Il tramonto di un modello di civiltà: o si cambia o si muore

 

DOC-2421. CARACAS-ADISTA. Che il mondo versi in gravi condizioni di salute non è di certo un mistero per nessuno. Ma a leggere il quadro che dell’attuale situazione traccia il noto sociologo venezuelano Edgardo Lander, già in passato autore di alcune delle più lucide analisi sullo stato del pianeta e in particolare sulla crisi terminale del modello di civiltà dominante (v. Adista nn. 20/09 e 15/10), si resta ugualmente impressionati. Perché qualunque punto di vista si assuma – quello ambientale prima di tutto, considerando l’entità della minaccia legata al riscaldamento climatico, ma anche quello della crescente disuguaglianza sociale, quello dei ripetuti e sempre più gravi attentati alla democrazia, quello di uno stato di guerra divenuto permanente – non si può che prendere atto di una semplice, lampante verità: solo una profonda, radicale ed urgente trasformazione del modello di civiltà renderà possibile la continuità della vita umana sulla Terra. Ne sono ben consapevoli i movimenti popolari di ogni parte del mondo, i quali, scrive Lander, «di fronte a questa straordinaria combinazione di minacce non solo alla democrazia, alla pace e alla dignità umana, ma alla vita stessa», hanno dato vita nel 2011 a straordinarie mobilitazioni in tutto il pianeta, «espressione della resistenza e della lotta per un altro mondo possibile». Ma anche su questo versante, come mostra il sociologo venezuelano, non mancano di certo le sfide.

 

Di seguito, in una nostra traduzione dallo spagnolo, alcuni stralci del lungo e illuminante articolo di Lander, che può essere letto integralmente in lingua originale sul sito dell’agenzia Alai-América Latina en Movimiento (http://alainet.org/active/52296). (claudia fanti)

 

UN NUOVO PERIODO STORICO?


 
di Edgardo Lander

 

Edgardo Lander sociologo venezuelano: Professore della Università Centrale del Venezuela. Insegnante-ricercatore del Dipartimento di Studi latino-americani presso la Scuola di Sociologia. Professore di Dottorato in Scienze Sociali della Facoltà di Scienze Economiche e Sociali. Membro del Consiglio della Editoriael Revista Venezolana di Economia e Scienze Sociali, dell'Università Centrale del Venezuela. Professore del Programma di Dottorato in andina Cultural Studies alla Universidad Andina Simón Bolívar di Quito.

 

ADISTA n° 10 del 17.3.2012

 

CRISI DEL MODELLO EGEMONICO DI CIVILTÀ

 

Siamo in presenza della crisi terminale di un modello antropocentrico di civiltà, monoculturale e patriarcale, di crescita senza fine e di guerra sistematica alle condizioni che rendono possibile la vita sul pianeta Terra. (…). Il capitalismo richiede, come condizione di riproduzione dei suoi modelli di accumulazione, una crescita economica permanente, la qual cosa, ovviamente, non è possibile in un pianeta finito. (…). Oggi, la questione che affrontiamo non è se il capitalismo potrà o meno sopravvivere a questa crisi terminale. Se in poco tempo non riusciremo a porre freno a questo apparato di distruzione sistematica, la questione sarà se l’umanità potrà o meno sopravvivere al collasso finale del capitalismo.

 

LA CRISI AMBIENTALE E I LIMITI DEL PIANETA

 

Non c’è alcun dubbio che si stiano producendo alterazioni profonde nei sistemi climatici e nelle condizioni che rendono possibile la vita sul pianeta Terra. Ciò ha a che fare non solo con il cambiamento climatico, ma con altre questioni ugualmente critiche come le perdita della diversità biologica e di suoli fertili, la deforestazione, la contaminazione dell’acqua, ecc. (...), L’impatto di tali severe trasformazioni è parte dell’esperienza quotidiana di centinaia di milioni di persone: siccità, inondazioni, riduzione della disponibilità idrica, diminuzione della diversità genetica, caldo estremo, perdita massiccia di raccolti, ecc. Al di à degli argomenti corporativi di quanti hanno interessi diretti nella produzione e nel consumo di combustibili fossili (...), è praticamente unanime il consenso della comunità scientifica internazionale sul fatto che l’aumento della temperatura del pianeta sia la conseguenza di un incremento nell’emissione di gas a effetto serra di origine principalmente antropogenica. Senza un freno a brevissimo termine a questa logica espansiva di assalto alla natura, la vita umana si vedrà severamente minacciata.

 

I negoziati internazionali diretti a definire impegni di riduzione di questo impatto sui sistemi di vita del pianeta si sono risolti finora in uno clamoroso fallimento, come si è nuovamente constatato nella COP 17 di Durban del dicembre 2011 (…).

 

In questo contesto, l’Economia Verde, sponsorizzata dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (PNUMA), non fa che ripetere le fantasiose promesse riguardo al fatto che, mediante meccanismi di mercato e soluzioni tecnologiche, senza alterare le relazioni di potere né la logica di accumulazione del capitale e neppure le profonde disuguaglianze attuali, sarebbe possibile un mondo sostenibile dal punto di vista ambientale, con crescita economica più accelerata, con lavoro e benessere per tutti.

 

Nel frattempo, dopo 20 anni di negoziati a partire dal Vertice della Terra di Rio de Janeiro del 1992, e malgrado le principali economie stiano attraversando una severa crisi economica che limita tanto la produzione quanto il consumo, il Dipartimento di Energia degli Stati Uniti ha calcolato che nel 2010 sono stati emessi nell’atmosfera 564 milioni di tonnellate di gas a effetto serra più dell’anno precedente. Questo incremento del 6% in un solo anno è il maggiore di cui si abbia notizia. (…).

 

PROFONDA E CRESCENTE DISUGUAGLIANZA

 

Se è la totalità dei sistemi di vita del pianeta ad essere minacciata, nell’immediato presente e a breve termine l’impatto è straordinariamente diseguale. Esiste una relazione inversa tra i Paesi, le regioni e i popoli del pianeta che hanno avuto storicamente (e continuano ad avere) la maggiore responsabilità nelle dinamiche predatorie (compresa l’accumulazione dei gas ad effetto serra nell’atmosfera), e le regioni e le popolazioni più colpite. I maggiori responsabili, i Paesi industrializzati del Nord, non solo si trovano in regioni temperate in cui l’impatto del cambiamento climatico è stato più moderato, ma contano anche su maggiori risorse finanziarie e capacità tecnologiche per far fronte alla situazione. Ciò sembra contribuire alla scarsa urgenza che si attribuisce a tali questioni, specialmente negli Usa.

 

All’altro estremo si pone la vita delle popolazioni delle isole  del Pacifico Sud (minacciate dalla sparizione con l’innalzamento del livello del mare), degli abitanti della regione sub-sahariana(dove l’aumento della temperatura è di molto superiore alla media globale e si sono registrate prolungate siccità che impediscono le coltivazioni e uccidono bestiame) e di quelli dei grandi delta, come nel Bangladesh (dove si stanno verificando processi di salinizzazione e di inondazioni delle terre coltivabili). Queste regioni del pianeta, le loro popolazioni, i loro Stati, nella loro limitata responsabilità storica o presente sulle trasformazioni climatiche, non solo affrontano processi di distruzione delle proprie possibilità di vita, ma mancano anche delle risorse finanziarie e tecnologiche necessarie. Neppure la migrazione appare come possibile opzione, dal momento che le politiche razziste di militarizzazione delle frontiere e di costruzione dei muri per tenere fuori le popolazioni indesiderabili limitano severamente tale possibilità. Al posto della solidarietà umana, ci troviamo di fronte a tentativi di costruzione di un apartheid globale.

 

L’attuale disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza non ha precedenti nella storia dell’umanità. (…). Due esempi sono sufficienti per illuminare gli estremi livelli di disuguaglianza che caratterizzano il mondo attuale.

 

Il gruppo finanziario Credit Suisse ha dato vita a una pubblicazione annuale in cui analizza la distribuzione della ricchezza della popolazione adulta di tutto il pianeta. Secondo i suoi calcoli, la metà più povera della popolazione adulta globale è proprietaria solo dell’1% della ricchezza globale. Un totale di 3.051 milioni di adulti, pari al 67,6% della popolazione adulta globale, possiede appena il 3,3% della ricchezza. Al contrario, il 10% più ricco dispone dell’84% della ricchezza globale, l’1% più ricco possiede il 44% e lo 0,5% più ricco il 38,5%.

 

La crisi economica degli ultimi anni, lungi dal frenare queste tendenze alla concentrazione di elevate proporzioni della ricchezza nelle mani di una piccola minoranza, le ha accentuate. Le imprese Capgemini e Merrill Lynch Wealth Management pubblicano tutti gli anni un rapporto sulla situazione dei ricchi del mondo. Secondo il rapporto del 2010, il numero totale di individui con redditi elevati nel mondo è cresciuto di un 17.1% nel 2009, malgrado vi sia stata una contrazione globale dell’economia di un 2%. La ricchezza totale di questi individui si è incrementata del 18.9% (…).

 

I Paesi socialisti hanno presentato per decenni le strutture di distribuzione del reddito più eque del pianeta. Tuttavia, con il collasso del blocco sovietico e le riforme del mercato in Cina e in Vietnam, in questi Paesi si sono prodotti accelerati processi di concentrazione della ricchezza. Secondo alcune versioni, oggi la Russia ha più miliardari di qualsiasi altro Paese del mondo. In Cina, la sostenuta crescita economica degli ultimi tre decenni ha tolto centinaia di milioni di persone dalla condizione di povertà. Tuttavia, ciò si è prodotto al costo di un drastico incremento della disuguaglianza. Le cifre disponibili segnalano che oggi la Cina è un Paese più diseguale degli Stati Uniti. 

 

Le cifre dell’Onu sulla mortalità della popolazione del pianeta ci permettono di avere uno sguardo più preciso sulle implicazioni di tali disuguaglianze. Mentre l’aspettativa di vita alla nascita nei Paesi cosiddetti sviluppati era nel 2011 di 78 anni, la cifra corrispondente per l’Africa Sub-Sahariana era di soli 55 anni.

 

I MOLTEPLICI ASSALTI ALLA DEMOCRAZIA

 

Queste profonde disuguaglianze non sono compatibili con la democrazia. (…). Nella grande maggioranza dei Paesi, le istituzioni statali operano più come strumenti dei padroni del denaro che come rappresentanti degli interessi dei cittadini. La controrivoluzione del capitale, il progetto neoconservatore/neoliberista che prende avvio tra altre cose con la Commissione Trilaterale e i governi di Thatcher e Reagan negli anni ’70, ha avuto uno straordinario successo, realizzando pienamente i suoi obiettivi principali: l’inversione delle logiche democratiche tanto nelle società liberali come nel resto del mondo, una straordinaria concentrazione della ricchezza, la distruzione della socialdemocrazia come alternativa al neoliberismo. In questo senso si racconta che Margaret Thatcher, anni dopo aver lasciato il suo incarico di primo ministro, alla domanda su quale ritenesse che fosse il suo successo più importante, avrebbe risposto, con la sua caratteristica precisione demolitrice: Tony Blair.

 

Ogni alternativa all’attuale crisi di civiltà (…) che non incorpori come dimensione essenziale la lotta contro questa oscena disuguaglianza, è destinata necessariamente all’insuccesso. In primo luogo, perché solo con una radicale ridistribuzione, con un trasferimento straordinariamente massiccio di risorse e di accesso ai beni comuni di cui si sono appropriati i più ricchi al resto della popolazione, sarebbe possibile ottenere tanto una riduzione della pressione umana oggi insostenibile sui sistemi ecologici quanto la garanzia di condizioni degne di vita per la popolazione. In secondo luogo, perché nessuna trasformazione significativa della logica predatoria sarà possibile finché una piccola minoranza, precisamente quella che più trae beneficio dalle attuali condizioni, presenti una così monumentale concentrazione della ricchezza globale e della capacità di incidere sulle decisioni politiche e sugli investimenti.

 

La relazione tra la concentrazione della ricchezza e la devastazione degli ecosistemi planetari è stata attentamente analizzata dall’International Forum on Globalization nel suo rapporto Outing the Oligarchy. Billionaires who benefit from today’s climate crisis, in cui si esamina la condizione di un gruppo di uomini e donne tra i più ricchi del mondo che, oltre a possedere miliardi di dollari, realizzano massici investimenti in attività relazionate ai combustibili fossili e presentano, ugualmente, una straordinaria capacità di esercitare influenza sulle politiche pubbliche. E la conclusione è che questi multimiliardari (di Stati Uniti, Europa, Russia, India, Cina, Brasile, Messico, ecc.) sono tanto coloro che più vantaggio traggono dalle attuali politiche relative ai combustibili fossili quanto quelli che hanno maggiori responsabilità negli investimenti e nelle politiche che stanno distruggendo i sistemi di vita del pianeta. Oggi la principale minaccia ai beni comuni climatici globali viene da questo gruppo di miliardari che (…) esercita pressioni sui governi in materia di idrocarburi. (…).

 

I sistemi politici delle democrazie liberali, i loro Stati, i loro partiti politici stanno diventando passo dopo passo strumenti nelle mani del capitale finanziario per imporne la volontà anziché per servire la volontà democratica dei cittadini. Con ciò si sta producendo quello che Slavoj Zizek ha denominato la fine del matrimonio tra il capitalismo e la democrazia.

 

Le agenzie di rating, in particolare le tre più importanti, Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch, che non sono state designate per questa funzione da nessuna autorità pubblica o democratica, si sono trasformate in giudici della situazione economica e delle politiche pubbliche di ogni Paese. Queste agenzie si sono assunte non solo il compito di valutare se le politiche pubbliche corrispondano o meno agli interessi del mercato, se contribuiscano o meno a generare fiducia nei mercati, ma anche quello di formulare direttamente le politiche pubbliche, ponendo richieste specifiche sulle decisioni che i governi devono adottare e minacciando di declassare i Paesi che non eseguano ciò che viene loro richiesto. Valutazioni negative da parte di queste agenzie producono solitamente incrementi nei tassi di interesse che il Paese in questione deve pagare per ottenere nuovi crediti, il che può rappresentare costi aggiuntivi di centinaia di milioni di dollari, che si trasformano immediatamente in un aumento dei profitti del sistema finanziario privato. (…).

 

Una delle ragioni principali della gravità dell’attuale crisi capitalista risiede nella perdita della capacità regolatrice del sistema. La globalizzazione neoliberista ha creato nuove condizioni in cui i capitali possono spostarsi liberamente senza alcun ostacolo. (…). Il successo della tanto anelata utopia del mercato totale si va trasformando in incubo nella misura in cui non si può più contare su strumenti che moderino gli inevitabili eccessi e in cui gli interessi a breve termine del capitale speculativo prevalgono su ogni nozione di interesse generale relativo alla stabilità del sistema. Una volta che il genio è stato liberato, difficilmente potrà essere rimesso dentro la lampada. (…).

 

In questi anni di crisi, l’Unione Europea ha mostrato la vera natura del suo patto costituzionale. (…). Si tratta di un regime politico sempre meno democratico, in cui le decisioni di grande portata sfuggono sempre vippiù ai cittadini. Con la costituzionalizzazione del neoliberismo, diventano un ricordo i sogni di un’Europa democratica ed egualitaria e si avanza in direzione di un crescente autoritarismo che concentra il potere nella Banca Europea (autonoma), nella Commissione Europea e nel governo tedesco. In tutto ciò, tanto i Parlamenti nazionali quanto il Parlamento europeo vengono messi da parte. Paesi in profonda recessione, con elevati indici di disoccupazione, sono obbligati ad adottare misure di austerità: licenziamento di impiegati pubblici, aumento dell’età pensionabile, riduzione delle spese sociali, privatizzazione di imprese pubbliche e flessibilizzazione del mercato del lavoro. (…).

 

Negli Stati Uniti, dove il potere del denaro ha operato storicamente in una forma molto più essenziale che nei Paesi europei, la Corte Suprema ha adottato una decisione che accresce straordinariamente il potere delle multinazionali su tutto il sistema politico. A partire dall’insolito presupposto che le imprese hanno gli stessi diritti delle persone, tale Corte (…) ha stabilito che il fatto di porre limiti alla spesa delle imprese e dei sindacati nei processi elettorali costituisce una violazione costituzionale della loro libertà di espressione, come stabilito nel Primo Emendamento. Considerando gli straordinariamente elevati costi delle campagne elettorali negli Stati Uniti, tale decisione incrementa ancor di più il potere delle lobby di imporre decisioni legislative ed esecutive che favoriscano i loro interessi. (…).

 

Un’altra minaccia ugualmente grave alla democrazia in tutto il mondo viene dalle molteplici espressioni che acquistano attualmente le politiche di sicurezza nazionale. (…). Un salto qualitativo in questa direzione si è registrato a partire dall’attacco terrorista alle Torri Gemelle nel 2001. Uno stato permanente di paura è stato sistematicamente alimentato dai mezzi di comunicazione e dall’industria dell’intrattenimento: paura per il terrorismo, per le droghe, per l’insicurezza personale, per i migranti, per le minacce rappresentate dai nuovi poteri globali. (…). Il Patriot Act, approvato con maggioranza schiacciante dalle due camere del Congresso Usa, ha rappresentato un assalto radicale ai diritti civili e politici che si presume siano garantiti dalla democrazia liberale. (…). Tale legge ha fornito copertura legale alla creazione della figura giuridica dei combattenti illegali, a violazioni delle Convenzioni di Ginevra relative alla guerra, alle torture sistematiche nella prigione di Abu Ghraib in Iraq e alla creazione del campo de detenzione – e torture – di Guantánamo.

 

Ugualmente serie sono state le conseguenze sui diritti civili e politici all’interno degli Stati Uniti, e non solo durante i governi repubblicani. Secondo un’indagine durata due anni realizzata dal Washington Post, dopo l’attacco alle Torri Gemelle è stato creato nel Paese un apparato segreto di sicurezza di proporzioni così enormi che nessuno sa quanto costa, quanti programmi prevede e quante persone sono coinvolte. (….).

 

Nel dicembre del 2011, come parte della legge sul bilancio della Difesa Usa per il 2012, il Congresso ha autorizzato le forze armate ad assumere indagini e interrogatori sul terrorismo nazionale, permettendo la detenzione di qualunque persona che il governo consideri terrorista - compresi cittadini Usa - per un tempo indefinito, senza diritto a un processo. Malgrado l’opposizione di molti settori, che hanno definito tale norma come un passo in direzione di uno Stato di polizia, il presidente Obama ha firmato la legge, su cui pure aveva assicurando di nutrire serie riserve. (…).

 

RIASSESTAMENTI GLOBALI E CRISI DEL POTERE IMPERIALE UNILATERALE DEGLI STATI UNITI

 

I gruppi di governo degli Stati Uniti, dopo il collasso dell’Unione Sovietica, avevano proclamato il XX secolo come il Secolo Americano, durante il quale il Paese avrebbe potuto esercitare un dominio di ampio raggio sulla totalità del pianeta (…). Questa illusione imperiale, tuttavia, è risultata di breve durata. (…).

 

La differenza tra l’accelerato tasso di crescita delle cosiddette economie emergenti e il letargo dei Paesi industrializzati è tale da determinare un permanente riassestamento rispetto al peso relativo dei diversi gruppi di Paesi nell’economia globale. Particolarmente rapido è stato l’avvento della Cina come serio rivale degli Stati Uniti sul terreno economico. Dopo 30 anni di tassi di crescita media intorno al 10%, alla fine del primo decennio del XXI secolo la Cina ha superato il Giappone come seconda economia del pianeta e la Germania come primo Paese esportatore (…).

 

Un’altra espressione di questi assestamenti globali viene dal fatto che, secondo il Center for Economic and Business Research di Londra, nel 2011 il Brasile ha superato il Regno Unito diventando la sesta economia del mondo. (…). Allo stesso modo si prevede che entro il 2020 l’economia russa passerà dal nono al quarto posto e l’India dal decimo al quinto.

 

Alcuni anni fa Goldman Sachs ha battezzato il gruppo di grandi Paesi emergenti con il tasso di crescita più accelerato con il nome di BRIC (Brasile, Russia, India e Cina). (…). Nell’analisi realizzata per valutare l’impatto della crisi negli anni 2007-2008, Goldman Sachs conclude che tale gruppo di Paesi è uscito dalla crisi in condizioni migliori rispetto al mondo sviluppato. Di conseguenza, ritiene che l’economia cinese supererà probabilmente quella Usa nel 2027, e che, per il 2032, l’economia del BRIC sarà più forte di quella dell’insieme dei principali Paesi sviluppati, il G-7 (Stati Uniti, Giappone, Germania, Regno Unito, Francia, Italia e Canada). (…). La Cina avrà per il 2020 una media maggiore di quella del G-7.

 

Un’altra espressione della progressiva perdita dell’egemonia Usa nel sistema mondo viene dai lenti ma significativi passi in direzione di un ridimensionamento del ruolo del dollaro come valuta di riserva internazionale. (…). Alla fine del 2010, il presidente russo Vladimir Putin e il primo ministro cinese Wen Jiabao hanno annunciato che avrebbero sostituito il dollaro Usa nei loro scambi bilaterali con il yuan e il rublo. (…).

 

L’EGEMONIA MILITARE DEGLI STATI UNITI E LO STATO DI GUERRA PERMANENTE

 

Il terreno militare è l’ambito in cui gli Stati Uniti conservano una piena egemonia (…). Come espressione della continuità delle loro ambizioni imperiali unilaterali, gli Stati Uniti possiedono circa mille basi militari al di fuori delle proprie frontiere, pari al 95% delle basi militari estere nel mondo. (…). 

 

Secondo uno dei centri di studio più affidabili in materia di spese militari, l’Istituto Internazionale di Indagine sulla Pace di Stoccolma, gli Stati Uniti sono stati nel 2010 responsabili del 43% della spesa militare totale del pianeta (…).

 

Secondo un esaustivo studio realizzato dal Watson Institute for International Studies dell’Università di Brown, il costo totale delle guerre degli Stati Uniti negli ultimi 10 anni giunge a un totale tra i 3,2 e i 4 miliardi di dollari. (…).

 

Affinché tale stato di sanguinosa e costosa guerra permanente sia politicamente sostenibile nel tempo, si sono rese necessarie trasformazioni fondamentali nelle modalità di conduzione della guerra. (…). A cominciare dall’eliminazione del servizio militare e dalla sua sostituzione con meccanismi di arruolamento volontario basati su incentivi economici (…), in conseguenza della quale diventano quasi esclusivamente i settori più poveri della popolazione, con minore impatto sull’opinione pubblica, a costituire la carne di cannone delle guerre degli Stati Uniti.

 

Un’altra modalità di riduzione dell’arruolamento viene dalla sub-contrattazione o privatizzazione della guerra. Nel 2011, il numero dei mercenari ha superato quello totale dei militari attivi in Iraq e in Afghanistan. Con la privatizzazione della guerra, si amplia l’ambito di competenza del complesso militar-industriale e dei settori che dipendono dalla continuità e diffusione delle guerre.

 

Ugualmente significative sono le implicazioni delle trasformazioni tecnologiche dell’arte della guerra. Le nuove armi di alta tecnologia costate migliaia di milioni di dollari hanno permesso ad alcuni Paesi, ma principalmente agli Stati Uniti, di ridurre la partecipazione umana diretta nel campo di battaglia, sostituita da nuovi armamenti che, oltre al loro accresciuto potere letale, permettono operazioni a distanza che non mettono in pericolo i soldati statunitensi. (…).

 

In queste condizioni (…), è possibile naturalizzare uno stato di guerra infinita contro tutti i nemici immaginabili (…). A differenza di epoche storiche anteriori, la guerra non avviene più come una successione di eventi discontinui che iniziano e terminano, ma come uno stato permanente, in modo aperto o nascosto, su molti fronti in forma simultanea: Iraq, Afghanistan, Libia, Sudan, Somalia, Iran...

 

In vista delle crescenti limitazioni finanziarie e degli attuali riassestamenti egemonici, il governo Obama ha annunciato una nuova strategia militare con cui mira a preservare la leadership globale degli Stati Uniti nel XXI secolo. Emergono in questo riorientamento due aspetti principali. In primo luogo, una forza armata più ridotta, ma «più agile, flessibile, pronta e tecnologicamente avanzata». In secondo luogo, l’indicazione come priorità strategica del contenimento della Cina, vista come una minaccia all’egemonia globale degli Stati Uniti. (…).

 

La Segretaria di Stato Hillary Clinton ha denominato questo nuovo orientamento geoestrategico come il Secolo del Pacifico Americano, affermando che il «futuro della politica sarà deciso in Asia, non in Afghanistan o in Iraq», e che «gli Stati Uniti saranno al centro dell’azione». Nel suo discorso al Parlamento australiano alla fine del 2011, Obama ha sottolineato come, dopo le guerre in Iraq e in Afghanistan, gli Stati Uniti stessero volgendo l’attenzione verso l’ampio potenziale della regione dell’Asia-Pacifico, inclusa «una forte presenza militare nella regione». (…). Stiamo assistendo all’inizio di una nuova guerra fredda?

 

POPOLI IN MOVIMENTO

 

Di fronte a questa straordinaria combinazione di minacce non solo alla democrazia, alla pace e alla dignità umana, ma alla vita stessa, i popoli si incontrano oggi in movimento e in resistenza. Nel 2011 si sono registrate straordinarie mobilitazioni in tutto il mondo, espressione della resistenza a tali tendenze e della lotta per un altro mondo possibile. 

 

In America Latina, che, negli ultimi vent’anni, si è rivelata come il continente più vivace in questo senso, sono proseguite, in molti casi radicalizzandosi, mobilitazioni e lotte, specialmente contro le molteplici modalità del modello estrattivista (…). La logica estrattivista e la priorità assegnata all’esportazione di materie prime sono rimaste inalterate malgrado i profondi cambiamenti politici che si sono registrati nel continente, rappresentando la fonte principale delle contraddizioni interne e delle disillusioni nei confronti dei governi “progressisti” e di sinistra della regione. (…).

 

Nel mondo arabo si stanno producendo cambiamenti politici inimmaginabili fino a poco tempo fa, a partire dalle moltitudinarie e persistenti mobilitazioni popolari, la cosiddetta Primavera araba (…). Il ruolo della regione come affidabile riserva di idrocarburi per gli Stati Uniti e l’Europa viene meno nella misura in cui i loro alleati, i governi autoritari della regione, vengono messi sempre più in discussione. (…).

 

In Europa il movimento più ampio, consistente e continuato è stato quello degli indignati. Nella combinazione di azioni di occupazione, mobilitazioni di massa e assemblee di quartiere, la richiesta di democrazia reale ha già significato una profonda messa in discussione del sistema politico spagnolo e dei suoi partiti, compresi quelli di sinistra. (…).

 

Negli Stati Uniti il movimento iniziato con Occupy Wall Street si è esteso a un migliaio di località urbane in tutto il Paese. Il principale slogan del movimento, “Siamo il 99%”, esprime, e al tempo stesso pone apertamente nella coscienza pubblica, il crescente riconoscimento dell’esistenza di un conflitto tra i ricchi e i poveri. (…). Questi incontri di molteplici settori sociali rappresentano un importante processo di ri-politicizzazione dopo la profonda disillusione generata dal governo Obama tra milioni di giovani e ampi settori poveri della popolazione che si erano mobilitati nella campagna presidenziale del 2008. (…). 

 

Questi movimenti di diverse parti del mondo (…) sono assai diversificati rispetto all’efficacia politica nel raggiungimento dei loro obiettivi immediati. (…). Una caratteristica comune di molti dei nuovi movimenti è la sfiducia nella politica istituzionale, spesso anche nei confronti dei partiti di sinistra, e l’opzione per forme di democrazia diretta, nonviolenta, ma disposta alla disobbedienza civile e alla resistenza attiva in caso di repressione da parte delle forze pubbliche. (…).

 

In molte di queste lotte il successo più importante – ed è molto importante – sembra essere stato quello della politicizzazione dei giovani che non trovano più alcun significato nella politica istituzionale e dei cambiamenti nel sentire comune della società, nel contenuto del dibattito pubblico, nella cultura politica riguardo a questioni essenziali come la democrazia, l’uguaglianza e il valore della sfera pubblica. (…).

 

I partiti socialdemocratici europei negli ultimi anni sono diventati pienamente complici delle riforme neoliberiste richieste dai mercati, sempre più incapaci di difendere le conquiste del welfare state che era stato il loro progetto storico. Le organizzazioni politiche di sinistra non sono state capaci di offrire alternative di fronte alla crisi. Dopo aver sostenuto per tanto tempo l’inevitabilità di una crisi con tali caratteristiche, quando infine questa è diventata realtà, la sinistra è rimasta senza proposte.

 

Altre forme di far politica, meno istituzionali, più spontanee, meno verticali, più democratiche, pongono sul tappeto un insieme di questioni che richiedono un ampio dibattito.

 

La prima riguarda le potenzialità delle nuove tecnologie di comunicazione e informazione per una politica radicalmente democratica. Queste tecnologie (telefoni cellulari, YouTube, Twitter, Facebook), evidentemente, per sé sole, non hanno la capacità di produrre azioni sociali. Ma negli ultimi anni, in tutto il pianeta, il loro uso è stato incorporato creativamente in molteplici espressioni di lotta e di mobilitazione. Tali strumenti prevedono usi, non solo potenziali ma reali, di contenuto autoritario e antidemocratico come espressione di una società sotto vigilanza. Ma hanno anche aperto, in molti contesti, opportunità di accesso all’informazione, di comunicazione, di creazione di spazi virtuali di dibattito pubblico, di scambio di esperienze e di articolazione nelle lotte e nelle mobilitazioni sociali. (…).

 

Un’altra questione (…) riguarda la possibilità o convenienza di collegare queste molteplici espressioni della resistenza e della protesta popolare alla politica istituzionale. Non ha senso cercare una risposta unica, ma in quali condizioni (ed esperienze) sarebbe possibile incidere in senso democratico sulla politica istituzionale e sull’azione dello Stato senza perdere autonomia e orizzonte utopico, e senza cadere nella logica riproduttiva e conservatrice della politica e del potere costituiti?

 

Dal punto de vista dell’ampia gamma di movimenti e di lotte associati al Forum Sociale Mondiale, è indispensabile approfondire il dibattito sul senso e sulle potenzialità di questi nuovi movimenti. Come articolarsi con queste nuove ondate di protesta senza cercare di appropriarsene come farebbero i partiti politici?

 

Prima di tutto è necessario partire dal riconoscimento della pluralità e diversità dei contesti in cui operano questi movimenti, così come della diversità delle loro storie, dei loro obiettivi e delle loro concezioni di lotta. Nelle parole di Raúl Zibechi: «Per le forze antisistemiche… diventa impossibile l’elaborazione di una sola e unica strategia planetaria e diventano inutili i tentativi di stabilire tattiche universali. Per quanto esistano ispirazioni comuni e obiettivi generali condivisi, le diverse velocità che registra la transizione al postcapitalismo e le notevoli differenze tra i soggetti antisistemici impediscono ogni  generalizzazione».