Dio non spadroneggia

          Eleonora Martini

           Il manifesto del 8/3/2011

 

Il professor Antonio Autiero insegna teologia morale nella facoltà di teologia cattolica presso l'università di Münster, nella regione Nord Reno-Westfalia, in Germania, ma il testo di legge sul testamento biologico approdato ieri in aula alla Camera lo conosce bene.
Cominciamo con il punto più dolente: nutrizione e idratazione artificiale. Secondo il ddl non possono essere considerate terapie ma sostegno vitale, un'attività di cura, quindi non possono essere rifiutate o sospese. Lei cosa ne pensa?
Bisogna innanzitutto tenere in considerazione il fatto che questa discussione non riguarda soltanto gli aspetti giuridici, su cui ho paura che il parlamento stia focalizzando troppo la discussione, ma anche etici. Nel pensiero bioetico e medico ci sono molte domande aperte e diversità di vedute per qualificare inequivocabilmente l'alimentazione e l'idratazione non naturali.
La domanda è aperta, dunque, ma qual è l'orientamento prevalente?
In questa discussione aperta prevale la visione generale della persona, la visione olistica, nella quale il tema dell'alimentazione è generalmente parlando non una terapia ma la modalità con cui assicuriamo il sostegno vitale. Tuttavia qui non stiamo parlando di alimentazione in termini generali, e neppure di alimentazione sostitutiva a quella naturale in situazioni contingenti ed occasionali temporanee, dove il tema del rischio vitale non compare. Nel qual caso nessuno nega che sia un sostegno vitale che non può essere sospeso. Il problema serio si pone quando la questione nutrizione artificiale si colloca nella fase finale della vita, allora cambia anche la qualità di attribuzione che questo gesto può avere. In sostanza, nella discussione bioetica questa differenza si fa non a partire dal gesto che compiamo ma dal contesto nel quale questo gesto viene compiuto. In alcuni casi, poi, non è così chiara la soglia di distinzione tra somministrazione con finalità di supporto alla vita e una che invece ha bisogno di una serie di componenti di carattere farmacologico.
Per i cattolici la propria vita, oltre che quella altrui, è un bene indisponibile e l'intero testo di legge ruota attorno a questo dogma tentando di evitare che ceda il passo al principio di autodeterminazione. Dal punto di vista di un teologo cattolico, come va interpretata l'"indisponibilità" della vita? Vuol dire che non si può scegliere come e quando morire?
Questa indisponibilità si fonda su una visione religiosa della vita, e in particolare sull'ottica cattolica, che è diversa da altre visioni religiose della vita. Anche nel discorso teologico, che è quello che riflette sulla matrice religiosa del pensiero, c'è uno spazio per poter avere un approccio differente a questo tema dell'indisponibilità. Se si considera la vita come un dono di Dio, non bisogna dimenticare che il Dio cristiano non è un arrogante padrone che spadroneggia sulla vita e sul diritto di disporne. Da un punto di vista teologico questo approccio al tema mi preoccupa molto, perché finisce per diventare un pensiero non più sanamente religioso. Noi abbiamo ridotto in maniera troppo rozza questa idea di padronanza sulla vita ad un'idea di signoria di Dio sulla vita. Dio non è il padrone della vita ma è uno che signorilmente ne fa dono, e mette nella mente, nelle mani, nella volontà e nella responsabilità di ciascuno la capacità di farne qualcosa di dignitoso. Allora il discorso dall'indisponibilità si sposta su cosa ne facciamo della vita donata e in che modo abbiamo coltivato questo bene vivendo dignitosamente questa vita, sulla cura della dignità e della preziosità del dono che ci è stato affidato.
Un altro punto importante toccato ieri nel dibattito alla Camera è la possibilità di rifiutare le cure solo "qui e ora" ma non "ora per allora", secondo i sostenitori del testo Calabrò, cioè non posso prevedere oggi cosa potrei scegliere in una determinata condizione domani. Per questo motivo, nel ddl le Dat (dichiarazioni anticipate di trattamento) non sono vincolanti.
Trovo questo tipo di argomentazioni molto fragile, a partire dal fatto che noi in tutta la nostra esistenza facciamo delle scelte oggi che hanno effetto domani. Solo in questo caso, e tutto in una volta, dovrebbe quindi vale l'"hic et nunc" soltanto. Se nella vita dovessimo vivere solo di assunzioni di responsabilità "qui ed ora" non ci dovrebbe essere un discorso di programmazione sul futuro. Trovo dunque che questo ribaltamento delle logiche temporali sia un'argomentazione fragile, direi perfino faziosa, perché sta smentendo tutta quella forma di educazione al senso della nostra soggettualità, mentre il soggetto veramente responsabile è quello che sa prevedere di più e può prendere impegni seri "ora per allora". Inoltre questa visione esprime una sorta di sfiduciamento dell'essere umano, della sua capacità proiettiva e di essere responsabile per sé e per i suoi. Mi preoccupa anche un po' questa sorta di "pessimismo antropologico" perché porterebbe a una sorta di farraginosità di tutto quello che facciamo, per esempio nei processi educativi, nella tutela dell'ecosistema, ecc. Invece questo appiattimento indecoroso sul presente mette a repentaglio quella che è la grande sfida della modernità.
Il comma 6 dell'articolo 3 (il testo integrale del ddl sul testamento biologico così come è stato emendato dalla commissione Affari sociali della Camera è pubblicato interamente sul sito del manifesto.it) dice che le dat assumono «rilievo nel momento in cui è accerto che il soggetto si trovi nell'incapacità permanente di comprendere le informazioni circa il trattamento sanitario e le sue conseguenze e, per questo motivo, di assumere le decisioni che lo riguardano». Viene cioè allargata la platea non solo a chi si trova in stato vegetativo persistente. Cosa ne pensa?
Prendiamo atto però di un aspetto positivo: che nel testo si riconosce che una persona è soggetto di assunzioni di decisioni che lo riguardano. Questa è una cosa importante, perché vuol dire che il testo sottolinea la soggettualità della persona che è il contrario di quella tendenza al paternalismo medico che porterebbe nel circuito di competenza del medico di assumere la decisione finale. La contraddizione però avviene a due livelli: la rilevanza giuridica di questa assunzione di responsabilità perché si dice che le Dat devono assumere un valore di orientamento ma non di vincolo per il medico. La seconda disarticolazione dell'impianto teorico di un tale dettato di legge è cosa ne facciamo di situazioni in cui si è davanti a stati deboli di presenza a se stessi? E' questo che ci porta a valorizzare molto di più delle figure che in altri parlamenti europei sono stati massimamente valorizzati, come quella del tutore o dell'accompagnatore. Non è un atto contro il medico, non si tratta di un disegno sovversivo che smantella la dignità della classe medica, tutt'altro: significa includere persone e promuovere fiducialità di relazioni antropologicamente importanti