Giobbe o Dio nella tempesta

 

Don Franco Barbero

 

Dal corso biblico di Torino – testo e sbobinatura non rivista dall’autore

 

da "cdb informa" n° 48 dicembre 2010

 

Prendendo la nostra Bibbia in mano noi dobbiamo premettere alcune note per addentrarci un po’ bene nel libro di Giobbe. Giobbe è un nome non ebraico, l’etimologia è abbastanza incerta. Herbert Hag, un grande esegeta della Bibbia, nella sua ricerca delle lingue semite antiche, dice  che Giobbe dovrebbe significare “dov’è il Padre?”. Ma anche questa è una supposizione, persino un po’ ipotetica, del significato della parola “Giobbe” .

Noi di questo libro abbiamo una versione più lunga e una più breve, con dei grandi problemi testuali: sia in quella ebraica che in quella greca, ci sono delle parti che sono puramente ipotetiche, con parole di non facile interpretazione. Possiamo dividere il libro di Giobbe in 5 parti: il prologo, nei primi due capitoli; il dialogo poetico, che si estende dall’inizio del capitolo terzo fino al cap. 31 versetto 40, in cui ci sono i tre amici che dialogano; poi la terza parte: i discorsi di Eliù, dal cap. 32 al cap. 37 versetto 24; la quarta parte: i discorsi di Jhawè dal cap. 38 al cap. 42 versetto 6; nell’epilogo la ricomposizione della pace di Giobbe, cap. 42 dal versetto 7 al 17.

 

Quando si legge Giobbe cadono tutte le attese del testo edificante: il libro di Giobbe fa parte della letteratura sapienziale ebraica. La Sapienza è soprattutto questo: cercare dentro la nostra vita quotidiana una strada. Ma che cosa avvenne dentro questa sapienza? Si elaborò un criterio che in realtà non è solo dei libri sapienziali, ma anche di quelli profetici: “se tu fai bene avrai bene, perché Dio ricompensa largamente”; si elabora così il principio della “retribuzione”. Si tratta di un principio non così dogmatico, perché nel libro dei salmi è messo mille volte in discussione: “come mai vediamo gli empi che prosperano?…”. E’ però un principio “di governo”:  “se tu una pianta la coltivi bene, la innaffi, la poti, questa produce; e così è di tuo figlio: se lo educhi vedrai che sarà saggio”. Tutto questo accompagna il pio credente ebreo nella sua vita. Ha delle smentite? Sì, però sono come eccezioni ad una regola. La Sapienza è dentro questa logica governata dal principio: “se fai bene avrai bene”, ma lungo il percorso dei secoli questa certezza è scossa e s’affacciano tante domande: “è sempre così?”; “ma spesso non è proprio il contrario?”; “come mai quell’uomo che ha fatto così bene poi è il più “castagnato” dalla vita?”; “siamo noi che ci sbagliamo o è Dio che è infedele?”; “ma come mai noi vediamo che spesso gli innocenti soffrono?”. Lo stesso Isaia aveva visto nel servo di Jhawè un uomo giusto, sia che lo si interpreti come popolo, che come individuo, bersagliato dal male e dal dolore. Le domande si ripropongono e dove si intensificano? Molto probabilmente nel periodo dell’esilio, quando si rilegge tutta la propria storia e si dice “se siamo arrivati a questo punto è perché ne abbiamo fatte da vendere e da pendere, ne abbiamo fatte di tutti i colori: abbiamo violentato la legge di Dio, non gli abbiamo dato ascolto; però ci sono anche tanti innocenti che non hanno compiuto queste cose e perché  anche loro pagano il prezzo di questi errori?”.

Nell’esilio e nel dopo esilio probabilmente avviene la composizione del libro di Giobbe. Bisogna dire che gli esegeti discutono ancora ampiamente sulla formazione di questo testo. Ci sono studiosi che dicono: “tutto Giobbe è nato in modo unitario, non ci sono degli spezzoni aggiunti”. Questa è una tesi valorizzata da alcuni, ma è estremamente minoritaria. Altri esegeti sostengono un’ipotesi della formazione del libro di questo genere: c’è una cornice in cui si narra di un giusto che viene messo alla prova; è un uomo che perde tutto meno la fiducia in Dio ed Egli allora lo ricompensa: era ricco  e alla fine sarà benedetto ancora di più. Questa cornice (costituita da prologo e conclusione del libro), scritta in modo non poetico, appartiene all’elaborazione tradizionale della Sapienza. E’ il principio classico: il giusto viene messo alla prova, ma siccome è fedele, nella fedeltà ottiene la moltiplicazione dei beni. I dubbi e le domande entrano in campo nel periodo dell’esilio e del dopo esilio soprattutto, quando si forma la corrente della cosiddetta “anti-sapienza”. La chiamiamo anti-sapienza per usare il linguaggio che usano questi esegeti. E cosa dice?: “No, questo non quadra più con la realtà!”. Un grande poeta, che si inserisce con l’onestà di chi raccoglie le domande più radicali, compone la poesia, che è tutto il resto del libro di Giobbe, e dice sostanzialmente: “non mi torna più”. L’antico racconto popolare che diceva che il giusto è messo alla prova ma poi viene benedetto (prologo e conclusione), ha al suo interno questa inserzione conflittuale che dice: “non è vero”.

Mentre Giobbe è soggetto a questa esperienza, soffre, perde la pazienza, maledice la sua nascita, maledice chi l’ha fatto, ecco apparire sulla scena gli amici che gli dicono: “ma tu avrai una colpa segreta!”. Essi cercano di razionalizzare: “ma Dio ti manda delle prove perché tu diventi più saggio”. Tutte le ragioni della Sapienza tradizionale! E tutte queste ragioni, nel dialogo con Giobbe, vanno “a ramengo”. Ma anche Giobbe, che pure respinge questa sapienza, non ha una spiegazione e, solo entrando nel dialogo robusto e aspro con Dio, alla fine si arrende e comprende che l’uomo non può capire tutto, che Egli ha un piano, ma ha una sua incommensurabilità rispetto a ciò che noi possiamo pensare e capire di Lui. Questo è il momento in cui Giobbe acquista una visione nuova: “i miei occhi ora ti vedono”; è una delle poche volte in cui si dice che gli occhi di un uomo vedono Dio, quando hanno ne accettato l’alterità. Succede poche volte. Anche nel vangelo di Matteo si dice: “I puri di cuore vedranno Dio”.

 

Il libro di Giobbe, come si è detto, probabilmente viene redatto dopo l’esilio. La parte non poetica, dicono gli esegeti, è un racconto popolare antico, di cui abbiamo alcuni esempi anche nella terra di Babilonia e nel vicino Oriente, che però non sono uguali a Giobbe: sono tutti scritti di gente che poi si arrende, quindi situazioni un po’ diverse. Ma questa domanda sul dolore innocente, in cui si situa il nostro libro, è un interrogativo che appartiene, seppur in modo meno articolato, anche ad altre tradizioni vicine. Per questo si dice che Giobbe è un testo della letteratura universale, nel senso che la domanda del giusto sofferente, presto o tardi, entra in tutte le culture e, vorrei dire, in tutte le situazioni della vita. Alcune domande dei salmi e di Giobbe anche noi non possiamo evitarle. Credo che vorremmo evitarle, ma non possiamo! Sono interrogativi che sovente nella vita si ripropongono. Giobbe è soprattutto un cammino, è un libro ma è anche un a strada. La Sapienza aveva un suo percorso, Giobbe ne delinea un altro, è un tragitto spirituale profondo, molto difficile da compiere.

Nel dopo esilio assistiamo ad un’evoluzione, che alcuni autori evidenziano: si è un po’ decomposta l’idea nazionalistica del “popolo prescelto” e i rimpatriati, vedendo che questo grande sogno d’Israele è tramontato, sono più sollecitati a porsi il problema dell’individuo. Infatti nei libri del dopo esilio c’è anche la dimensione più personale, che era già stata molto presente in Ezechiele. Il profeta aveva detto: “tu non paghi il conto degli altri, tu paghi per le tue responsabilità”. Nel dopo esilio si sente molto di più questo problema, il singolo è più sollecitato, anche perché ha incontrato altre culture ed ha sperimentato il disfacimento dei regni e dell’impero. Israele ha sempre avuto una grande capacità di raccogliere gli interrogativi, le domande di tutti i popoli.

Prendendo spunto dal titolo del bel libro di Wisel su Giobbe, possiamo domandarci: “Ma  chi è nella tempesta?”. Si potrebbe rispondere: Giobbe. No, è Dio che è nella tempesta. Perché dal giorno della creazione noi non gli abbiamo lasciato pace. L’ebreo sente molto questa dinamica di un Dio che non è “lassù” ma è un Dio che ama, che si fa presenza amorosa.

Giobbe viene visto come una lezione per Israele, perché il suo nome è straniero, non è un figlio d’Israele. Ancora una volta Israele impara da uno straniero! I nomi non sono ebraici ed è lo straniero che cerca Dio, che pone le domande più interessanti, le più coinvolgenti, che entra in conflitto con Dio e che non vive di abitudine. Questo è il libro di Giobbe.

Il grande fiume della Sapienza logica viene interrotto. La grandezza della Bibbia ebraica è che a noi ha dato, insieme, i Proverbi, Giobbe e Qoelet, che sono tre risposte diverse, ma che non vengono messe in alternativa. Questo è un pregio di un’incredibile grandezza: non ammettere una sola risposta, ma tenere in tensione tutte queste risposte. Qualche volta ci servirà Proverbi, per renderci attenti alla vita, qualche altra ci servirà Qoelet, quando voliamo troppo sulle nubi, qualche altra ancora ci servirà Giobbe, nella vita. E siccome la Bibbia ebraica è stata scritta nell’arco di mille anni, ha vissuto le traversie dell’esistenza collettiva e personale e quindi è stata  redatta lasciando traccia di questa emozione profonda.

Ma quando noi impareremo ad essere onesti con la vita, ad accettare le domande, anche delle altre persone, le emozioni, i sentimenti, gli interrogativi, quando impareremo, come il libro di Giobbe, a dire: ho cercato e non ho trovato una risposta?

Questa è la grandezza dell’ebraismo. Certo anche al suo interno troviamo le ortodossie, non dobbiamo idealizzare nessuno. Però la Bibbia ebraica esprime questo concetto: “guarda di non nasconderti alle domande, accettale!”.

A me quello che fa paura del cristianesimo sapete cos’è? E’ che quando il cristianesimo si instaura nella società come religione egemone, diventa la religione delle risposte! Ma gli uomini e le donne che non rientrano in quella risposta come fanno a sentirsi a casa loro?

 

Vediamo alcune caratteristiche letterarie del libro. La prima è il silenzio; ci sono lunghi momenti di silenzio: Giobbe in silenzio, i suoi amici in silenzio. Il silenzio non è solo assenza di parole, ma è lo spazio del cuore ed è la fatica del rispondere, la consapevolezza, spesso, di non avere risposta; questo è molto prezioso. Nella nostra vita sappiamo bene quanto questo sia vero. Basta vivere un po’ a lungo per accorgerti che qualche volta “risposta non c’è”, che alcune volte ti devi fermare accanto ad un problema; è così nella vita. La seconda caratteristica letteraria, oltre il silenzio, è l’ironia: Dio si mette a fare l’ironico: “ah, sei tu che hai creato il cielo?”…oppure Giobbe apostrofa i suoi compagni: “voi lanciate della cenere in giro e la vendete come sapienza”. C’è un’ironia che aiuta a sopportare il dolore, ma che è anche un antidoto contro la nostra deificazione, contro il nostro delirio di onnipotenza, contro la volontà di far quadrare il cerchio ad ogni costo, perché il tentativo dei compagni di Giobbe è quello di dare una risposta al problema di tutto questo dolore. Invece l’ironia serve a far vedere come le risposte diventano “sabbia” e come bisogna avere il senso dell’ “ulteriorità”. L’ironia introduce all’ulteriorità, introduce all’esigenza di cercare ancora, di avere pazienza con la storia, perchè la vita è tutta una ricerca e  non sai dove arriverai, come arriverai. E questo però sta bene in rapporto con la fiducia. Non è detto che il non avere tutte le risposte sottragga alla fiducia e cacci nella disperazione; c’è un’attenzione verso il senso storico della propria vita, l’affidamento, di un’umanità che cammina e continua ad interrogarsi.

La terza caratteristica sono le domande. Il punto interrogativo è il signore del libro di Giobbe! Del resto, se si prendono  anche i salmi, le domande sono continue: “Perché o Dio nascondi il tuo volto?”… Non c’è possibilità di un percorso religioso se non si aprono nuove domande: è questo il vero problema! Noi dobbiamo riaprire e squassare il libro della dogmatica cristiana e cattolica. Senza questa operazione la nostra fede inaridisce.

 Ancora, oltre le domande, le immagini giuridiche. Il libro è un processo: gli amici fanno il processo a Giobbe, Giobbe fa il processo a Dio e Dio mette sotto questione Giobbe. Ma è un processo che non finisce in una condanna, un processo che non apre le porte del carcere, ma apre le porte ad una ulteriore ricerca. I procedimenti giudiziari in genere alla fine emettono una sentenza. Dio non pronuncia una sentenza di condanna, semplicemente dice: “Sei arrivato fin qua Giobbe, ma dove tu sei arrivato non basta, affidati”… Sembra che Dio voglia dire: “anch’io non ho tutto chiaro…”