L’ADDIO A SAMUEL RUIZ, IMPRESCINDIBILE PADRE DEGLI INDIOS

ADISTA N° 5 DEL 5/2/2011

35966.CITTÀ DEL MESSICO-ADISTA. Con lui se ne è andato uno degli ultimi grandi profeti della Chiesa della liberazione: Samuel Ruiz García, Tatic Samuel, padre degli indios, si è spento il 24 gennaio, all’età di 86 anni, in un ospedale di Città del Messico (soffriva da alcuni anni di diabete e di problemi cardiaci), assistito dal suo  “fratello di lotta” Raúl Vera López. Il «penultimo profeta» lo chiama José Manuel Vidal su Religión Digital (25/1), con esplicito riferimento a dom Pedro Casaldáliga e ai pochi altri che ancora rimangono. Un uomo «imprescindibile» lo avrebbe definito Bertold Brecht, uno di quelli, cioè, che «lottano tutta la vita».

 

Padre della Chiesa latinoamericana

Nato a Irapuato, nello Stato del Guanajuato, nel 1924, Samuel Ruiz giunse in Chiapas, nel Sudest messicano, nel 1959, chiamato a ricoprire la carica di vescovo della diocesi di San Cristóbal, il più giovane del suo Paese. Vi sarebbe rimasto quarant’anni. La realtà poverissima della Regione, in cui gli indigeni vivevano in condizioni di schiavitù, lo colpì come uno schiaffo. Era andato a evangelizzare, don Samuel, ma, secondo le sue stesse parole, fu lui ad essere evangelizzato: come evidenzia Francisco Gómez Maza, fondatore del settimanale Proceso, «gli indios gli rivelarono un mondo nuovo, una terra nuova, una visione del mondo totalmente diversa da quella della civiltà occidentale-giudaicocristiana» (Análisis a fondo, 25/1). Ed egli ricambiò realizzando «un’opera titanica»: «Introdurre la Chiesa gerarchica nelle culture indigene. Leggere il Vangelo nella pelle morena di tsotsiles, tseltales, ch’oles, toj’olabales, catchiqueles, lacandones». Prese così avvio un’esperienza pastorale nella linea della liberazione che lo rese popolare in tutto il mondo, attirandogli, come è avvenuto per tutti i grandi profeti, molto amore e molto odio: un processo di costruzione di una Chiesa autoctona, liberatrice, evangelizzatrice, animata da uno spirito di servizio, in comunione e sotto la guida dello Spirito”. Sono, questi, i sei tratti distintivi della Chiesa chapaneca fissati dal Terzo Sinodo Diocesano, convocato da Ruiz nel 1995 e conclusosi nel 1999, sullo sfondo delle grandi opzioni pastorali della diocesi: la creazione, nello spirito della collegialità conciliare, di strutture di comunione più vicine allo spirito evangelico; l’accompagnamento pastorale integrale al popolo di Dio nella concretezza della sua realtà terrena; la ricerca del dialogo e della riconciliazione come unico cammino per risolvere i conflitti. E, naturalmente, l’opzione per i poveri, quell’opzione che il Concilio, alle cui sessioni Ruiz aveva preso parte, non aveva saputo cogliere, malgrado la sollecitazione di Giovanni XXIII e gli sforzi del card. Lercaro. Ma che era stata, al contrario, energicamente raccolta dalla Conferenza di Medellín, vero atto di nascita della Chiesa della liberazione dell’America Latina, in cui Ruiz era stato presente insieme a molti altri “Padri della Chiesa” latinoamericani, come li ha definiti la rivista Concilium (5/09), accostandoli ai “Padri della Chiesa” orientali e occidentali del IV e V secolo. 

 

L’accanimento del Vaticano

Nel 1994, quando prese il via l’insurrezione dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (Ezln), il vescovo venne accusato di essere il responsabile della rivolta - in linea con il pregiudizio razzista che riconduce sempre ogni iniziativa india a un qualche attore non indigeno - e minacciato dal governo di arresto per sedizione. Ma don Samuel non si lasciò intimidire. E, dal 1994 al 1998, esercitò il ruolo di mediatore nel conflitto tra Ezln e governo federale, attraverso la Commissione Nazionale di Intermediazione (Conai), prendendo parte alla firma, il 16 febbraio del 1995, degli “Acuerdos de San Andrés”, poi completamente disattesi dal governo. Malgrado il suo impegno a favore della pace, l’allora presidente Zedillo, nel 1998, lo accusò di promuovere una «pastorale della divisione» e una «teologia della violenza».

La gerarchia ecclesiastica non fu da meno. Il card. Juan Sandoval Íñiguez, per esempio, individuò una delle cause della ribellione armata in Chiapas proprio nella divisione creata dalla strategia pastorale di don Samuel, dominata da un «tipo di teologia della liberazione ispirata al marxismo» (Milenio, 25/1). Invano Girolamo Prigione, nunzio apostolico in Messico dal 1978 al 1997, si adoperò per farlo cacciare: il protagonista di tante crociate contro la Teologia della Liberazione e la Chiesa più fedele allo spirito del Concilio e di Medellín non ha potuto vantare tra i suoi trofei - fra i quali spicca in particolare l’opera di distruzione del lavoro pastorale di mons. Sergio Méndez Arceo a Cuernavaca - la rimozione del vescovo degli indios dalla diocesi di San Cristóbal per «gravi errori dottrinali, pastorali e di governo». Tuttavia, allo scopo di frenare il processo diocesano, viene inviato nel 1995 a San Cristóbal il domenicano mons. Raúl Vera Lopez, come coadiutore con diritto di successione, destinato, quindi, secondo il diritto canonico, a sostituire mons. Ruiz. Ma il Vaticano non poteva prevedere che il contatto con le comunità indigene e con il lavoro svolto nella diocesi avrebbero trasformato don Raúl nel più fedele alleato del vescovo di cui avrebbe dovuto correggere le presunte deviazioni. E così, a “conversione” consumata, Roma corre ai ripari, trasferendo mons. Vera Lopez direttamente all’altro capo del Paese, a Saltillo, ai confini con gli Stati Uniti. A succedere a don Samuel - che, per non fare ombra al suo successore, preferisce lasciare il Chiapas e trasferirsi a Querétaro, nel Messico centrale - viene infine chiamato un altro vescovo del Chiapas, mons. Felipe Arizmendi, già vescovo di Tapachula, moderatamente conservatore, ma non abbastanza da non comprendere, poco per volta, la necessità di dare continuità al lavoro svolto, per esempio tentando, invano, di ottenere da Roma il permesso di riprendere l’ordinazione di diaconi indigeni, la cui sospensione, disposta nel 2002, doveva essere funzionale all’opera di smantellamento del processo di Chiesa autoctona promosso da don Samuel. Un processo oggi minacciato dalla presentazione, proprio da parte di Arizmendi, di un progetto di divisione della diocesi di San Cristóbal che sottrarrebbe ad essa quasi la metà del suo territorio, in funzione della creazione di una nuova diocesi ad Ocosingo. 

 

L’ultimo viaggio

Lo stesso Arizmendi, in una sua riflessione dal titolo “L’eredità di Samuel Ruiz”, elenca peraltro alcuni degli aspetti dell’opera di Ruiz «che non devono andare perduti, per le loro radici evangeliche», malgrado alcuni di essi appaiano “delicati”, per la difficoltà «tanto di intenderli secondo il Vangelo quanto di applicarli in comunione ecclesiale»: la promozione integrale degli indigeni, l’opzione per i poveri e la liberazione degli oppressi, la libertà di denunciare le ingiustizie di fronte a qualunque potere arbitrario, la difesa dei diritti umani, l’inculturazione della Chiesa, in direzione della creazione di «Chiese autoctone, incarnate nelle differenti culture, indigene e meticce», la promozione della dignità della donna e della sua corresponsabilità nella Chiesa e nella società, la teologia india come «ricerca della presenza di Dio nelle culture originarie», il diaconato permanente.

Ma quanto poco tale eredità venga apprezzata dalla gerarchia non ha mancato di farlo notare, persino all’indomani della scomparsa del vescovo, il vicedirettore di Radio y Televisión dell’arcidiocesi di Città del Messico, José de Jesús Aguilar, il quale, intervistato da Formato 21, ha ricordato Samuel Ruiz come «una figura controversa» che «si lasciò condurre dal principio della Teologia della Liberazione», per quanto «lo andò adattando a tutti gli insegnamenti del magistero ecclesiale»; un vescovo «ammirato da gente che non appartiene alla Chiesa cattolica, proprio per questo rischio di vivere la fede cattolica in altra maniera».

A rendere al vescovo il «migliore omaggio», come ha evidenziato La Jornada (26/1), sono stati però quelli che più contavano per don Samuel, gli indigeni del Chiapas (dove il corpo è stato trasportato), giunti da ogni angolo dello Stato per sfilare di fronte al feretro del loro Tatic, nella cattedrale di San Cristóbal. Ripercorrendo a ritroso, così, la strada battuta in quarant’anni, a piedi o a cavallo, da El Caminante – come si identificava don Samuel – in visita alle più sperdute comunità indigene della regione. Ora, ha scritto dom Pedro Casaldáliga in un suo messaggio, «el caminante vescovo del Chiapas è giunto al Grande Villaggio, nella Pace, e da lì continuerà ad essere, ora con piena libertà, vero profeta nella società e nella Chiesa, in mezzo ai popoli della nostra Amerindia. (…).  Con San Bartolomé de las Casas, con Taita Leonidas Proaño e con Tatic Samuel Ruiz, tutti noi andremo avanti nelle lotte nelle speranze del Vangelo del Regno». (claudia fanti)