Luigi  Garlaschelli
Il Mistero del Telo Sindonico
da La Chimica e l’ Industria, 80, 629 (1998)

 

La Sindone di Torino celebra quest’anno sè stessa: nel 1898, infatti, venne scattata la sua prima fotografia, il cui negativo sembrò tanto "realistico" da fare gridare al miracolo e segnare l’avvio di una disciplina tutta particolare: la sindonologia.  Essa analizza il Telo dal punto di vista tecnico-scientifico, con lo scopo di comprovarne o meno l’autenticità. 1 Dunque, da un secolo, non dovrebbero più essere le ragioni dottrinali o di fede a convincere, ma "le ragioni della Scienza".
    Poiché molte analisi condotte sulla Sindone furono di tipo chimico, non sembra inopportuno presentare una brevissima panoramica dei principali problemi riguardanti lo studio di queste celeberrima reliquia, delle discussioni che essa ha generato nel corso dei secoli, e dei contrasti che continuano tutt’ora, anche dopo il test col Carbonio 14 che la condannò come artefatto medievale.
    E’ sottinteso e ovvio che qui non si tratta di di un problema di fede, ma tecnico: i miracoli, e tantomeno le reliquie più o meno autentiche, non sono dogmi, e la Chiesa stessa ha una lunga tradizione di indagini scientifiche in merito.

    La Sindone di Torino non è affatto nota dal primo secolo dopo Cristo.  Questa discussa reliquia comparve improvvisamente in Francia, a Lirey, verso il 1357, proprietà dei discendenti di Goffredo di Charny, un piccolo feudatario. Immediatamente Henri de Poitiers, il vescovo della locale diocesi (Troyes) si oppose all’ostensione che veniva fatta del telo, ritenendolo un evidente falso. Infatti i Vangeli non ne parlano, né egli riteneva verosimile che esso fosse rimasto sconosciuto per tredici secoli. Le ostensioni ripresero trent’anni dopo, e ancora il nuovo vescovo, Pierre d’Arcis, si oppose. Dopo un lungo braccio di ferro tra lui e il decano della chiesa ove avvenivano le ostensioni, nel 1389 il vescovo si appellò al Papa Clemente VII con un lungo memoriale, nel quale si racconta come il suo predecessore avesse addirittura trovato l’artista che l’aveva "astutamente dipinta".
    Il papa permise le ostensioni a patto che si dicesse ogni volta che si trattava di una raffigurazione, e non del vero Sudario di Cristo. Le ostensioni cessarono, e il Telo passò poi, tramite la nipote di Goffredo, ai Savoia; costoro la trasferirono prima a Chambéry (ove essa subì i danni di un incendio, ancora visibili), e poi a Torino.
    Dimenticate lentamente le poco nobili origini e le polemiche iniziali della Sindone, i Savoia ne promossero sempre più il culto, fino ad ottenere l’avallo dichiarato di alcuni papi, come Giulio II.
    Tra le mille reliquie medievali, come spine della corona, pezzi di legno e chiodi della croce, sandali e tunica di Gesù, frammenti del suo cordone ombelicale ed altro ancora, le sindoni non erano una novità. Generalmente erano teli bianchi (i Vangeli non citano alcuna impronta su di essi). Esistevano invece dei piccoli asciugamani detti Veroniche o, in oriente, mandylion, su cui, secondo varie leggende, Gesù avrebbe lasciato impresso il suo volto da vivo: con gli occhi aperti, e nessun segno della Passione. Ne erano esempi famosi il mandylion di Edessa, e nel Trecento il sacro Volto di Roma e quello di Genova ( ne parla anche Dante). E’ forse dall’unione dei due concetti di impronta miracolosa e di sudario che nacque l’idea di una sindone recante l’impronta dell’intero corpo.
    Una sindone gemella a quella di Lirey, quasi certamente di origine bizantina, era venerata fin dal Duecento a Besançon. Bruciata in un incendio nel 1349, fu "ritrovata" intatta 28 anni dopo e tornò a diventare famosa. Questo dunque negli stessi anni in cui ne esisteva una seconda a Lirey, a poche centinaia di chilometri di distanza. 2
    Nel nostro secolo, anche prima delle raffinate analisi spettroscopiche, l’implausibilità della Sindone di Torino fu affermata da molti, per varie ragioni: una tessitura mai usata nel primo secolo; il modo del tutto assurdo, e mai documentato storicamente, in cui si sarebbe dovuto ricoprire il cadavere; la resa chiaramente artistica dei capelli, delle colature di sangue, degli arti; e soprattutto la totale mancanza delle deformazioni geometriche che sarebbero da attendersi da un’impronta lasciata - con qualunque mezzo - da un corpo umano su un telo avvolto o appoggiatovi, ecc.
    Molti sindonologi autenticisti (i termini sono diventati nei fatti quasi un sinonimo) furono e sono medici legali piuttosto che fisici o chimici. A loro dire, la precisione anatomo-patologica delle ferite e delle lesioni riportate sulla Sindone sono completamente realistiche e compatibili solo con un vero cadavere. Di queste affermazioni mancano però controprove sperimentali, e il parere di medici critici viene in genere taciuto - o meglio, nemmeno richiesto. Queste considerazioni erano di moda nella prima metà del secolo.
    Nello stesso periodo si propose una prima teoria chimica che tentava di spiegare la formazione di quell’immagine così sfumata. Era la teoria "vaporografica" di Vignon (1902) secondo la quale i vapori di ammoniaca (originata dall’urea emessa dal cadavere) avrebbe reagito con olii, aloe e mirra sul lenzuolo. Gli esperimenti pratici furono un fallimento: a causa della prevedibile diffusione dei vapori si sono sempre ottenute impronte del tutto informi. L’aloe e la mirra sul telo sono però ancora invocate da diversi sindonologi odierni: queste sostanze reagirebbero con componenti del sangue presente sul cadavere, a dare una colorazione bruna. Oltre alle inevitabili deformazioni geometriche di cui sopra, queste teorie di genesi dell’immagine per contatto diretto di un corpo con un telo producono un effetto "timbro" senza sfumature.
    Ma sono le analisi di laboratorio quelle di cui ormai si discute più spesso; per esempio circa la presenza o meno di sangue. Ovviamente, su una sindone falsa si potrebbe trovare sangue, coloranti, o entrambi; ma una sindone vera - anche se fosse stata ritoccata con colori - deve necessariamente possedere tracce di sangue.
    Una prima commissione di indagine istituita dal cardinale Pellegrino nel 1973 diede però risultati deludenti.
    Su dieci fili prelevati da varie macchie di "sangue" il laboratorio di analisi forensi del prof. Giorgio Frache di Modena ebbe solo risultati negativi. Esami microscopici condotti da Guido Filogamo e Alberto Zina non mostrarono tracce di globuli rossi o altri corpuscoli tipici del sangue. La quantità di materia sui fili nelle zone delle macchie è così grande che difficilmente tali analisi avrebbero potuto produrre dei "falsi negativi". Si videro invece granuli di una materia colorante che non si dissolveva in glicerina, acqua ossigenata o acido acetico, e sulla cui natura non ci si pronunciò. Le analisi per cromatografia su strato sottile eseguite da Frache furono pure negative. Un altro membro della commissione, Silvio Curto, trovò tracce di un colorante rosso.
    Si deve anche notare che il "sangue" sulla Sindone è ancora molto rosso, mentre è ben noto che normalmente la degradazione dell’emoglobina lo rende scurissimo in breve tempo. Secondo i fautori della Sindone, ciò dimostra che il corpo era stato trattato con sostanze conservanti.
    Nel 1978 l’allora vescovo di Torino cardinale Ballestrero (coadiuvato dal professor Gonella del Politecnico di Torino in qualità di consulente scientifico) permise una nuova serie di analisi. La Sindone fu esaminata per 120 ore da un gruppo di scienziati americani, lo STURP (Shroud of Turin Research Project), che la sottopose a una serie di test chimici, fisici e spettroscopici sui quali ancora oggi si discute. 3
    In netto contrasto con i risultati predetti, i chimici dello STURP Heller e Adler - nessuno dei quali è però un esperto di analisi forensi, e che furono i soli ad eseguire queste microanalisi - dissero di avere accertato la presenza di sangue perché avevano ottenuto le reazioni tipiche delle porfirine. Nessuna delle loro ulteriori analisi è specifica per il sangue. Il test delle porfirine, per es., sarebbe positivo anche su tracce di origine vegetale. Nel 1980 il notissimo microscopista americano Walter McCrone trovò sui nastri che la commissione dello STURP gli aveva passato tracce di ocra rossa, cinabro (HgS: pigmento rosso molto usato nel medioevo) e di alizarina (pigmento vegetale rosso-rosa). McCrone riportò inoltre la presenza di un legante per le particelle di pigmento che vide, che potrebbe essere collagene (gelatina) o bianco d’uovo. In pratica si tratterebbe di colori a tempera. Recentemente la presenza di sangue umano (gruppo AB) sarebbe stato ri-dimostrato grazie ad analisi immunologiche : test tanto sensibili da rendere difficile discriminare tra campione e inquinamenti.
    Le caratteristiche intrinseche dell’immagine sono molto interessanti. Essa viene paragonata a una specie di negativo fotografico, il cui positivo, (quello che spesso vediamo), appare così realistico. Altri fatti indiscussi sono che l’immagine è superficiale (non passa dall’altra parte del telo), e che non è prodotta da pigmenti o coloranti, (a differenza delle macchie di sangue, che intridono tutto lo spessore della tela con una sostanza che incolla le fibre, e in cui sono visibili particelle rosse). L’immagine è dovuta ad un ingiallimento delle fibre di cellulosa, in pratica a una degradazione dovuta a disidratazione e ossidazione.
    La difficoltà nello spiegare queste caratteristiche induce molti a escludere l’opera di un falsario. In realtà sono state proposti almeno due metodi atti a generare una simile immagine. Il primo4 prevede l’uso di un bassorilievo di metallo riscaldato. Appoggiandovi sopra un telo, questo si strina, permettendo di ottenere automaticamente un’impronta negativa, indistorta, sfumata, indelebile, non pittorica, ecc. Il secondo metodo 5 parte ancora da un bassorilievo (questa volta a temperatura ambiente) su cui si dispone un telo. Questo viene poi strofinato con un tampone e del colore in polvere, a secco, per esempio ocra rossiccia. Nel corso dei secoli l’ocra si sarebbe persa, ma tracce acide contenute nel pigmento iniziale avrebbero prodotto la debole immagine residua che ammiriamo oggi. A sostegno di questa congettura vi sono anche microparticelle di ocra ritrovate da McCrone solo nelle aree dell’immagine.
    Le analisi spettrali dello STURP indicano che l’immagine del corpo ha proprietà estremamente simili a quelle delle bruciature, ancora ben visibili, che la Sindone subì in un incendio nel 1532. Nel suo rapporto finale lo STURP considera sia l’ipotesi di una strinatura che quella di una disidratazione chimica come molto verosimili, pur ammettendo che la reale origine dell’immagine non è risolta.
    Lo STURP - molti componenti del quale erano convinti fautori dell’autenticità della reliquia - raccomandò una nuova serie di analisi.     Una sola di queste fu eseguita nel 1988: la radiodatazione col metodo del 14C.
    Ancora il cardinale Ballestrero e Gonella scelsero i tre laboratori, a livello mondiale, con maggior esperienza in questa tecnica: Tucson, Oxford e Zurigo. Coordinatore fu il professor Tite del British Museum, considerata un’istituzione prestigiosa al di sopra delle parti. Il 21 aprile 1988 furono prelevati piccoli campioni da un angolo del telo. I risultati complessivi 6 dei tre laboratori furono resi pubblici dal cardinale Ballestrero in una conferenza stampa indetta a Torino il 13 ottobre 1988.
    I test di datazione circoscrissero l’età del telo (con una fiducia del 95%) al periodo compreso fra il 1260 e il 1390. L’età accertata del Lino coincide dunque con l’età storica nota.
    Nel comunicato ufficiale, così come nella conferenza stampa, il prelato dimostrò di accettare e adeguarsi ai risultati del test:

"Penso non sia il caso di mettere in dubbio i risultati. E nemmeno è il caso di rivedere le bucce agli scienziati se il loro responso non quadra con le ragioni del cuore.".

    Chi non si rassegnò al responso di scienziati indipendenti furono i fautori ad oltranza dell’autenticità, che imbastirono varie linee di obiezioni. Alcune deliranti (congiura dei laboratori con complicità di Ballestrero), altre risibili (prelevato un rammendo invisibile anziché frammenti della Sindone). L’ipotesi più spesso ripetuta sembra ora che il prelievo fosse inquinato da sporcizia costituita di carbonio più "moderno" che avrebbe ringiovanito il telo. L’obiezione pare poco fondata. I frammenti furono ovviamente sottoposti a sperimentatissimi processi standard di pulizia, alcuni dei quali arrivano a "scorticare" le fibre di cellulosa. Radiodatazioni effettuate a vari livelli di pulizia non diedero risultati diversi tra loro. E’ stato anche calcolato che occorrerebbero 3 o 4 grammi di sudiciume moderno ogni 6 grammi di cellulosa, affinchè un telo dell’epoca di Cristo ringiovanisse di tredici secoli. Ciò vale per qualunque tipo di inquinamento si voglia mettere in conto, anche certe muffe particolari non eliminabili per lavaggio che sarebbero state osservate da poco (comunque le piante senza clorofilla non assorbono CO2 dall’aria, ma metabolizzano il materiale su cui crescono, quindi la quantità di 14C presente non può alterarsi).
    Nel 1993 compare sulla scena anche un chimico russo divenuto subito famoso, Dimitri Kouznetsov, esperto di analisi della cellulosa con metodi di elettroforesi capillare - gas massa. Costui ha scaldato campioni di tela antica in un’atmosfera controllata ed in presenza di acqua contenente ioni Ag+, simulando l’incendio subìto dalla Sindone a Chambéry nel 1532, quando il telo era contenuto in una cassa con ornamenti argentati, su cui fu versata l’acqua di spegnimento. In queste condizioni, grazie alla catalisi del metallo, della CO2 si fisserebbe sulle unità di glucosio costituenti le catene di cellulosa, apportando carbonio "recente". Un’attenta lettura del lavori 7 di Kouznetsov consiglierebbe qualche cautela prima di accettare la verosimiglianza dei suoi risultati. Nel glucosio carbossilato della cellulosa vi è solo un atomo di Carbonio nuovo su sette, e (egli stesso dice) solo il 20% del glucosio risulterebbe carbossilato. In totale un settimo del 20 per cento, ovvero circa il 2.9 per cento. Fatti i calcoli, al massimo il telo ringiovanirebbe di un secolo. Kouznetsov deve ricorrere a ipotesi ad hoc aggiuntive per far quadrare i conti secondo i suoi desideri: altera arbitrariamente la curva di taratura delle variazioni di 14C nei secoli, e inoltre suppone che nelle piante le fibre (che si isolano durante la filatura) si arricchiscano moltissimo di 14C rispetto al resto del vegetale per uno strano effetto di biofrazionamento isotopico scoperto da lui. Fatto questo, egli fa radiodatare il suo campione "ringiovanito" - anziché a Tucson o Oxford - in un acceleratore russo non noto alla comunità scientifica. Non sorprende che né gli scienziati di Tucson 8 né gli stessi sindonologi sperimentalisti siano mai riusciti a riprodurre i suoi risultati.
    Altre affermazioni meravigliose dei sindonologi (tracce di monetine romane, pollini vari, miniature raffiguranti la Sindone prima del 1357) sono, dimostrabilmente, capziose e assai poco verosimili.
    Da ora alla prossima ostensione per il Giubileo dell’anno 2000 sono da attendersi altri colpi di scena nella avvincente storia di questa contoversa reliquia. Ma forse la voce dei fautori ad oltranza sarà sempre più spesso accompagnata da quella dei critici.
 
 
 

1. Baima Bollone, Pier Luigi: Sindone o no. Torino, SEI, 1990.

2. Papini Carlo: Sindone - Una sfida alla scienza e alla fede. Claudiana. Torino, 1998.

3. Schwalbe R. A. e Rogers R. N. "Physics and Chemistry of the Shroud of Turin: A Summary of the 1978 Investigation",        Analytica Chimica Acta, 135 (1982) p. 24.

4. Pesce Delfino, Vittorio: E l'uomo creò la Sindone. Bari, Dedalo, 1982.

5. Nickell, Joe: Inquest on the Shroud of Turin. Buffalo, N.Y., Prometheus Books, 1983/1987.

6. Damon, P.E. et al.: Radiocarbon dating of the Shroud of Turin. Nature, 337, 1989, 611-15.

7. a) Kouznetsov D. et al. J. Archaeological Science, 23, 109 (1996).
    b) Kouznetsov D. et al. Archaeological Chemistry, ACS Symposium Series 625, ACS, 1966, Cap.18.

8. Damon P.E et al.: Archaeological Chemistry, ACS Symposium Series 625, ACS, 1966, Cap