RIVEDERE IL TEMA DELL’UNICITÀ DI CRISTO


 
di Paul Knitter

chi è Paul F. KNITTER

ADISTA n* 89 del 20.11.2010

Di seguito, in una nostra traduzione dal portoghese, ampi stralci del capitolo quarto, dal titolo Unicidade de Jesus revisada, del libro Jesus e os Outros Nomes, tratto dalla Rivista elettronica latinoamericana di teologia (Relat) dei Servicios Koinonía, un portale che offre un prezioso insieme di servizi nel campo della teologia, della spiritualità, della liturgia, della Bibbia, della pastorale (www.servicioskoinonia. org/relat). (claudia fanti)

Una cristologia correlazionale e globalmente responsabile

(...) Come abbiamo visto nel capitolo precedente, c’è un grande gruppo di teologi e di cristiani comuni che considera un dialogo correlazionale o pluralista come un cammino che allontana dall’impegno nei confronti di Gesù e dalla fe-deltà alla testimonianza cristiana. Per loro, qualunque sforzo, formulato esplicitamente o abilmente mascherato, di porre Gesù sullo stesso livello di altre figure religiose o di altri salvatori, cade in contraddizione con ciò che è stato chiaramente affermato nel Nuovo Testamento e saldamente conservato lungo la storia delle Chiese. (...). Potrebbe essere d’aiuto per una felice comunità di religioni, ma a costo dell’identità cristiana.

Tuttavia, esistono due lati della medaglia. Se gli appelli ad un dialogo correlazionale sembrano minacciare le visioni cristiane tradizionali di Gesù, queste a loro volta sembrano ostacolare un flusso libero e totale del dialogo. I teologi che insistono su quella che è stata chiamata cristologia “inclusivista” –  cioè una visione di Gesù costitutiva o normativa di ogni rivelazione ed esperienza di Dio – argomentano che tale comprensione di Gesù, come manifestazione definitiva, completa e insuperabile di Dio, non impedisce un dialogo autentico. Tuttavia, essi non spiegano come ciò possa accadere. Come posso infatti realmente ascoltare le altrui affermazioni di verità, come posso essere sempre pronto ad ammettere di aver sbagliato e di aver bisogno di correzione, se credo che Dio mi ha dato (senza alcun merito da parte mia) la rivelazione conclusiva, insuperabile, autosufficiente della verità divina? (...).  Pertanto, mi sembra che gli annunci cristiani tradizionali di Gesù siano, come minimo, una minaccia al dialogo.

Per i cristiani, un dialogo minacciato è (o dovrebbe essere) un problema serio esattamente quanto un’identità cristiana minacciata. Come abbiamo sottolineato nel II capitolo, un dialogo autentico tra culture e religioni – in cui tutte le parti sono pronte ad apprendere proprio quanto a insegnare, pronte a riconoscere la verità di altri proprio quanto a parlare della propria verità – è percepito oggi come un imperativo morale. Qualunque cosa renda problematico tale dialogo è un problema in sé. Pertanto, un teologo-credente cristiano non può per prima cosa elaborare una cristologia o visione di Gesù e solo dopo pensare come questa si ponga in relazione al dialogo. (...) La realtà di altre religioni e la necessità del dialogo devono piuttosto far parte delle precondizioni per comprendere chi è Gesù. (...).

In questo capitolo offro, in una forma totalmente sperimentale, alcune proposte per (...) una cristologia correlazionale, globalmente responsabile, che tenti di rimediare al problema delle due facce della medaglia appena descritte: una comprensione di Gesù che, da un lato, sia fedele alla testimonianza originale e conduca al discepolato cristiano e, dall’altro, alimenti e orienti un dialogo con altri credenti autenticamente correlazionale e liberatore. (...). Il tema di questo capitolo è la questione complicata dell’unicità di Gesù. Confido che risulti chiaro che la mia intenzione non è di negare tale unicità, ma di rivederla e riaffermarla. (...).

 

Il significato della fedeltà a Gesù, il Cristo

Sollevando la questione della fedeltà alla testimonianza originale cristiana su Gesù, stiamo di fatto interrogandoci sulla natura della fede cristiana e della teologia cristiana. Suppongo che la maggior parte dei cristiani concorderebbe sul fatto che, parlando della propria vita di fede, sarebbe più esatto dire che si vive la propria fede piuttosto che dire che si ha la propria fede.

Potremmo dire lo stesso riguardo all’essere “fedeli al vangelo”: la fedeltà non è qualcosa che si possiede, ma che si vive e si pratica nella quotidianità. Tuttavia, se la fedeltà e la fede sono questione di essere invece che di avere, di vivere invece che di affermare, allora il fondamento o fonte di questa fede fedele non può essere solo il vangelo o la Bibbia. La Bibbia da sola sarebbe sufficiente se la fede fosse  questione di avere o di affermare: tutto ciò di cui avremmo bisogno sarebbe di comprendere cosa significa e di preservare tale comprensione. Ma se la fede è principalmente questione di vivere e di agire, allora dobbiamo applicare quel che leggiamo nella Bibbia a quello che avviene nelle nostre vite, a situazioni concrete così come mutano da un giorno all’altro nella nostra storia. (...).

 

La credenza corretta (ortodossia) ha la radice nell’a-zione corretta (ortoprassi)

Tutto ciò significa che la fedeltà alla tradizione cristiana, specialmente a “scritture normative”, è principalmente un fatto di azione corretta o ortoprassi e non solo di parole corrette o ortodossia. Ho detto “non solo” perché parole, dottrine e idee corrette sono essenziali. E sono essenziali nella misura in cui, e solo nella misura in cui, promuovono e risultano dall’azione corretta. Ma non sono le principali. (...).

Di fatto, stando a quanto dice Gesù, la necessità di seguirlo sembra avere la priorità sul pregare o rendergli lode. “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21-23). E, stando a Giovanni, quando i potenziali discepoli di Gesù volevano saperne di più su di lui – dove viveva e chi era – egli risponde semplicemente: “Venite e vedete” (Gv 1,35-51). È nella sequela ed imitazione di Gesù che i cristiani arrivano a conoscerlo e a credere in lui in maniera corretta. (...).

Riconoscere Gesù come il nostro Signore e Salvatore è significativo soltanto quando cerchiamo di vivere come egli ha vissuto e di organizzare la nostra vita secondo i suoi valori. Abbiamo bisogno non di teorizzare su Gesù, ma di “ri-produrlo” nel nostro tempo e nelle nostre circostanze... (...).

 

Il linguaggio del Nuovo Testamento su Gesù

Queste considerazioni riguardo al primato della prassi sulle formulazioni del credo possono aiutarci a determinare come possiamo comprendere ed essere fedeli a tutte le cose meravigliose che nel Nuovo Testamento si dicono su Gesù (...). Sto pensando soprattutto ai titoli dati a Gesù come Figlio di Dio, Salvatore, Parola di Dio, che sembrano collocarlo in una categoria separata e superiore a quella di tutti gli altri fondatori e leader religiosi. Più precisamente, sto pensando ad aggettivi e avverbi applicati a Gesù e al suo messaggio che sembrano escludere tutti gli altri, come: “Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11,27). (...). “Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù” (1Tm 2,5). (...). “Non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,12).

(...) Seguendo le osservazioni della studiosa Krister Stendhal sul Nuovo Testamento, ho cercato di dimostrare, in un altro scritto, che, se relazioniamo tale linguaggio con la pratica di devozione del cristianesimo antico, possiamo descriverlo come “linguaggio d’amore” (Knitter 1985, 184-186). (...). Le persone erano toccate e trasformate da questo Gesù; sperimentavano, malgrado la sua morte, una relazione viva e vivificante con lui; erano dedite a lui; ne erano innamorate. E parlavano il linguaggio delle persone innamorate.

Non si trattava di una relazione personale, individualista (“solo io e Gesù”), ma di una relazione che le persone volevano condividere, poiché sentivano che anche altri potevano arrivare ad avere la stessa esperienza di Gesù e ad usare lo stesso linguaggio d’amore. Ma se queste espressioni d’a-more come “Figlio unico” o “un solo mediatore” le trasformiamo in asserzioni meramente dottrinali o teologiche, e  le usiamo per il compito negativo di escludere altri invece che con l’intenzione positiva di proclamare il potere salvatore di Gesù, allora temo che stiamo abusando di questi testi. Che siamo infedeli ad essi.

(...) Quando gli antichi cristiani attribuivano a Gesù questi termini sublimi, come Parola di Dio o Figlio di Dio, non si stavano impegnando principalmente a presentare il mondo con una definizione filosofica o dogmatica; piuttosto, si stavano dichiarando e stavano invitando altri ad essere discepoli di Gesù, a seguirlo nell’amore verso Dio e il prossimo e nel lavoro a favore di quello che Gesù ha chiamato Regno di Dio.

(...) Chiamare Gesù “Figlio unico di Dio” non aveva come obiettivo principale quello di una definizione ontologica, immutabile, della sua natura, ma piuttosto quello di un’affermazione di un cammino di vita basato su Gesù. (...). È così che i cristiani devono essere fedeli a questo linguaggio di sapore esclusivista del Nuovo Testamento: seguendo Gesù e dando continuità al suo stile di vita nella propria vita, non escludendo altri. Qualunque esclusione possibile di altri avverrà solamente come una conseguenza necessaria del seguire Gesù, non come un pre-requisito di questa sequela. (...).

 

Cosa avviene con il pluralismo religioso del mondo del Nuovo Testamento?

Tuttavia, come segnalano i critici, i cristiani antichi escludevano altre idee e altri leader religiosi, utilizzando testi del tipo “non vi è altro nome” come avvertimenti alla comunità a mantenere le distanze dai membri di altre religioni. Come indicano i critici, il mondo del Nuovo Testamento abbondava di diversità religiosa e gli antichi discepoli di Gesù rispondevano consapevolmente a questa realtà con le loro cristalline asserzioni sull’unicità esclusiva (o almeno inclusiva) e sulla normatività di Gesù. (...).

Tali rilievi devono essere presi sul serio. Nel proclamare il “nuovo contesto” di un villaggio globale di religioni diverse, gli attuali difensori del pluralismo hanno dimenticato che il contesto non è così nuovo: qualcosa di simile si accalcava intorno alla culla della neonata religione cristiana. Pur ammettendo questo, devo porre un’altra domanda a mio giudizio essenziale: perché gli antichi cristiani sembrano respingere in maniera così netta lo sfrenato pluralismo religioso dell’epoca? (...).

I cristiani delle origini rifiutavano il pluralismo religioso dell’epoca non perché era contrario alla loro fede sull’uni-cità di Gesù, ma perché non poteva essere conciliato con l’azione corretta o con la visione etico-sociale presente nel messaggio di Cristo relativo al Regno di Dio. Erano motivazioni soteriocentriche o regnocentriche più che convinzioni cristocentriche o monoteiste a provocare questo rifiuto del pluralismo, per quanto tali motivazioni non fossero esposte esattamente nella forma o linguaggio che sto usando ora.

Il mio principale argomento a sostegno di questa ipotesi è un altro fatto storico, trascurato da alcuni dei critici. Come ammette Frans Jozef van Beecks, “il pluralismo moderno differisce molto dal pluralismo del I secolo” (van Beeck, 1985, 33-34). (...). La differenza principale tra i due è che il pluralismo del I secolo era maggiormente orientato verso il relativismo e/o il sincretismo, ne era di fatto penetrato. La tolleranza religiosa era tale da tollerare qualsiasi cosa. (...). Di fatto, le differenze non avevano importanza, specialmente nei culti sincretici.

È per questo che i cristiani antichi si sentivano respinti da questa diversità e dalla tolleranza religiosa, che avrebbe semplicemente assorbito e neutralizzato la nuova visione di Gesù del Regno e, oltre a ciò, avrebbe tollerato altre visioni opposte a questo Regno. Essi rifiutavano il pluralismo, allora, non perché questo andava contro il ruolo o la natura di Gesù Cristo, ma perché era contrario al tipo di Dio e al tipo di società che erano essenziali nella visione di Gesù del Regno di Dio. (...).

 

“Veramente” non ha bisogno di “unicamente”

(...) La revisione su cui sto insistendo può essere formulata concisamente e chiaramente in termini di avverbi: veramente, ma non unicamente.

I cristiani possono e devono affermare, nelle proprie co-munità e di fronte al mondo, che tutte le cose meravigliose dette su Gesù nel Nuovo Testamento si applicano a lui in verità, ma non necessariamente in maniera unica. “In verità” è una componente essenziale dell’esperienza che i cristiani hanno di Gesù e della loro fedeltà a lui; “in maniera unica” non è necessario e, di fatto, per molti cristiani non è neppure possibile. (...).

Quando qualcuno sa che Gesù è veramente salvatore non può sapere che egli è l’unico salvatore. L’esperienza personale è limitata e non è capace di comprendere le esperienze e i messaggi di tutti gli altri salvatori o di tutte le altre figure religiose.

Ma, se i cristiani non sanno o non possono sapere che Gesù è l’unico salvatore, non sono neppure obbligati a saperlo per potersi impegnare nei confronti di questo Gesù. (...).

 

Completo, definitivo, insuperabile? No!

Il contenuto della differenza tra veramente e unicamente deve essere spiegato in maniera più chiara e dettagliata. Per prima cosa, a partire da una prospettiva negativa, se i cristiani prendono sul serio la possibilità che Gesù non sia l’unica auto-manifestazione del Divino, e non sia l’unica incarnazione della verità e della grazia di Dio, dovranno allora qualificare o rivedere tre aggettivi che predicatori e teologi hanno attribuito al modo in cui essi parlano della rivelazione di Dio in Gesù: completo, definitivo e insuperabile. Riassumerò le ragioni per cui il fatto di precisare o anche rimuovere questi termini della proclamazione cristiana di Gesù non solo è possibile, ma è anche richiesto da altri aspetti a cui i cristiani dicono di credere riguardo a Dio e all’incarnazione divina in Gesù.

a) I cristiani non hanno in Gesù la pienezza o la totalità della rivelazione divina, come se egli esaurisse tutta la verità che Dio aveva da rivelare. Credo che tale affermazione sia fondata su convinzioni tanto teologiche quanto bibliche. Teologicamente, i cristiani, nel corso della loro tradizione, hanno accettato senza discutere il fatto che nessun mezzo finito possa esaurire la pienezza dell’Infinito. Identificare l’Infinito con un qualunque finito – cioè contenere e limitare il Divino in una qualunque forma o mediazione umana – è stato definito, biblicamente e tradizionalmente, idolatria.

Allora, se l’idolatria è questa, la credenza cristiana nell’in-carnazione del Divino nell’uomo Gesù non sarà idolatra? In verità no, perché l’incarnazione significa che la Divinità ha assunto la pienezza dell’umanità, e non che l’umanità ha assunto la pienezza della Divinità. (...). Inoltre, nella testimonianza biblica su Gesù, per quanto molte volte egli venga associato strettamente alla stessa attività e allo stesso essere di Dio – essendo chiamato Figlio, Parola, Sapienza di Dio – egli non viene identificato con Dio. (...). Affermando e cercando di cogliere la comprensione di Giovanni su Gesù come incarnazione del Logos, i teologi cristiani antichi riconoscevano che questo Logos non era meramente confinato in Gesù; che la Parola è attiva nel mondo prima di Gesù e continua ad esserlo dopo di lui. (...).

b) (...) Annunciare che qualcuno possiede la Verità Divina definitiva è sostenere che la Sapienza, che oltrepassa ogni conoscenza, e l’Amore, che è eternamente creativo, sono stati depositati in un recipiente in cui nulla può essere aggiunto. Se è questo che i cristiani comprendono quando dicono di possedere il deposito definitivo della fede, allora il loro deposito sembra inquadrarsi nella definizione di un idolo.

(...) Nel continuare ad affermare l’autenticità della presenza potente della Parola di Dio in Gesù, stiamo anche affermando che questa Parola non può essere ristretta, che può senz’altro sorprenderci ed educarci in qualunque luogo. Persino Tommaso d’Aquino ha riconosciuto la possibilità che la Seconda Persona della Trinità si incarni in altre nature umane oltre a quella di Gesù. “Non possiamo dire che la persona divina, assumendo una natura umana, non possa assumerne un’altra”. (...).

c) Conseguentemente, la parola salvifica di Dio in Gesù non può essere esaltata come insuperabile, come se Dio non potesse rivelare altro della sua pienezza in altre forme e in altri tempi. (...). Quindi, pensare a un pacchetto della Verità Divina che sia insuperabile significa alzare un idolo. Ciò sembrerebbe anche contraddire o escludere il ruolo dello Spirito Santo affermato da Gesù nel Vangelo di Giovanni: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera” (Gv 16,12-13). Se crediamo nello Spirito Santo, dobbiamo credere che ci sia sempre qualcosa d’altro ancora da venire.

Pertanto, anche un teologo come Jon Sobrino, profeticamente sensibile rispetto a qualunque tentativo di diluire o “pacificare” le esigenze di Gesù e del Regno, mette in guardia dai pericoli di quello che definisce “mera gesuologia” o “riduzione cristologica”, intendendo con ciò la riduzione della realtà del Regno di Dio allo stesso Gesù, di modo che, in Gesù, avremmo la presenza totale o insuperabile del Regno. Sobrino ricorda che Gesù non è “l’ultima cosa che Dio può progettare per la storia” e che l’incarnazione della Parola in Gesù non “rappresenta la realizzazione della volontà finale di Dio”. (...).

Le difficoltà pratiche che la riduzione cristologica presenta sono più chiare. Quando si fa della persona di Cristo l’assolutamente assoluto, si afferma frequentemente che egli è il Regno di Dio, che nel Tu di Cristo si trova l’ultimo polo referenziale della fede. In questo modo, per quanto senza una necessità logica, si finisce per orientare la risposta al messaggio evangelico più nella linea della fede, del contatto personale con Cristo, che nella realizzazione del Regno di Dio (Sobrino 1982, 53).

 

Universale, decisivo, indispensabilel? Sì!

Tuttavia, non possiamo fermarci qui. Il discepolato e la fedeltà alla testimonianza del Nuovo Testamento esigono che i cristiani conoscano e proclamino Gesù come vera presenza salvifica di Dio nella storia. Se i cristiani non hanno più bisogno di insistere sul “solamente”, devono allora continuare a proclamare il “veramente”. Dispiegando il contenuto di questo “veramente”, possiamo dire che i cristiani devono annunciare Gesù a tutte le persone come una manifestazione universale, decisiva e indispensabile della verità e della grazia di Dio. Di nuovo, mi permetto di chiarire brevemente quello che contiene ciascuno di questi aggettivi.

a) La parola di Dio in Gesù è universale nella misura in cui viene sperimentata come un appello non solo ai cristiani, ma alle persone di tutti i tempi. (...). Diluire l’universalità delle convinzioni della verità cristiana significa violare la te-stimonianza biblica. E significa anche violare il modo in cui la verità viene sperimentata. Se qualcosa è vero, specialmente quando è la verità che tocca il cuore di come percepisco il mondo e di come vivo la mia vita, non può essere vero solo per me. Deve essere vero anche per altri. (...).

b) La rivelazione data in Gesù è anche decisiva. Ci scuote, ci sfida e ci invita a cambiare prospettiva e condotta. Fa la differenza nella nostra vita; e questa differenza, spesso, se non sempre, “ci isola” da altre prospettive e stili di vita. Pertanto, dire che Gesù è decisivo significa che egli è normativo. (...). Per quanto i cristiani possano immaginare che Dio potrebbe avere altro da rivelare all’umanità rispetto a quello che si è dato a conoscere in Gesù, essi non possono pensare che tale rivelazione verrebbe a contraddire le componenti centrali della verità che essi hanno trovato in Gesù (Haight, 1989, 262; e anche Ogden 1992, 101-102). Pertanto, nell’offrire questa norma, la buona novella di Gesù definisce Dio, ma non confina Dio; essa rivela quello che i cristiani sentono che è essenziale per una vera conoscenza del Divino, ma non offre tutto ciò che costituisce questa conoscenza.

Con questa comprensione del carattere decisivo e normativo di Gesù, credo che possiamo far fronte alle preoccupazioni di quei cristiani che sostengono che le nuove visioni dell’unicità di Gesù sono contrarie a quello che essi percepiscono della sua autocoscienza come profeta definitivo. (...). Quando Gesù si considerava definitivo (egli non ha mai usato questa parola), stava invitando tutti a ricevere il suo messaggio con una serietà totale, perché questo messaggio li stava esortando a prendere una posizione, a decidersi a favore o contro il Regno di Dio. Tuttavia, nella misura in cui si percepiva profeta (la parola probabilmente usata da lui), egli voleva che tutti coloro che lo seguivano autenticamente fossero aperti a qualunque luogo e a qualunque persona per mezzo di cui venisse realizzato il Regno. Il suo messaggio normativo non esclude necessariamente altri messaggi.

c) Infine, i cristiani continuano a proclamare la verità data a conoscere in Gesù come indispensabile. (...). Se io sperimento che qualcosa è vero non solo per me, ma per altri, e se questa verità ha arricchito e trasformato la mia vita, sento automaticamente che essa può e deve fare lo stesso con altri. Allora, per i cristiani, incontrare Gesù come qualcuno che manifesta la realtà e l’ambito di Dio, e che li invita a giocare il proprio destino in maniera decisiva su questa visione, significa sperimentare il suo messaggio come qualcosa di “necessario”, qualcosa senza cui non riusciremmo a vedere la ricchezza di Dio e ciò che Dio è capace di fare nel mondo. Per usare le parole di Jon Sobrino: “Lo stesso Gesù, allora – ciò che egli fa e dice, ciò che soffre e ciò che gli capita – diventa essenziale per una comprensione della venuta del Regno e del modo in cui si realizza questa venuta” (Sobrino 1988, 30).

In altre parole, conoscere Gesù è sentire che i buddisti, gli induisti e i musulmani hanno anch’essi bisogno di conoscerlo; il che significa che essi hanno bisogno di riconoscere e accettare la verità che egli rivela (per quanto ciò non significhi necessariamente che essi diventeranno membri della comunità cristiana). Allora, mi pare che sia inerente all’espe-rienza cristiana di Gesù la convinzione che a una persona che non conosce o in qualche modo non accetta il messaggio e il potere del Vangelo manchi qualcosa nella propria verità di conoscere e di vivere. Qualunque altra verità vi sia in altre tradizioni sulle cose ultime e sulla condizione umana, questa verità può essere aumentata, chiarita – forse anche corretta – attraverso un incontro con le Buone Novelle trasmesse in Gesù.

(...) Così, questo è un primo abbozzo di una reinterpretazione dell’unicità di Gesù: Gesù non è la verità totale, definitiva e insuperabile di Dio, ma è portatore di un messaggio universale, decisivo e indispensabile. È importante notare che nell’ultima frase ho detto “un” invece di “il”, poiché, se non insistiamo più sul fatto che Gesù è l’unica parola salvifica di Dio, siamo aperti alla possibilità che ci siano altre manifestazioni universali, decisive e indispensabili della realtà divina oltre a Gesù. Così, se i cristiani sono profondamente convinti del fatto che, qualunque sia la verità esistente in altre tradizioni, essa possa essere illuminata, completata, forse trasformata dalla Parola che è stata loro data, allo stesso modo devono essere profondamente disponibili ad essere illuminati, completati e trasformati dalla Parola detta e incarnata per loro in persone di altri cammini religiosi. (...).

Questa nuova interpretazione dell’unicità di Gesù cerca di promuovere la trasformazione tanto di altre religioni quanto del cristianesimo. Solo per mezzo del dialogo possiamo sapere ciò che questa trasformazione implicherà e quanto coinvolgerà altre fedi e il cristianesimo.

 

Una unicità relazionale

(...). Il modello cristiano trinitario comprende Dio come autocomunicativo; la natura di Dio richiede che Dio sia Parola, il che significa che Dio parla o diventa Parola. Ciò vuol dire, applicato a un ordine finito e storico, che la Parola Divina deve esprimersi in parole; il Logos, incarnandosi nella storia, diventerà logoi spermatikoi: le molteplici parole-sementi gettate nel campo della storia. Secondo la formulazione di Anthony Kelly, l’affermazione cristiana di Dio come Parola nella storia prepara i fondamenti per una “conversazione globale” (Kelly, 1989, 233-234). (...).

Ciò che io chiamo “unicità relazionale” è stato designato anche come “unicità complementare” o “unicità inclusiva” (Thompson, 1985, 388-393; Moran, 1992). Secondo William Thompson, se crediamo in un Dio kenotico, cioè che “il Divino si è autolimitato kenoticamente e si è rivelato all’in-terno delle forme culturali, necessariamente limitate, delle diverse religioni e dei loro fondatori”, allora dobbiamo riconoscere non solo l’unicità di molte religioni, ma anche la loro necessaria complementarità (Thompson, 1987, 22-24). John Cobb indica la stessa comprensione complementare dell’unicità quando risponde alla sua stessa domanda: “Sto affermando l’unicità cristiana, allora? Certamente ed enfaticamente, sì! Tuttavia, sto affermando l’unicità anche del confucianesimo, del buddismo, dell’induismo, dell’islam e dell’ebraismo (Cobb, 1990, 91-92). Ogni religione è unica, ma non può rimanere sola (...).

Cobb afferma che Cristo “non ha bisogno di entrare in conflitto” con altre dichiarazioni di carattere unico. Tuttavia, Cristo può entrare in conflitto e, a volte, deve. È per questo che preferisco l’espressione unicità “relazionale” invece che “complementare” o “inclusiva”. (...). Quando i cristiani proclamano l’“amore puro e illimitato di Dio” in azione nel mondo e, pertanto, non insistono a dire che Gesù è la Parola di Dio completa, finale o insuperabile, essi sperano che, maggioritariamente, le loro relazioni con i veri credenti di altri cammini saranno realmente complementari. Ma quando i cristiani sperimentano la presenza di Dio in Gesù, includendo affermazioni di carattere universale, decisivo e indispensabile, devono prepararsi anche ad adottare una posizione forte, a volte di opposizione, nei confronti delle affermazioni di altri. Per quanto si cresca sempre attraverso le relazioni, la crescita può essere, molte volte, dolorosa.

Così, con John Cobb, possiamo descrivere la fede e il discepolato cristiano in modo conciso e stimolante: Gesù è il cammino che è aperto ad altri cammini (Cobb, 1990, 91). Il tipo di verità che Gesù ci abilita ad affermare e sentire è una verità che ci racconta come, felicemente e in maniera affascinante, ci sia altra verità ancora da venire”. Dire “sì” a Dio, che si è rivelato in Gesù, è dire “sì” a quello che Dio ancora ci deve rivelare. La verità che conosciamo ci dà la fiducia, e anche il desiderio, per affrontare qualunque verità che possa ancora venire, non importa quanto sorprendente e perturbante. Così, paradossalmente, sperimentare che Gesù rivela la “pienezza” della verità è avere la consapevolezza, allo stesso tempo, che noi non sappiamo cosa questa pienezza contiene. (...). La “pienezza” di Dio in Gesù, in altre parole, è tale da aprirci alla “pienezza” di Dio in altri. (...).

La questione è, allora, ciò che Cristo sta facendo oggi nel mondo. Non è difficile pensare questa azione come qualcosa che ci redime dalla nostra finitezza e che rompe la nostra tendenza a pensare che le nostre opinioni sono definitive e sufficienti. È facile pensare questa azione come qualcosa che ci invita ad ascoltare la verità e la saggezza di altri... Apprendere da altri qualunque verità essi abbiano da offrirci e integrarla con i criteri e la saggezza che abbiamo appreso dalla nostra eredità cristiana è ciò che sembra essere la fedeltà a Cristo (Cobb 1990, 91)