L'ideologia israeliana

di Rossana Rossanda

 “il manifesto” del 15 gennaio 2010

Anche da Israele viene la critica ai miti che accompagnano dovunque l’idea di nazione e in più con il crisma di una religione rivelata. Ma non ha sfiorato i governi di Sharon, di Barak e Tzipi Livni, né sfiora oggi quello di Netaniahu e di Lieberman. È come se vi coesistessero, ignorandosi, una storia in genere, libera nelle edizioni e per gli studiosi, e una «storia degli ebrei» inquadrata, ufficiale, base dell’istruzione obbligatoria.
Qualche mese fa è uscito in Francia il volume dello storico israeliano Shlomo Sand: Comment le peuple juif fut inventé (letteralmente «Come è stato inventato il popolo ebreo», Fayard, Parigi, pp. 446, euro 23, già segnalato da Maria Teresa Carbone nella edizione inglese, Verso). Shlomo Sand insegna all’Università di Tel Aviv e fa parte della giovane scuola di storici degli anni Novanta, che sulle tracce di Baruch Zimmerling (Berkeley, 1993) e Boaz Evron (Bloomington, 1995) – a loro volta seguendo i lavori di Etienne Balibar, Immanuel Wallerstein ed Eric Hobsbawm – discutono alla radice i concetti di popolo, nazione e razza prosperati in Europa nella seconda metà del XIX secolo. E rifioriti adesso con la caduta dell’«universalismo» dei lumi e del movimento operaio socialista e comunista. Ma quel che i nostri nonni si sono raccontati, e cioè che in ogni terra sarebbe insediato ab origine un popolo o razza o etnia rimasto immutato nei secoli che quindi su di essa vanterebbe un diritto naturale, è un «romanzo» ottocentesco. Destinato a rafforzare gli stati, la loro chiusura e le loro eventuali velleità espansionistiche. Così anche per Israele.
Accusati di deicidio
La tesi di Sand è drastica: l’ebraismo non è un «popolo» o una stirpe o, neanche a dirlo, una razza, ma la prima grande religione monoteista diffusa sulle rive del Mediterraneo. Non è una popolazione insediata immemorialmente in Palestina, deportata di là dai romani nel 70 d.C., e da qualche decennio tornata dopo quasi duemila anni di esilio; è il primo monoteismo che si è esteso dal crogiolo mediorientale fra i due fiumi sulle sponde del Mediterraneo fino all’Africa settentrionale e, durante il regno degli asmonei, nel II secolo prima di Cristo, su parte dell’odierna Russia, contendendo il primato alle religioni persiane, ai politeismi egizio, greco e romano, poi al cristianesimo e, dopo il VII secolo, all’islam – due filiazioni del suo stesso Libro. Quanto agli abitanti di Israele e della Giudea, che secondo il Vecchio Testamento sarebbero stati unificati da Salomone e in seguito conquistati dai babilonesi e poi da Roma, è dubbio che siano stati riunificati dal sapiente, non sussistendo nessuna traccia né di lui né delle sue grandiose città, ma è certo che non sono stati deportati dai romani; ne sono stati assoggettati, passando dall’impero romano d’occidente a quello bizantino d’Oriente per essere infine occupati dai «cavalieri del deserto» arabi, con qualche sollievo per la loro maggiore tolleranza rispetto a Bisanzio (si contentavano di imporre ai non musulmani una tassa).
Certo non sono stati costretti a vagare di paese in paese. I fedeli di questa religione superiore, genti assai miste, si sono diffusi come altri nell’Europa e nel mondo, ma obbligati a difendersi dalla maledizione loro gettata dai cristiani che gli avevano attribuito, contro ogni evidenza, la colpa di deicidio. Menzogna mai esplicitamente riconosciuta dalla chiesa come propria: Giovanni Paolo II l’ha attribuita ad «alcuni cristiani», come se non sapesse che l’accusa era sorretta da qualche Vangelo, anche fra i non apocrifi, e più di un concilio. Il Laterano IV ne ribadiva la discriminazione come necessaria, come l’obbligo di portare una ruota vermiglia sull’abito per essere riconoscibili, l’esclusione da ogni pubblico ufficio e possibilmente l’espulsione. Non è l’ultimo dei paradossi che l’ebraismo abbia assunto dal suo principale avversario un tema fondativo come quello dell’esilio.
A suo sostegno Sand porta le fonti scritte e i reperti archeologici provenienti dagli scavi della seconda metà del Novecento, sia in Medio oriente, sia nell’Africa settentrionale, sia in parte della Russia meridionale, un’analisi dettagliata della nascita e degli sviluppi del sionismo dal 1870 ad oggi. E, in quanto costituzionalmente fondata su di esso, conclude con un dubbio sulla qualità della democrazia israeliana.
Un passato di discriminazioni
Va da sé infatti che quanto sopra costituirebbe una controversia storica, niente di meno e niente di più, se sulla teoria di un popolo ebraico secolarmente esiliato non si fondasse l’affermazione che la Palestina sarebbe la terra propria ed esclusiva degli ebrei, l’invito a tutti gli ebrei del mondo a raggiungerla e la cacciata da essa dei palestinesi. Ma il libro di Sand non ha dato luogo in Francia, per quanto mi risulta, a una contestazione da parte della comunità ebraica. Probabilmente per la sua massiccia documentazione e bibliografia, e perché la cultura che egli attacca ha ormai la consistenza di una tradizione recente ma spessa, popolare e populista, che con le radici nei secoli ha poco o nulla a che fare. È come se fosse nata da centotrent’anni, e fosse dotata da allora di una irriducibilità che l’ebraismo non aveva mai avuto.
All’impianto di Sand si può opporre, credo, un’unica obiezione, e cioè se una «identità» assai simile a «popolo» non sia da riconoscere proprio e soltanto a chi si definisce ebreo. Non gli è stata forse costruita addosso, negandogli una cittadinanza e opponendogli ossessivamente forme di esclusione? Quando migliaia, e nel Novecento milioni, di uomini e donne vengono discriminati, deportati o massacrati per essere «ebrei» ed è contemplato il loro sterminio totale, l’«essere ebrei» diventa più pesante di una discendenza millenaria e univoca di sangue, ammesso che questa si dia da qualche parte.
Questo vissuto può non giustificare niente ma spiegare tutto. Una riflessione sulle concezioni di popolo etnia e razza andrebbe fatta non sugli ebrei, «differenza» come un’altra, ma sulla pulsione che spinge a catalogare l’altro come diverso, a metterlo fuori dalla «polis» quando non addirittura dalla norma della natura, a temerlo e odiarlo. È una pulsione assassina e risorgente, non appartiene alla ragione ma all’oscuro e all’inarticolato.
Ma torniamo al libro di Sand. Egli punta il dito sull’assunzione della Bibbia da parte di Israele non già come testo fondatore ma come testimonianza di fatti realmente avvenuti in precisi luoghi e precisi tempi. E non importa che sulla datazione dei Libri e le molte mani che vi hanno concorso la discussione sia aperta fra gli stessi biblisti, o che il racconto della Genesi sia favoloso rispetto ai risultati della scienza – il big bang, i suoi tempi e la loro sequela – o quello dell’Esodo rispetto a quelli più modesti della storia. Succede con il tempo e i modi dell’Esodo degli ebrei dall’Egitto, sullo spettacoloso aprirsi del Mar Rosso per aprire loro un varco, sulla sopravvivenza per ben quaranta anni di una ingente massa di persone nel deserto, sullo spietato sterminio di un’intera città, donne vecchi e bambini inclusi, ad opera di Giosuè ma per volere di dio, di cui fortunatamente non esiste traccia. Ora un conto è l’acquisizione critica di un testo sacro, un altro è telegrafare come Ben Gurion ai soldati nel 1956 dopo la conquista del Sinai: «E ora possiamo intonare l’antico cantico di Mosè e dei figli di Israele… in un immenso slancio comune di tutti gli eserciti di Israele. Avete riannodato con il re Salomone che fece di Eilat il suo primo porto tremila anni fa… e Yotvat, che fu millequattrocento anni fa il primo nostro regno indipendente diventerà parte del terzo regno di Israele» (nel quotidiano «Davar» del 7/11/1956).
Gli eventi anche più antichi lasciano una qualche traccia, ed è normale metodo storico riscontrarne presenza o mancanza. E molte tracce si trovano a testimonianza di una religione ebraica presente su gran parte della riva del Mediterraneo, come fra i berberi nella vicenda della grande regina Kahina, o del lungo regno russo dei Kazari. Con l’avvicinarsi delle fonti storiche, dal vasto lavoro dell’ebreo romanizzato Flavio Giuseppe a quello indiretto del greco Dione Cassio, cade infine il mito della deportazione e si aprono, fra le altre, le pagine della discussa pratica della conversione e della discendenza matrilineare, probabilmente assente fino a Esdra; la Moabita Ruth essendo l’ava diretta nientemeno che di Davide.
I pogrom dell’Ottocento
Tuttavia assai più ricco di interesse è lo snodarsi del sionismo, a partire dall’amico di Marx, Moses Hess, Theodor Herzl e Max Nordau, tutti e tre tedeschi, inseriti nel movimento di identità nazionale allora in energica crescita in Germania e aspiranti ad esservi assimilati. È l’inizio; saranno più rigidi i loro successori provenienti dal vasto terreno yiddish fra Germana e Russia, e provati dai feroci pogrom di fine secolo l’antisemitismo all’est essendo stato più acuto che nell’Europa occidentale. Alla ricerca dell’origine degli ebrei non segue così immediatamente la domanda di una terra; essa è segnata piuttosto dal coacervo di tesi scientifiche o presunte tali, che mescolano e scontrano darwinismo e teorie della razza, spinta all’assimilazione e principio di sangue. Il sionismo ne porta i segni, e con l’ossessione di una origine «pura», l’ebraismo cessa di essere una ricca e varia cultura religiosa e diventa un «popolo» circoscritto; come il Volk tedesco o il narod polacco e russo. Ma diversamente da essi non ha un legame territoriale con le zone in cui risiede. È quindi una acuta mutilazione e mancanza, rovesciata nell’ammonizione divina per cui Israele «Non farà parte delle nazioni umane» (Numeri, 23,9).
Questa chiusura in sé rende la cultura ebraica di quel tempo tutt’altro che ostile al concetto di «razza»: non la scandalizza la tesi di Houston S. Chamberlain ma la sua definizione degli ebrei come razza bianca, sì, ma imbastardita. Così sono innamorati della razza un po’ tutti, Moses Hess, Theodor Herzl e Max Nordau (quest’ultimo ha cambiato perfino il nome da Sudfeld a Nordau). Costui diventerà un potente difensore della purezza della razza ebrea contro le degenerazioni della cultura, dell’arte, dell’omosessualità, delle malattie mentali… bisogna che gli ebrei prendano più sole, espandano i muscoli e facciano ginnastica. Martin Buber, personalità poi ragionante e moderata, scrive pagine deliranti di romanticismo sul sangue, la cui purezza è purezza dell’anima, ed è «lo strato più profondo della nostra comunità». Tutt’altro genere è Vladimir Jabotinski, furiosamente di destra e opposto a ogni composizione fra ebrei e non ebrei, ma sul sangue la pensano allo stesso modo: «un sangue ebreo puro non potrà mai adattarsi allo spirito tedesco o francese come il negro non potrà cessare di essere negro».
Il rapporto con i fellahs
I fondatori dello stato ebraico, Ben Gurion e Ben Zvi sono convinti fino alla rivolta araba del 1929 che i fellahs palestinesi sono della stessa loro razza, poi lo escludono. Insomma destra e sinistra nazionaliste procedono da parametri simili diversamente applicati, fin con gli ebrei stessi – come la tesi vagamente darwiniana che gli askhenazi sarebbero razzialmente superiori ai sefarditi per le maggiori difficoltà di selezione sopportate. Queste idee circolano anche ora.
Dal calderone tardo ottocentesco si stagliano poi le figure di Markus Isaac Jost e di Heinrich Graetz, e Heinrich von Treitsche; il pericolo di una reazione antisemita è avvertito da Thoeodor Mommsen. Ed è uno scontro da far impallidire la recente Historikerstreit. Ma Graetz e Doubnov andrebbero ripubblicati per la massa concettuale che affrontano e rappresentano, e insieme il suo superamento – anche ma non solo, per la terribile crudeltà della Shoah. Quel che oggi costituisce l’ideologia israeliana non ne è che lo scheletro secco.
Che resta come l’eccezione e forse la contrapposizione massima alla natura che si vuole democratica dello stato di Israele. Su questo ossimoro si conclude il libro di Sand, dedicato a una speranza di pace. Peccato che non abbia trovato un editore in Italia.