■ Rodotà, Gallino e altri: Appello a sostegno della Fiom
da il Manifesto, 29 dicembre 2010
■ Mirafiori peggio di Pomigliano di Marco Revelli, da cadoinpiedi.it - 3 gennaio 2011
■ Padroni che sbagliano Alessandro Robecchi il manifesto, 2 gennaio 2011
■ L'America a Torino di LUCIANO GALLINO la Repubblica 24 dicembre 2010
Produrre e lavorare meglio, con democrazia
Il conflitto Fiat-Fiom scoppiato a fine 2010 sul progetto per lo stabilimento di Mirafiori a Torino – che segue l’analoga vicenda per lo stabilimento di Pomigliano d’Arco – è importante per il futuro economico e sociale del paese. Giornali e tv presentano la versione Fiat, sostenuta anche dal governo, per cui con la crescente competizione internazionale nel mercato dell’auto i lavoratori devono accettare condizioni di lavoro peggiori, la perdita di alcuni diritti, fino all’impossibilità di scegliere in modo democratico i propri rappresentanti sindacali.
Vediamo i fatti. Nel 2009 la Fiat ha prodotto 650 mila auto in Italia, appena un terzo di quelle realizzate nel 1990, mentre le quantità prodotte nei maggiori paesi europei sono cresciute o rimaste stabili. La Fiat spende per investimenti produttivi e per ricerca e sviluppo quote di fatturato significativamente inferiori a quelle dei suoi principali concorrenti europei, ed è poco attiva nel campo delle fonti di propulsione a basso impatto ambientale. A differenza di quanto avvenuto tra il 2004 e il 2008 – quando l’azienda si è ripresa da una crisi che sembrava fatale – negli ultimi anni la Fiat non ha introdotto nuovi modelli. Il risultato è stata una quota di mercato che in Europa è scesa al 6,7%, la caduta più alta registrata nel continente nel corso del 2010.
Al tempo stesso, tuttavia, nel terzo trimestre del 2010 la Fiat guida la classifica di redditività per gli azionisti, con un ritorno sul capitale del 33%. La recente divisione tra Fiat Auto e Fiat Industrial e l’interesse ad acquisire una quota di maggioranza nella Chrysler segnalano che le priorità della Fiat sono sempre più orientate verso la dimensione finanziaria, a cui potrebbe essere sacrificata in futuro la produzione di auto in Italia e la stessa proprietà degli stabilimenti.
A dispetto della retorica dell’impresa capace di “stare sul mercato sulle proprie gambe”, va ricordato che la Fiat ha perseguito questa strategia ottenendo a vario titolo, tra la fine degli anni ottanta e i primi anni duemila, contributi pubblici dal governo italiano stimati nell’ordine di 500 milioni di euro l’anno.
A fare le spese di questa gestione aziendale sono stati soprattutto i lavoratori. Negli ultimi dieci anni l’occupazione Fiat nel settore auto a livello mondiale è scesa da 74 mila a 54 mila addetti, e di questi appena 22 mila lavorano nelle fabbriche italiane. Le qualifiche dei lavoratori Fiat sono in genere inferiori a quelle dei concorrenti, i salari medi sono tra i più bassi d’Europa e la distanza dalle remunerazioni degli alti dirigenti non è mai stata così alta: Sergio Marchionne guadagna oltre 250 volte il salario di un operaio.
Questi dati devono essere al centro della discussione sul futuro della Fiat. L’accordo concluso dalla Fiat con Fim, Uilm e Fimsic per Mirafiori – che la Fiom ha rifiutato di firmare – prevede un vago piano industriale, poco credibile sui livelli produttivi, tanto da rendere improbabile ora ogni valutazione sulla produttività. L’accordo appare inadeguato a rilanciare e qualificare la produzione, e scarica i costi sul peggioramento delle condizioni dei lavoratori. Sul piano delle relazioni industriali i contenuti dell’accordo sono particolarmente gravi: l’accordo si presenta come sostitutivo del contratto nazionale di lavoro, e cancellerebbe la Fiom dalla presenza nell’azienda e dal suo ruolo di rappresentanza dei lavoratori che vi hanno liberamente aderito.
Il referendum del 13-14 gennaio tra i dipendenti sull’accordo, con la minaccia Fiat di cancellare l’investimento nel caso sia respinto, pone i lavoratori di fronte a una scelta impossibile tra diritti e lavoro. In questa prospettiva, la strategia Fiat appare come la gestione di un ridimensionamento produttivo in Italia, scaricando costi e rischi sui lavoratori e imponendo un modello di relazioni industriali ispirato agli aspetti peggiori di quello americano.
Esistono alternative a una strategia di questo tipo.
In Europa la crisi è stata affrontata da imprese come la Volkswagen con accordi sindacali che hanno ridotto l’orario, limitato la perdita di reddito e tutelato capacità produttive e occupazione; in questo modo la produzione sta ora riprendendo insieme alla domanda. Produrre auto in Europa è possibile se c’è un forte impegno di ricerca e sviluppo, innovazione e investimenti attenti alla sostenibilità ambientale; per questo sono necessari lavoratori con più competenze, meno precarietà e salari adeguati; un’organizzazione del lavoro contrattata con i sindacati che assicuri alta qualità, flessibilità delle produzioni e integrazione delle funzioni. E’ necessaria una politica industriale da parte del governo che non si limiti agli incentivi per la rottamazione delle auto, ma definisca la direzione dell’innovazione e degli investimenti verso produzioni sostenibili e di qualità; le condizioni per mercati più efficienti; l’integrazione con le politiche della ricerca, del lavoro, della domanda. Considerando l’eccesso di capacità produttiva nell’auto in Europa, è auspicabile che queste politiche vengano definite in un contesto europeo, evitando competizioni al ribasso su costi e condizioni di lavoro. Su tutti questi temi è necessario un confronto, un negoziato e un accordo con i sindacati che rappresentano i lavoratori dell’azienda.
In nessun paese europeo l’industria dell’auto ha tentato di eliminare un sindacato critico della strategia aziendale dalla possibilità di negoziare le condizioni di lavoro e di rappresentare i lavoratori. L’accordo Fiat di Mirafiori riduce le libertà e gli spazi di democrazia, aprendo uno scontro che riporterebbe indietro l’economia e il paese.
Ci auguriamo che la Fiat rinunci a una strada che non porterebbe risultati economici, ma un inasprimento dei conflitti sociali. Ci auguriamo che governo e forze politiche e sindacali contribuiscano a una soluzione di questo conflitto che ristabilisca i diritti dei lavoratori a essere rappresentati in modo democratico e tuteli le condizioni di lavoro. Esprimiamo la nostra solidarietà ai lavoratori coinvolti e alla Fiom, sosteniamo lo sciopero nazionale del 28 gennaio 2011 e ci impegniamo ad aprire una discussione sul futuro dell’industria, del lavoro e della democrazia, sui luoghi di lavoro e nella società italiana.
Margherita Balconi, Università di Pavia
Paolo Bosi, Università di Modena e Reggio Emilia
Gian Paolo Caselli, Università di Modena e Reggio Emilia
Daniele Checchi, Università Statale di Milano
Tommaso Ciarli, Max Planck Institute of Economics
Vincenzo Comito, Università di Urbino
Marcella Corsi, Università di Roma “La Sapienza”
Pasquale De Muro, Università di Roma Tre
Giovanni Dosi, Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa
Marco Faillo, Università degli Studi di Trento
Paolo Figini, Università di Bologna
Massimo Florio, Università Statale di Milano
Maurizio Franzini, Università di Roma “La Sapienza”
Lia Fubini, Università di Torino
Andrea Fumagalli, Università di Pavia
Mauro Gallegati, Università Politecnica delle Marche
Adriano Giannola, Università di Napoli Federico II
Anna Giunta, Università di Roma Tre
Andrea Ginzburg, Università di Modena e Reggio Emilia
Claudio Gnesutta, Università di Roma “La Sapienza”
Elena Granaglia, Università di Roma Tre
Simona Iammarino, London School of Economics
Peter Kammerer, Università di Urbino
Paolo Leon, Università di Roma Tre
Stefano Lucarelli, Università di Bergamo
Luigi Marengo, Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa
Pietro Masina, Università di Napoli “L’Orientale”
Massimiliano Mazzanti, Università di Ferrara
Marco Mazzoli, Università Cattolica di Piacenza
Domenico Mario Nuti, Università di Roma “La Sapienza”
Paolo Palazzi, Università di Roma “La Sapienza”
Cosimo Perrotta, Università del Salento
Mario Pianta, Università di Urbino
Paolo Pini, Università di Ferrara
Felice Roberto Pizzuti, Università di Roma “La Sapienza”
Andrea Ricci, Università di Urbino
Andrea Roventini, Università di Verona
Maria Savona, University of Sussex
Francesco Scacciati, Università di Torino
Alessandro Sterlacchini, Università Politecnica delle Marche
Stefano Sylos Labini, Enea
Giuseppe Tattara, Università di Venezia
Andrea Vaona, Università di Verona
Marco Vivarelli, Università Cattolica di Piacenza
Antonello Zanfei, Università di Urbino
Adelino Zanini, Università Politecnica delle Marche
 
Mirafiori peggio di Pomigliano
di Marco Revelli,
da cadoinpiedi.it - 3 gennaio 2011
L'accordo recente su Mirafiori ricalca nelle sue linee generali quello di 
Pomigliano. Come per Pomigliano, appunto, la Fiat e i sindacati favorevoli alle 
nuove regole, hanno rivisto la riorganizzazione del tempo di lavoro, i turni, le 
pause, i diritti. Per Mirafiori, però, penso che addirittura ci sia stato un 
peggioramento su un punto sostanziale che è stato determinato dall'uscita della 
FIAT di Marchionne da Confindustria: quello che riguarda la rappresentanza 
sindacale in fabbrica. Col nuovo accordo non potranno essere rappresentati i 
lavoratori della Fiom, la rappresentanza aziendale sarà decisa dall'alto, dalle 
organizzazioni sindacali e solo da quelle che hanno firmato l'accordo. Questo è 
un punto di peggioramento ulteriore rispetto già all'accordo di Pomigliano.
Avevo definito l'accordo di Pomigliano un atto che reintroduceva la dimensione 
servile del lavoro, un arretramento non solo rispetto agli anni più recenti, al 
periodo della democrazia industriale, ma un arretramento rispetto al capitalismo 
nel suo complesso. Il capitalismo ha anche rappresentato il riconoscimento della 
persona al lavoro, il superamento della dimensione servile del lavoro. Qui, 
invece, il lavoro ritorna a essere separato dai diritti del cittadino, da quei 
diritti garantiti dalla legge, dalla costituzione e dalla civiltà giuridica di 
un Paese.
L'impresa si definisce in una dimensione di extraterritorialità, come se vivesse 
in uno spazio diverso da quello del Paese, degli stati, della loro legislazione 
etc. e tratta il lavoro come risorsa pienamente disponibile senza il 
riconoscimento della soggettività, della dignità dei soggetti che lavorano.
Per quanto riguarda le recenti dichiarazioni del candidato in pectore a sindaco 
di Torino, Piero Fassino, stenderei un velo pietoso. Sono atteggiamenti e 
dichiarazioni che fanno cadere le braccia. Su una vicenda decisiva per quanto 
riguarda la civiltà del lavoro, trovo desolante la posizione del Partito 
Democratico di cui Fassino è un degno esponente. Questa formazione, questa 
organizzazione che rappresenta un nulla politico, tuttavia produce gravissimi 
danni nel momento in cui questo ceto politico che ha, quantomeno le sue origini, 
radici nel mondo del lavoro che dovrebbe in qualche maniera essere sensibile 
alla dignità del lavoro, invoca esplicitamente atteggiamenti che contraddicono 
nettamente il principio della dignità del lavoro e dei lavoratori.
Non metto in discussione che un lavoratore di Mirafiori schiacciato da una 
situazione economica per certi versi drammatica, con alle spalle mesi di cassa 
integrazione, con difficoltà estrema a raggiungere la fine del mese, con magari 
il mutuo da pagare. Non discuto la scelta di un lavoratore preso per la gola da 
un padrone onnipotente in grado di scegliere la localizzazione del proprie 
produzioni, di andarsene in Serbia o in Turchia, piuttosto che a Torino. Che un 
lavoratore in queste condizioni che voti sì, lo capisco pienamente. Ma un 
esponente politico che proviene dal movimento operaio che se ne esce con una 
dichiarazione di questo tipo che contraddice qualsiasi principio di rispetto 
della persona umana, è uno spettacolo indecoroso.
Come rispondere al "ricatto" della delocalizzazione? Si risponde guardando 
quello che succede in paesi come la Germania o come la Francia in cui questo 
tipo di ragionamento non ha molto spazio. Il sindacato e gli operai tedeschi 
hanno ceduto su alcuni punti, hanno accettato di fare alcuni sacrifici, non 
hanno mai rinunciato alla propria dignità e ai propri diritti, hanno dei salari 
che sono di un 30/40% a volte anche 50% superiori a quelli dei lavoratori 
italiani, hanno un'imprenditoria che ha giocato le proprie carte non nei gironi 
più bassi del mercato internazionale a un alto livello con buoni investimenti di 
ricerca e sviluppo, con innovazione tecnologica, con una maggiore dignità 
dell'imprenditoria e dei sindacati.
In Italia manca la dignità degli imprenditori e dei sindacati. Marchionne fa 
l'americano. Si diceva che la FIAT si era comprata la Chrysler, è invece 
evidente che è la Chrysler che si è annessa alla FIAT. La localizzazione in 
Italia è una variabile dipendente da quello che si decide a Detroit e noi siamo 
una colonia.
 
Padroni che sbagliano
Alessandro Robecchi
il manifesto, 2 
gennaio 2011
 
Vorrei sapere 
esattamente, possibilmente con dovizia di particolari, articoli, commi, 
disposizioni transitorie e norme certe, cosa si rischia a schierarsi con gli 
operai metalmeccanici della Fiom e non con don Marchionne Santo Subito. Confesso 
che battersi contro un pensiero unico che va da D’Alema a Sacconi, da Fassino a 
Bonanni, da Chiamparino alla destra confindustriale, passando magari per Feltri 
e Belpietro, Angeletti, il Corriere della Sera, Pietro Ichino e altri 
plaudenti mette un po’ i brividi. Al fronte per la beatificazione di Marchionne 
mancano solo Landrù e la buonanima di Cossiga, in compenso qualcuno ha 
scongelato Giampaolo Pansa che alla Fiom dedica pensierini degni degli anni di 
piombo. Quella del consenso obbligatorio pare un po’ la cifra con cui si apre 
questo 2011, e non è una novità. Non è una novità nemmeno il testacoda delle 
parole, per cui è “progressista” chi teorizza un garrulo ritorno agli anni 
Cinquanta e invece “conservatore” chi vuole mantenere un diritto di 
rappresentanza tra i lavoratori. 
“Pomigliano, da gennaio 4.600 assunzioni”, titolava l’altro giorno il 
Corriere. Perbacco che ripresa! Solo che poi, leggendo il pezzo, si scopre 
che quei 4.600 sono cassintegrati Fiat che verrebbero riassunti (non assunti) a 
condizioni più gravose (no iscritti Fiom e perditempo). La formuletta “se ci 
stai bene, se non ci stai sei un terrorista premoderno e scriteriato” è antica e 
polverosa, ma funziona sempre. Per sentirci in compagnia non c’è che aspettare 
domani, quando a votare per la beatificazione di Marchionne saranno gli 
azionisti, chiamati a scommettere moneta sonante sul nuovo titolo Fiat Auto 
scorporato dal resto del Gruppo. Chissà, potrebbe essere che al miracolo di 
Marchionne non crederanno nemmeno loro, investitori e speculatori. Sarà 
difficile accusarli di nostalgie da anni Settanta, ma non disperiamo, anzi, 
suggeriamo ai marchionisti di stretta ordinanza un’elegante via d’uscita 
dialettica: padroni che sbagliano. Modernissimo, eh!
Rodotà, Gallino e altri: Appello a sostegno della 
Fiom
da il Manifesto, 
29 dicembre 2010
Abbiamo deciso di costituire un'associazione, «Lavoro e libertà», perché 
accomunati da una comune civile indignazione.
La prima ragione della nostra indignazione nasce dall'assenza, nella lotta 
politica italiana, di un interesse sui diritti democratici dei lavoratori e 
delle lavoratrici. Così come nei meccanismi elettorali i cittadini sono stati 
privati del diritto di scegliere chi eleggere, allo stesso modo ma assai più 
gravemente ancora un lavoratore e una lavoratrice non hanno il diritto di 
decidere, con il proprio voto su opzioni diverse, di accordi sindacali che 
decidono del loro reddito, delle loro condizioni di lavoro e dei loro diritti 
nel luogo di lavoro. Pensiamo ad accordi che non mettano in discussione diritti 
indisponibili. Parliamo, nel caso degli accordi sindacali, di un diritto 
individuale esercitato in forme collettive. Un diritto della persona che lavora 
che non può essere sostituito dalle dinamiche dentro e tra le organizzazioni 
sindacali e datoriali, pur necessarie e indispensabili. Di tutto ciò c'è una 
flebile traccia nella discussione politica; noi riteniamo che questa debba 
essere una delle discriminanti che strutturano le scelte di campo nell'impegno 
politico e civile. La crescente importanza nella vita di ogni cittadino delle 
scelte operate nel campo economico dovrebbe portare a un rafforzamento dei 
meccanismi di controllo pubblico e di bilanciamento del potere economico; senza 
tali meccanismi, infatti, è più elevata la probabilità, come stiamo 
sperimentando, di patire pesanti conseguenze individuali e collettive.
La seconda ragione della nostra indignazione, quindi, è lo sforzo continuo di 
larga parte della politica italiana di ridimensionare la piena libertà di 
esercizio del conflitto sociale. Le società democratiche considerano il 
conflitto sociale, sia quello tra capitale e lavoro sia i movimenti della 
società civile su questioni riguardanti i beni comuni e il pubblico interesse, 
come l'essenza stessa del loro carattere democratico. Solo attraverso un pieno 
dispiegarsi, nell'ambito dei diritti costituzionali, di tali conflitti si 
controbilanciano i potentati economici, si alimenta la discussione pubblica, si 
controlla l'esercizio del potere politico. Non vi può essere, in una società 
democratica, un interesse di parte, quello delle imprese, superiore a ogni altro 
interesse e a ogni altra ragione: i diritti, quindi, sia quelli individuali sia 
quelli collettivi, non possono essere subordinati all'interesse della singola 
impresa o del sistema delle imprese o ai superiori interessi dello Stato. La 
presunta superiore razionalità delle scelte puramente economiche e delle 
tecniche manageriali è evaporata nella grande crisi.
L'idea, cara al governo, assieme a Confindustria e Fiat, di una società basata 
sulla sostituzione del conflitto sociale con l'attribuzione a un sistema 
corporativo di bilanciamenti tra le organizzazioni sindacali e imprenditoriali, 
sotto l'egida governativa, del potere di prendere, solo in forme consensuali, 
ogni decisione rilevante sui temi del lavoro, comprese le attuali prestazioni 
dello stato sociale, è di per sé un incubo autoritario.
Siamo stupefatti, ancor prima che indignati, dal fatto che su tali scenari, 
concretizzatisi in decisioni concrete già prese o in corso di realizzazione 
attraverso leggi e accordi sindacali, non si eserciti, con rilevanti eccezioni 
quali la manifestazione del 16 ottobre, una assunzione di responsabilità che 
coinvolga il numero più alto possibile di forze sociali, politiche e culturali 
per combattere, fermare e rovesciare questa deriva autoritaria.
Ci indigna infine la continua riduzione del lavoro, in tutte le sue forme, a una 
condizione che ne nega la possibilità di espressione e di realizzazione di sé.
La precarizzazione, l'individualizzazione del rapporto di lavoro, 
l'aziendalizzazione della regolazione sociale del lavoro in una nazione in cui 
la stragrande maggioranza lavora in imprese con meno di dieci dipendenti, lo 
smantellamento della legislazione di tutela dell'ambiente di lavoro, la 
crescente difficoltà, a seguito del cosiddetto "collegato lavoro" approvato 
dalle camere, a potere adire la giustizia ordinaria da parte del lavoratore sono 
i tasselli materiali di questo processo di spoliazione della dignità di chi 
lavora. Da ultimo si vuole sostituire allo Statuto dei diritti dei lavoratori 
uno statuto dei lavori; la trasformazione linguistica è di per sé auto 
esplicativa e a essa corrisponde il contenuto. Il passaggio dai portatori di 
diritti, i lavoratori che possono esigerli, ai luoghi, i lavori, delinea un 
processo di astrazione/alienazione dove viene meno l'affettività dei diritti 
stessi.
Come è possibile che di fronte alla distruzione sistematica di un secolo di 
conquiste di civiltà sui temi del lavoro non vi sia una risposta all'altezza 
della sfida?
Bisogna ridare centralità politica al lavoro. Riportare il lavoro, il mondo del 
lavoro, al centro dell'agenda politica: nell'azione di governo, nei programmi 
dei partiti, nella battaglia delle idee. Questa è oggi la via maestra per la 
rigenerazione della politica stessa e per un progetto di liberazione della vita 
pubblica dalle derive, dalla decadenza, dalla volgarizzazione e 
dall'autoreferenzialità che attualmente gravemente la segnano. La dignità della 
persona che lavora diventi la stella polare di orientamento per ogni decisione 
individuale e collettiva.
Per queste ragioni abbiamo deciso di costituire un'associazione che si propone 
di suscitare nella società, nella politica, nella cultura, una riflessione e 
un'azione adeguata con l'intento di sostenere tutte le forze che sappiano 
muoversi con coerenza su questo terreno. 
Fausto Bertinotti, Sergio Cofferati, Gianni Ferrara, Luciano Gallino, 
Francesco Garibaldo, Paolo Nerozzi, Stefano Rodotà, Rossana Rossanda, Aldo 
Tortorella, Mario Tronti
 
Da Pomigliano a Mirafiori, la Costituzione è carta straccia
Con la Fiom per difendere le libertà e i diritti di tutti
di LUCIANO GALLINO
la Repubblica 24 dicembre 2010
L'ACCORDO 
per la nuova società che gestirà Mirafiori segna una brutta svolta nelle 
relazioni industriali in Italia. Esclude la Fiom, che sin dagli anni del 
dopoguerra è stato il sindacato di maggior peso nel grande stabilimento 
torinese.
Inasprisce deliberatamente il conflitto tra i maggiori sindacati nazionali: 
Fiom-Cgil da una parte, tutti gli altri contro. Divide i sindacati in un momento 
in cui i lavoratori dipendenti, di fronte alle cifre drammatiche della 
disoccupazione, della cassa integrazione e del lavoro precario, avrebbero il 
massimo bisogno di sindacati uniti per poter uscire dalla insicurezza sociale ed 
economica che li attanaglia. In presenza, per di più, di un governo del tutto 
inerte di fronte ai costi umani della crisi. Ora che si è chiuso stabilendo che 
solo i sindacati che lo hanno firmato potranno avere in essa i loro 
rappresentanti, si può dire che nell'insieme l'accordo su Mirafiori lascia 
intravvedere un paio di certezze, ed altrettante incognite. Una prima certezza è 
che l'ad Sergio Marchionne pensa evidentemente di importare in Italia non solo 
le auto, ma anche le relazioni industriali degli Usa. Il motivo è chiaro: 
legislazione e giurisprudenza statunitensi sulle libertà sindacali sono assai 
più arretrate che in Europa. Al punto che grandi imprese tedesche e francesi, 
che coltivano in patria relazioni industriali pienamente rispettose di quelle 
libertà, nelle sussidiarie Usa le violano con la massima disinvoltura. Assumendo 
crumiri al posto di lavoratori in sciopero, 
ad esempio, oppure esercitando pressioni inaudite sul singolo 
lavoratore affinché non segua le indicazioni del sindacato. Il tutto nel 
rispetto della sottosviluppata legislazione del luogo. Nel mondo globale non si 
vede perché, sembra essere il ragionamento di Fiat, le relazioni industriali in 
Italia non si possano conformare a quel modello.
Inoltre pare ormai certo che l'operazione Fiat-Chrysler non sia affatto 
destinata a fare di Chrysler la testa di ponte statunitense della Fiat; è 
piuttosto questa che si accinge a fungere da testa di ponte europea per la 
Chrysler. Partendo da Mirafiori. Si può infatti convenire che a fronte di una 
produzione prevista di oltre 250.000 vetture, tre volte quella degli ultimi 
anni, non si vede che differenza faccia produrre per la maggior parte Jeep Grand 
Cherokee, magari con la placca Alfa Romeo, piuttosto che qualche successore 
delle attuali auto del gruppo. Sono sempre posti di lavoro. Ma qui la Fiat si 
gioca la sopravvivenza come marchio originale. E' noto che per non sparire sul 
mercato europeo Fiat deve assolutamente spostarsi sulla fascia medio-alta; si 
comincia ora a intravvedere che il prezzo potrebbe essere la sua uscita dal 
rango dei progettisti originali e costruttori che hanno fatto la storia 
dell'auto. 
Le incognite riguardano anzitutto che cosa succederà nelle altre aziende, a 
cominciare dalla componentistica, visto che il tetto comune del contratto 
nazionale sembra prossimo a cadere. Le grandi aziende - poche ormai in Italia - 
possono anche ritenere che il principio "ad ogni azienda il suo contratto" si 
attagli alle loro esigenze. Ma le piccole e medie? Il contratto nazionale non 
serve soltanto a proteggere i lavoratori in modo relativamente uniforme. Serve 
anche a proteggere le aziende dalla proliferazione incontrollata di sigle 
sindacali, come pure da rivendicazioni interne, magari extra-sindacali, che in 
assenza di un contratto quadro possono dare agli imprenditori grossi grattacapi.
Un'altra incognita riguarda destino e strategie della Fiom e dei suoi iscritti, 
in presenza di un'intesa che dal 2012 li esclude dalla newco Mirafiori - salvo 
un esito diverso del referendum. A Torino sarà assunto solo chi giura di non 
appartenere alla Fiom? Oppure dovrà nascondere la propria identità sindacale? O, 
al contrario, dovrà portare un badge che permetta ai capi di distinguerli a 
vista? Fuori Torino, poi, le cose potrebbero essere anche più complicate. Chi sa 
se l'ad Fiat si rende conto che in molte aziende meccaniche, comprese quelle che 
fabbricano componenti, la Fiom è il sindacato di maggioranza; in non pochi casi 
è l'unico. All'epoca della produzione giusto in tempo, il parabrezza o la 
sospensione o il disco dei freni che non arrivano perché il fornitore è fermo 
per una vertenza sindacale, può danneggiare la produttività di Mirafiori molto 
più che non i 40 minuti di pausa per turno invece di 30, o la pausa mensa a metà 
turno invece che alla fine. Le grandi strategie sovente naufragano per aver 
trascurato i dettagli.