoria e dei sindacati.

In Italia manca la dignità degli imprenditori e dei sindacati. Marchionne fa l'americano. Si diceva che la FIAT si era comprata la Chrysler, è invece evidente che è la Chrysler che si è annessa alla FIAT. La localizzazione in Italia è una variabile dipendente da quello che si decide a Detroit e noi siamo una colonia.

 

Padroni che sbagliano

 

Alessandro Robecchi

 

il manifesto, 2 gennaio 2011
 

Vorrei sapere esattamente, possibilmente con dovizia di particolari, articoli, commi, disposizioni transitorie e norme certe, cosa si rischia a schierarsi con gli operai metalmeccanici della Fiom e non con don Marchionne Santo Subito. Confesso che battersi contro un pensiero unico che va da D’Alema a Sacconi, da Fassino a Bonanni, da Chiamparino alla destra confindustriale, passando magari per Feltri e Belpietro, Angeletti, il Corriere della Sera, Pietro Ichino e altri plaudenti mette un po’ i brividi. Al fronte per la beatificazione di Marchionne mancano solo Landrù e la buonanima di Cossiga, in compenso qualcuno ha scongelato Giampaolo Pansa che alla Fiom dedica pensierini degni degli anni di piombo. Quella del consenso obbligatorio pare un po’ la cifra con cui si apre questo 2011, e non è una novità. Non è una novità nemmeno il testacoda delle parole, per cui è “progressista” chi teorizza un garrulo ritorno agli anni Cinquanta e invece “conservatore” chi vuole mantenere un diritto di rappresentanza tra i lavoratori.

“Pomigliano, da gennaio 4.600 assunzioni”, titolava l’altro giorno il Corriere. Perbacco che ripresa! Solo che poi, leggendo il pezzo, si scopre che quei 4.600 sono cassintegrati Fiat che verrebbero riassunti (non assunti) a condizioni più gravose (no iscritti Fiom e perditempo). La formuletta “se ci stai bene, se non ci stai sei un terrorista premoderno e scriteriato” è antica e polverosa, ma funziona sempre. Per sentirci in compagnia non c’è che aspettare domani, quando a votare per la beatificazione di Marchionne saranno gli azionisti, chiamati a scommettere moneta sonante sul nuovo titolo Fiat Auto scorporato dal resto del Gruppo. Chissà, potrebbe essere che al miracolo di Marchionne non crederanno nemmeno loro, investitori e speculatori. Sarà difficile accusarli di nostalgie da anni Settanta, ma non disperiamo, anzi, suggeriamo ai marchionisti di stretta ordinanza un’elegante via d’uscita dialettica: padroni che sbagliano. Modernissimo, eh!


Rodotà, Gallino e altri: Appello a sostegno della Fiom

da il Manifesto, 29 dicembre 2010

Abbiamo deciso di costituire un'associazione, «Lavoro e libertà», perché accomunati da una comune civile indignazione.
La prima ragione della nostra indignazione nasce dall'assenza, nella lotta politica italiana, di un interesse sui diritti democratici dei lavoratori e delle lavoratrici. Così come nei meccanismi elettorali i cittadini sono stati privati del diritto di scegliere chi eleggere, allo stesso modo ma assai più gravemente ancora un lavoratore e una lavoratrice non hanno il diritto di decidere, con il proprio voto su opzioni diverse, di accordi sindacali che decidono del loro reddito, delle loro condizioni di lavoro e dei loro diritti nel luogo di lavoro. Pensiamo ad accordi che non mettano in discussione diritti indisponibili. Parliamo, nel caso degli accordi sindacali, di un diritto individuale esercitato in forme collettive. Un diritto della persona che lavora che non può essere sostituito dalle dinamiche dentro e tra le organizzazioni sindacali e datoriali, pur necessarie e indispensabili. Di tutto ciò c'è una flebile traccia nella discussione politica; noi riteniamo che questa debba essere una delle discriminanti che strutturano le scelte di campo nell'impegno politico e civile. La crescente importanza nella vita di ogni cittadino delle scelte operate nel campo economico dovrebbe portare a un rafforzamento dei meccanismi di controllo pubblico e di bilanciamento del potere economico; senza tali meccanismi, infatti, è più elevata la probabilità, come stiamo sperimentando, di patire pesanti conseguenze individuali e collettive.

La seconda ragione della nostra indignazione, quindi, è lo sforzo continuo di larga parte della politica italiana di ridimensionare la piena libertà di esercizio del conflitto sociale. Le società democratiche considerano il conflitto sociale, sia quello tra capitale e lavoro sia i movimenti della società civile su questioni riguardanti i beni comuni e il pubblico interesse, come l'essenza stessa del loro carattere democratico. Solo attraverso un pieno dispiegarsi, nell'ambito dei diritti costituzionali, di tali conflitti si controbilanciano i potentati economici, si alimenta la discussione pubblica, si controlla l'esercizio del potere politico. Non vi può essere, in una società democratica, un interesse di parte, quello delle imprese, superiore a ogni altro interesse e a ogni altra ragione: i diritti, quindi, sia quelli individuali sia quelli collettivi, non possono essere subordinati all'interesse della singola impresa o del sistema delle imprese o ai superiori interessi dello Stato. La presunta superiore razionalità delle scelte puramente economiche e delle tecniche manageriali è evaporata nella grande crisi.

L'idea, cara al governo, assieme a Confindustria e Fiat, di una società basata sulla sostituzione del conflitto sociale con l'attribuzione a un sistema corporativo di bilanciamenti tra le organizzazioni sindacali e imprenditoriali, sotto l'egida governativa, del potere di prendere, solo in forme consensuali, ogni decisione rilevante sui temi del lavoro, comprese le attuali prestazioni dello stato sociale, è di per sé un incubo autoritario.
Siamo stupefatti, ancor prima che indignati, dal fatto che su tali scenari, concretizzatisi in decisioni concrete già prese o in corso di realizzazione attraverso leggi e accordi sindacali, non si eserciti, con rilevanti eccezioni quali la manifestazione del 16 ottobre, una assunzione di responsabilità che coinvolga il numero più alto possibile di forze sociali, politiche e culturali per combattere, fermare e rovesciare questa deriva autoritaria.

Ci indigna infine la continua riduzione del lavoro, in tutte le sue forme, a una condizione che ne nega la possibilità di espressione e di realizzazione di sé.
La precarizzazione, l'individualizzazione del rapporto di lavoro, l'aziendalizzazione della regolazione sociale del lavoro in una nazione in cui la stragrande maggioranza lavora in imprese con meno di dieci dipendenti, lo smantellamento della legislazione di tutela dell'ambiente di lavoro, la crescente difficoltà, a seguito del cosiddetto "collegato lavoro" approvato dalle camere, a potere adire la giustizia ordinaria da parte del lavoratore sono i tasselli materiali di questo processo di spoliazione della dignità di chi lavora. Da ultimo si vuole sostituire allo Statuto dei diritti dei lavoratori uno statuto dei lavori; la trasformazione linguistica è di per sé auto esplicativa e a essa corrisponde il contenuto. Il passaggio dai portatori di diritti, i lavoratori che possono esigerli, ai luoghi, i lavori, delinea un processo di astrazione/alienazione dove viene meno l'affettività dei diritti stessi.

Come è possibile che di fronte alla distruzione sistematica di un secolo di conquiste di civiltà sui temi del lavoro non vi sia una risposta all'altezza della sfida?
Bisogna ridare centralità politica al lavoro. Riportare il lavoro, il mondo del lavoro, al centro dell'agenda politica: nell'azione di governo, nei programmi dei partiti, nella battaglia delle idee. Questa è oggi la via maestra per la rigenerazione della politica stessa e per un progetto di liberazione della vita pubblica dalle derive, dalla decadenza, dalla volgarizzazione e dall'autoreferenzialità che attualmente gravemente la segnano. La dignità della persona che lavora diventi la stella polare di orientamento per ogni decisione individuale e collettiva.

Per queste ragioni abbiamo deciso di costituire un'associazione che si propone di suscitare nella società, nella politica, nella cultura, una riflessione e un'azione adeguata con l'intento di sostenere tutte le forze che sappiano muoversi con coerenza su questo terreno.

Fausto Bertinotti, Sergio Cofferati, Gianni Ferrara, Luciano Gallino, Francesco Garibaldo, Paolo Nerozzi, Stefano Rodotà, Rossana Rossanda, Aldo Tortorella, Mario Tronti

 

Da Pomigliano a Mirafiori, la Costituzione è carta straccia

Con la Fiom per difendere le libertà e i diritti di tutti

di Paolo Flores d’Arcais, il Fatto Quotidiano, 30 dicembre 2010

D’Alema ha fatto la sua scelta: con Marchionne e contro la Fiom. Con qualche se e qualche ma, come è nello stile slalomistico della casta Pd, ma la sostanza non cambia. Si tratta di un vero e proprio cambiamento di fronte, che rischia di “fare epoca” certificando la definitiva morte del Pd, perché l’inciucio con Marchionne nel quale D’Alema trascina il partito (Bersani seguirà?) ha un sapore strategico, molto più grave perfino dei tanti inciuci “tattici” (comunque devastanti) con Berlusconi.

Anche il diktat di Marchionne, servilmente e prontamente firmato da Uil e Fim, certamente farà epoca, come hanno prontamente e servilmente gorgheggiato gli aedi di regime. Si tratta di capire di quale “epoca” si tratti. A giudicare senza pregiudizi, si tratta in campo sociale dell’analogo rappresentato dalle leggi berlusconiane di bavaglio ai giornalisti e camicia di forza ai magistrati, fin qui fermate dalla sollevazione popolare della società civile. Quei disegni di legge, che il governo non ha rinunciato a far approvare, segnano un salto di qualità verso approdi specificamente fascisti dell’attuale regime. Un equivalente funzionale e soft (soft?) di fascismo risulta anche il diktat di Marchionne. Se qualcuno ritiene il rilievo eccessivo, si accomodi a considerare le seguenti e modeste verità di fatto.

Il diktat marchionnesco prevede che 1) non vi saranno più rappresentanze elette dei (dai) lavoratori, ma solo nominate dai sindacati che firmano l’accordo, e che 2) i lavoratori che scioperino anche contro un solo aspetto dell’accordo possano essere licenziati. Queste misure costituiscono nel loro insieme un quadro di (non) diritti che negli oltre sessant’anni di vita della Repubblica non era stato mai ventilato, neppure in via ipotetica, neppure dalle forze più retrive della politica e dell’imprenditoria. Per trovare un precedente bisogna risalire agli anni del fascismo. Riassumiamo i fatti storici.

Nell’immediato dopoguerra, dopo la rottura dell’unità sindacale, i lavoratori eleggono in fabbrica i loro rappresentanti nelle “Commissioni Interne”, su liste sindacali in concorrenza. Lungo gli anni settanta e fino a quasi la metà degli anni ottanta, invece, in un clima di unità sindacale dal basso, imposta dalle lotte del ’68 e del ’69, i rappresentanti operai vengono eletti su scheda bianca, senza sigle sindacali, votando per gruppi o reparti “omogenei” direttamente i nomi dei compagni di lavoro che riscuotono la maggiore fiducia. Con la nuova rottura dell’unità sindacale si torna a rappresentanze elette su liste di sigle sindacali concorrenti, che abbiano firmato accordi contrattuali o vi si siano opposti (anche i Cobas insomma).

Lo “Statuto dei lavoratori” del 1970 parla di rappresentanze sindacali in termini volutamente generici, proprio perché non intende predeterminare per legge quale delle due forme di elezione vada privilegiata, ma intende come ovvio l’eguale diritto di tutti i lavoratori ad essere rappresentati. Quanto al diritto di sciopero, esso è tutelato costituzionalmente (art. 40) “nell’ambito delle leggi che lo regolano”, e dunque non può essere in alcun modo limitato da accordi privati. E la legge oggi lo limita solo in specifici casi, esigendo preavvisi e/o esenzioni per i servizi pubblici irrinunciabili.

Dunque, neppure ai tempi delle più dure repressioni antioperaie, che in campo padronale avevano il volto di Valletta e dei reparti-confino per gli attivisti Fiom, e in campo politico il volto di Mario Scelba e della violenza della “Celere”, era stato mai messo in discussione l’ovvio principio che tutti i sindacati (anzi tutti gli operai) hanno diritto a dar vita alle rappresentanze dei lavoratori, perché altrimenti sarebbero “rappresentanze” non rappresentative.

Per ritrovare un analogo al diktat marchionnesco bisogna infatti risalire al 2 ottobre 1925, al diktat di Palazzo Vidoni con cui Mussolini, il padronato e i sindacati fascisti firmavano la cancellazione delle “Commissioni Interne”, sostituite dai “fiduciari” di regime (equivalente “sindacale” dei capocaseggiato). Non c’è dunque nessuna esagerazione retorica nell’allarme che i dirigenti Fiom hanno lanciato, ricordando questi precedenti, e invocando lo sciopero generale contro misure che non solo calpestano la Costituzione, ma che di questo “strame della Costituzione” intendono fare il modello delle future relazioni industriali.

Quello che colpisce e lascia anzi allibiti, semmai, è la mancanza di una risposta anche minimamente adeguata, da parte di forze che si dicono democratiche, e che verbalmente presentano rituali omaggi alla Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza. Parliamo del Pd, dove numerose sono le voci di servo encomio alla “voluntas Fiat”, e comunque maggioritarie quelle né carne né pesce, nella migliore tradizione di Ponzio Pilato, e non vi è un solo leader di spicco che abbia preso posizione netta a fianco della Fiom. Ma parliamo anche, e in questo caso soprattutto, della Cgil: non si capisce davvero cosa debba ancora accadere, in questo sciagurato paese, perché si ritenga necessario uno sciopero generale, se non bastano neppure misure antioperaie che hanno antecedenti solo nel fascismo.

E parliamo anche, purtroppo, di una società civile che è stata ben altrimenti energica e pronta nel rispondere alla volontà di fascistizzazione in tema di giustizia e di informazione, e che invece sembra neghittosa di fronte a questa seconda ganascia della tenaglia di fascistizzazione del paese. Dimenticando che sulla distruzione delle libertà e dei diritti dei lavoratori è già passata una volta la distruzione delle libertà e dei diritti di tutti i cittadini. Ecco perché la sollevazione morale della società civile a fianco dei metalmeccanici Fiom è oggi il dovere più urgente, e la cartina di tornasole della capacità di resistere alle lusinghe e alle violenze del fascismo postmoderno.

L'America a Torino

di LUCIANO GALLINO

 

la Repubblica 24 dicembre 2010

 

L'ACCORDO per la nuova società che gestirà Mirafiori segna una brutta svolta nelle relazioni industriali in Italia. Esclude la Fiom, che sin dagli anni del dopoguerra è stato il sindacato di maggior peso nel grande stabilimento torinese.

Inasprisce deliberatamente il conflitto tra i maggiori sindacati nazionali: Fiom-Cgil da una parte, tutti gli altri contro. Divide i sindacati in un momento in cui i lavoratori dipendenti, di fronte alle cifre drammatiche della disoccupazione, della cassa integrazione e del lavoro precario, avrebbero il massimo bisogno di sindacati uniti per poter uscire dalla insicurezza sociale ed economica che li attanaglia. In presenza, per di più, di un governo del tutto inerte di fronte ai costi umani della crisi. Ora che si è chiuso stabilendo che solo i sindacati che lo hanno firmato potranno avere in essa i loro rappresentanti, si può dire che nell'insieme l'accordo su Mirafiori lascia intravvedere un paio di certezze, ed altrettante incognite. Una prima certezza è che l'ad Sergio Marchionne pensa evidentemente di importare in Italia non solo le auto, ma anche le relazioni industriali degli Usa. Il motivo è chiaro: legislazione e giurisprudenza statunitensi sulle libertà sindacali sono assai più arretrate che in Europa. Al punto che grandi imprese tedesche e francesi, che coltivano in patria relazioni industriali pienamente rispettose di quelle libertà, nelle sussidiarie Usa le violano con la massima disinvoltura. Assumendo crumiri al posto di lavoratori in sciopero,

ad esempio, oppure esercitando pressioni inaudite sul singolo lavoratore affinché non segua le indicazioni del sindacato. Il tutto nel rispetto della sottosviluppata legislazione del luogo. Nel mondo globale non si vede perché, sembra essere il ragionamento di Fiat, le relazioni industriali in Italia non si possano conformare a quel modello.

Inoltre pare ormai certo che l'operazione Fiat-Chrysler non sia affatto destinata a fare di Chrysler la testa di ponte statunitense della Fiat; è piuttosto questa che si accinge a fungere da testa di ponte europea per la Chrysler. Partendo da Mirafiori. Si può infatti convenire che a fronte di una produzione prevista di oltre 250.000 vetture, tre volte quella degli ultimi anni, non si vede che differenza faccia produrre per la maggior parte Jeep Grand Cherokee, magari con la placca Alfa Romeo, piuttosto che qualche successore delle attuali auto del gruppo. Sono sempre posti di lavoro. Ma qui la Fiat si gioca la sopravvivenza come marchio originale. E' noto che per non sparire sul mercato europeo Fiat deve assolutamente spostarsi sulla fascia medio-alta; si comincia ora a intravvedere che il prezzo potrebbe essere la sua uscita dal rango dei progettisti originali e costruttori che hanno fatto la storia dell'auto.

Le incognite riguardano anzitutto che cosa succederà nelle altre aziende, a cominciare dalla componentistica, visto che il tetto comune del contratto nazionale sembra prossimo a cadere. Le grandi aziende - poche ormai in Italia - possono anche ritenere che il principio "ad ogni azienda il suo contratto" si attagli alle loro esigenze. Ma le piccole e medie? Il contratto nazionale non serve soltanto a proteggere i lavoratori in modo relativamente uniforme. Serve anche a proteggere le aziende dalla proliferazione incontrollata di sigle sindacali, come pure da rivendicazioni interne, magari extra-sindacali, che in assenza di un contratto quadro possono dare agli imprenditori grossi grattacapi.

Un'altra incognita riguarda destino e strategie della Fiom e dei suoi iscritti, in presenza di un'intesa che dal 2012 li esclude dalla newco Mirafiori - salvo un esito diverso del referendum. A Torino sarà assunto solo chi giura di non appartenere alla Fiom? Oppure dovrà nascondere la propria identità sindacale? O, al contrario, dovrà portare un badge che permetta ai capi di distinguerli a vista? Fuori Torino, poi, le cose potrebbero essere anche più complicate. Chi sa se l'ad Fiat si rende conto che in molte aziende meccaniche, comprese quelle che fabbricano componenti, la Fiom è il sindacato di maggioranza; in non pochi casi è l'unico. All'epoca della produzione giusto in tempo, il parabrezza o la sospensione o il disco dei freni che non arrivano perché il fornitore è fermo per una vertenza sindacale, può danneggiare la produttività di Mirafiori molto più che non i 40 minuti di pausa per turno invece di 30, o la pausa mensa a metà turno invece che alla fine. Le grandi strategie sovente naufragano per aver trascurato i dettagli.