Se la metafora diventa metafisica.


In memoria del teologo pluralista John Hick

 

ADISTA n° 8 del 3.3.2012

 

doc-2417. ROMA-ADISTA. Nel nostro Paese sono in pochi a conoscerlo (l’unico suo libro tradotto in italiano è La quinta dimensione. Alla scoperta della dimensione spirituale della natura umana, Edizioni Mediterranee, 2006), eppure il teologo presbiteriano anglo-statunitense John Hich, scomparso all’età di 90 anni il 9 febbraio scorso, è stato uno dei massimi esponenti della teologia del pluralismo religioso. La sua opera rappresenta un punto di riferimento essenziale per una riconsiderazione della cristologia classica nel quadro del paradigma pluralista: una sorta di “rivoluzione copernicana” in campo teologico, che, per le sue profonde implicazioni sull’insieme della comprensione del cristianesimo, richiederà, proprio come è avvenuto con l’assunzione del paradigma eliocentrico, un lungo tempo per venire accettata. Come può, infatti, una religione dialogare in maniera autentica con le altre se considera se stessa l’unica fondata da Dio in persona? È chiaro che, se si accetta realmente il principio che tutte le religione sono vere, occorre rivedere in maniera radicalmente nuova la questione dell’unicità di Cristo e della sua mediazione universale. Da qui l’innovativa lettura di Hick del dogma dell’incarnazione, intesa non in modo letterale, metafisico, ma come un’idea metaforica, nel senso di considerare Gesù come colui che «ha incarnato lo spirito di autodonazione» in risposta ad una coscienza «straordinariamente intensa» della presenza di Dio (v. Adista n. 14/8). Perché solo così, restituendo Gesù alla sua dimensione puramente umana di “grande profeta”, il cristianesimo potrebbe dirsi pronto «ad un genuino dialogo con altre credenze, a beneficio della pace mondiale». In consonanza con buona parte degli studiosi del Nuovo Testamento, i quali ritengono che Gesù non abbia rivendicato per sé l’attributo della divinità, Hick evidenzia come l’espressione “Figlio di Dio” venisse usata diffusamente in vario modo in tutto il mondo antico, cosicché sarebbe risultato semmai sorprendente che a Gesù non venisse applicata. Tuttavia, sottolinea il teologo, nelle fonti ebraiche il suo uso non implica mai la partecipazione della persona così designata alla natura divina. Ed è solo nei concilii cristologici di Nicea e Calcedonia che il cristianesimo, mirando ad occupare lo spazio della religione ufficiale dell’impero, si sente spinto a presentare le proprie credenze in termini filosofici accettabili anche per la cultura di lingua greca, finendo per interpretare in senso metafisico quella che era solo una metafora. E allo stesso modo il teologo prende le distanze dalla dottrina della redenzione intesa in senso stretto, contestando l’idea di una caduta reale da uno stato paradisiaco originale, da cui sarebbe risultata una colpa universale trasmessa in maniera ereditaria, e riscattando invece tale dottrina nel senso ampio di una riconciliazione considerata semplicemente come salvezza. 

Come omaggio al grande teologo scomparso, il portale Servicios Koinonia, punto di incontro della teologia e della spiritualità della liberazione latinoamericane (http://servicioskoinonia.org/), ha tradotto per la prima volta in spagnolo un articolo ritenuto «emblematico», dal titolo “Il carattere non assoluto del cristianesimo” - apparso nel libro collettivo The Myth of Christian Uniquenes (Il mito dell’unicità cristiana, New York, 1987, giunto alla settima edizione, nel 1998), diretto da Hick insieme a Paul Knitter -, e ora accessibile nella Rivista elettronica latinoamericana di teologia, Relat, dove è possibile incontrare anche un suo testo su “La metáfora de Dios encarnado”, una selezione del libro omonimo, una delle sue opere più famose, tradotta in spagnolo dalla collana Tiempo axial ed edita da Abyayala, Quito; Claret, Barcellona e Cálamo, Saragozza; (http://servicioskoinonia.org/relat/). Ne riportiamo qui di seguito ampi stralci. (claudia fanti)

 

IL CARATTERE NON ASSOLUTO DEL CRISTIANESIMO

 

di John Hick

 

LA FINE DELL’ESCLUSIVISMO

(…) La mentalità cristiana è sempre stata formata da molti segmenti e strati, i quali mostrano gradi assai diversi di coscienza e di riflessione autocritica. Ma durante il periodo successivo alla Prima Guerra Mondiale, (…) si è registrata una notevole evoluzione nei modi di concepire il posto del cristianesimo all’interno della totalità delle religioni del mondo. Ci troviamo ora in un momento critico in cui tale evoluzione può venire interrotta oppure essere portata fino alla sua logica conclusione. Si tratta allora di “passare il Rubicone”, cioè di fare un passo che chiuda un insieme determinato di possibilità aprendone al tempo stesso altre. Per vedere dove scorre questo Rubicone teologico, dobbiamo tornare per un momento all’idea medioevale (giunta di fatto fino alla fine del XIX secolo) del monopolio cristiano della verità e della salvezza espresso nella dottrina dell’extra ecclesiam nulla salus.

Questa dottrina romana esclusivista ha il suo equivalente protestante - ugualmente enfatico - nella convinzione che «fuori dal cristianesimo non c’è salvezza». Per questa convinzione si inviavano i missionari a salvare le anime, che altrimenti sarebbero state condannate per l’eternità. Che il cristianesimo dovesse propagarsi per tutto il mondo, soppiantando le religioni non cristiane, era un presupposto praticamente incontestato. (…).

Cos’è che ha condotto molti – forse la maggioranza – dei pensatori cristiani degli ultimi 70 anni ad abbandonare a poco a poco tale posizione nei confronti dell’assolutezza del cristianesimo?

Una risposta completa nasce dalla combinazione di molti elementi, il più importante dei quali è forse l’esplosione moderna, tra i cristiani occidentali, della conoscenza delle grandi tradizioni religiose del mondo. Tra le due grandi guerre mondiali e più ancora dopo la seconda, la disinformazione e gli stereotipi ostili occidentali riguardi alle comunità religiose di altre confessioni sono stati rimpiazzati a poco a poco da una conoscenza più attenta e da una comprensione più empatica. L’enorme ricchezza spirituale dell’ebraismo, dell’islam, del buddhismo, dell’induismo, del sikkismo, del confucianesimo, del taoismo, delle religioni originarie africane... ha ricevuto un maggiore riconoscimento, e ciò ha contribuito all’erosione del vecchio esclusivismo cristiano.

Un altro fattore è costituito dalla presa di coscienza di quanto l’assolutismo cristiano, combinato con la violenta e avida natura umana, abbia contribuito all’avvelenamento delle relazioni tra le minoranze cristiane e le maggioranze non cristiane della popolazione mondiale, santificando uno sfruttamento e un’oppressione di proporzioni enormi. Voglio analizzare qui alcune delle forme in cui, a grande scala, il carattere assoluto del cristianesimo si è prestato – essendo la natura umana quello che è – alla legittimazione e alla promozione del male politico ed economico.

La frase “essendo la natura umana quello che è” è importante, perché è possibile immaginare un mondo assai diverso in cui i cristiani avrebbero ugualmente creduto che il proprio vangelo fosse unico e superiore agli altri, ma senza il desiderio di dominare e sfruttare gli altri. In questo mondo immaginario il cristianesimo avrebbe liberato i propri fedeli dall’avidità, cosicché nessuno dei mali che andremo ad analizzare avrebbe avuto luogo. (…). È chiaro tuttavia che tale impotenza è, in se stessa, un fattore importante in questa analisi. Il panorama sarebbe molto diverso se il cristianesimo, all’altezza delle sue pretese di verità assoluta e di validità unica, avesse mostrato un’analoga capacità unica di trasformare in bene la natura umana.

Su questo punto, dobbiamo precisare che le pretese di validità assoluta e di superiorità da parte di altre religioni, sempre in considerazione della natura umana, hanno ugualmente santificato aggressioni violenze, sfruttamento e intolleranza. Uno studio storico mondiale sugli effetti nocivi di tutte queste pretese di assolutezza da parte delle religioni ricaverebbe materiale da quasi tutte le tradizioni, tra le quali il cristianesimo e l’islam offrirebbero, probabilmente, la maggiore quantità di esempi, e il buddhismo, forse, la minore. Tuttavia, come cristiano, scrivo specificamente sul nostro atteggiamento verso le altre religioni e, di conseguenza, mi soffermerò di più sul carattere di assolutezza rivendicato dal cristianesimo che su altre forme di assolutismo religioso.

AL SERVIZIO DELL’IMPERIALISMO

(…) La colonizzazione europea, giungendo con forza fino all’Africa, all’India, al Sudest asiatico, alla Cina, al Sudamerica e alle isole del Pacifico, e stabilendo un’egemonia bianca sulle popolazioni nere e di pelle scura, costituisce un complesso tessuto storico elaborato con molti e diversi fili. (…). Gli atteggiamenti razzisti, che continuano ad avvelenare la comunità umana dopo il collasso delle strutture coloniali, rappresentano un potente ingrediente nella mentalità che le ha create e mantenute. Poiché, durante il periodo in cui era normale pensare che britannici, francesi, tedeschi, olandesi, spagnoli, italiani e portoghesi dovessero governare sulle popolazioni nere e di pelle scura, era quasi psicologicamente inevitabile che i dominati venissero considerati bisognosi di una tutela superiore. Questa categorizzazione relativa all’inferiorità dell’umanità nera e di pelle scura includeva le sue culture e le sue religioni. Malgrado alcuni amministratori coloniali – alcuni di essi realmente ammirevoli – fossero arrivati a rispettare genuinamente le persone che governavano, assai spesso le loro culture venivano considerate barbare e le loro religioni delle superstizioni idolatriche. Considerando che la validità morale del dominio imperiale riposava sulla convinzione che l’Impero fosse una grande civiltà destinata ad esercitare una missione benefica, uno dei suoi compiti era quello di elevare gli sfortunati nativi verso una religione migliore, il cristianesimo (…).

Molto ancora si potrebbe dire, ma, senza entrare in dettagli, credo sia chiaro che nel XVIII e XIX secolo la convinzione della decisiva superiorità del cristianesimo abbia contribuito all’espansione imperiale dell’Occidente con un impeto morale (…) senza il quale l’impresa non sarebbe stata psicologicamente possibile.

Giunti a questo punto, dobbiamo spendere alcune parole sui missionari. Molti di loro non erano preoccupati per gli effetti della loro collaborazione nella costruzione dell’impero e nello sviluppo del commercio. Dedicavano la loro vita al compito di salvare anime pagane e in questa causa molti di essi, volontariamente, si sottomettevano a fatiche e a pericoli, non ultimo quello della minaccia costante delle malattie tropicali. Ebbene, per quanto molti considerassero le religioni indigene primitive o l’induismo, il buddhismo e l’islam privi di valore o demoniaci e i convertiti dei bambini da educare e istruire, ve ne furono altri che svilupparono un profondo rispetto e affetto per le persone a cui si sentivano inviati e furono capaci di riconoscere elementi di profonda saggezza e di ispirati ideali in queste tradizioni estranee. Riconoscere che l’imperativo cristiano missionario era usato nella coscienza nazionale per giustificare e avvalorare l’imperialismo non implica mettere in discussione la genuina motivazione dei missionari stessi.

SUPERIORITÀ IMPLICITA

(…) Il Concilio Vaticano II (1963-65) ha evidenziato e consolidato il nuovo pensiero sbocciato per molti anni tra i teologi cattolici romani più avanzati. Di fatto, il Vaticano II, sebbene, logicamente, non con queste parole, rigettò la dottrina dell’extra ecclesiam nulla salus, ammettendo la salvezza al di fuori della chiesa visibile: la redenzione ottenuta dal sangue di Cristo è offerta a tutti gli esseri umani anche senza la loro appartenenza formale alla chiesa. Così, parlando del sacrificio redentore di Cristo, il Vaticano II afferma: «E ciò vale non solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia. Cristo, infatti, è morto per tutti e la vocazione ultima dell'uomo è effettivamente una sola, quella divina; perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale» (Gs, 22).

(…) Tutto ciò non significa, tuttavia, che il vecchio senso di superiorità del cristianesimo sia morto o che la pretesa tradizionale del valore unico del vangelo cristiano sia stata abbandonata. (…). Quella pretesa è passata ora ad esprimersi in una forma meno evidente e meno offensiva.

(…) Per esempio, nella dichiarazione sulle “Relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane” (Nostra Aetate), che effettivamente si rivolgeva ai membri di altre tradizioni, la superiorità decisiva di Cristo/il vangelo/la Chiesa non viene dichiarata apertamente, ma è delicatamente e indirettamente implicita. In questo documento il tema principale era che «la Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni». Tuttavia, nella Costituzione Dogmatica sulla Chiesa (che significativamente inizia con le parole Lumen gentium), in cui la Chiesa chiarisce la sua fede a beneficio dei suoi membri, si stabilisce apertamente che «tutto ciò che di buono e di vero si trova in loro - cioè «quelli che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo» e «coloro che non sono ancora arrivati alla chiara cognizione e riconoscimento di Dio» - è ritenuto dalla Chiesa come una preparazione ad accogliere il Vangelo» (Lg, 16). E un altro pronunciamento del Vaticano II, il “Decreto sull’attività missionaria della Chiesa” (Ad Gentes), dichiara enfaticamente: «È dunque necessario che tutti si convertano al Cristo conosciuto attraverso la predicazione della Chiesa, ed a lui e alla Chiesa, suo corpo, siano incorporati attraverso il battesimo… Benché quindi Dio, attraverso vie che lui solo conosce, possa portare gli uomini che senza loro colpa ignorano il Vangelo a quella fede “senza la quale è impossibile piacergli”, è tuttavia compito imprescindibile della Chiesa, ed insieme suo sacrosanto diritto, diffondere il Vangelo; di conseguenza l'attività missionaria conserva in pieno - oggi come sempre - la sua validità e necessità». (…).

In gran parte, il pensiero cristiano è evoluto da un esclusivismo intollerante ad un inclusivismo benevolente. Ma quest’ultimo, non meno che il precedente, riposa sulla pretesa che la meta ultima a cui ci dirigiamo è il cristianesimo come centro dell’unica e totale rivelazione divina e dell’unico evento di salvezza realmente tale. I non cristiani si possono salvare perché, senza saperlo, Cristo è segretamente unito a loro. (…).

Da un certo punto di vista, passare il Rubicone teologico sembra quasi un passo inevitabile, la conclusione naturale della traiettoria percorsa dalla visione esclusivista delle religioni a quella inclusivista. Avendo per la prima volta ammesso che la salvezza si compie di fatto non solo all’interno del cristianesimo, ma anche nelle altre grandi tradizioni, appare arbitrario e poco realista insistere sul fatto che l’evento cristiano sia l’unica ed esclusiva fonte di salvezza. Quando si riconosce che gli ebrei si salvano all’interno della corrente ebraica, i musulmani all’interno della corrente islamica, gli induisti all’interno della corrente indù e così tutti gli altri, insistere ad etichettare come “cristiana” tale salvezza non è altro che l’ultimo sintomo dell’imperialismo religioso di un passato che sta morendo. Sarebbe assurdo quanto accettare la rivoluzione copernicana in astronomia, con cui la Terra abbandona il centro dell’universo per retrocedere al ruolo di uno dei pianeti che girano intorno al Sole, ma continuando ad insistere sul fatto che i raggi del Sole possono raggiungere gli altri pianeti solo se prima vengono riflessi dalla Terra!

Il movimento che va dall’inclusivismo cristiano al pluralismo, malgrado in un primo momento appaia naturale e inevitabile, pone i cristiani sotto una luce nuova e sconcertante (…). La tradizione cristiana appare ora come una tra le altre nella pluralità del contesto della salvezza, contesto – devo aggiungere – all’interno del quale si sta operando una trasformazione dell’esistenza umana dall’egocentrismo al teocentrismo, in cui, cioè, al centro viene posto Dio (o la Realtà). Pertanto, l’idea che il cristianesimo rappresenti un luogo più favorevole per questa trasformazione rispetto alle altre tradizioni (…) non si può stabilire considerando che la salvezza sia semplicemente inclusa nel perdono divino concesso attraverso la morte espiatoria di Cristo. Perché ne conseguirebbe che il cristianesimo, come presenza continua di Cristo sulla Terra, è superiore alle altre religioni. Questo tipo di superiorità arbitraria, stabilita per definizione da noi stessi, non è più difendibile, nemmeno per molti cristiani. Oggi è impossibile non rendersi conto di come la questione della superiorità vada reimpostata come una questione empirica, e stabilita (se è possibile) esaminando i fatti.

GUARDARE AI FATTI

I dati osservabili – che sono i frutti concreti della fede religiosa nella vita umana – ci lasciano perplessi nella loro varietà e finalità. Tuttavia, abbiamo due linee che ci possono guidare: la ricerca della trasformazione individuale e quella della trasformazione sociale. La prima ci appare nella sua forma più evidente nella serie dei santi riconosciuti da ciascuna tradizione religiosa (…). Se intendiamo come santa la persona che è molto più avanti rispetto agli altri nella trasformazione dall’egocentrismo al teocentrismo, oserei dire che ognuna delle grandi tradizioni religiose sembra promuovere questa trasformazione in un modo o nell’altro, più o meno con la stessa estensione. Ponendo ciò in relazione alla tradizionale idea della superiorità cristiana, ritengo che non si abbiano basi sufficienti per sostenere che il cristianesimo abbia prodotto o produca proporzionalmente più santi o una santità di migliore qualità rispetto a ciascun’altra delle grandi correnti religiose. (…). Esistono persone che hanno offerto la propria vita a Dio o alla Realtà ultima, in diversi gradi, all’interno di tutte le grandi religioni. (…)

Se dunque il cammino della santità non ci porta alla conclusione che il cristianesimo sia manifestamente superiore, l’altro cammino da seguire è quello dell’opera sociale delle diverse religioni. Al riguardo, in gran parte del pensiero cristiano esiste la salda convinzione di una superiorità manifesta, legata alla visione di una società dell’emisfero nord relativamente giusta, pacifica, illuminata, democratica... che dovrebbe le sue virtù al cristianesimo, in contrasto con una società dell’emisfero sud relativamente povera, ingiusta, violenta, sottosviluppata e antidemocratica, la cui arretratezza dipenderebbe dalla sua fede non cristiana. Tuttavia, questo panorama deve essere decostruito a diversi livelli. (…). L’ingiustizia sociale è indubbiamente endemica in vari gradi in questi Paesi del mondo (quelli dell’emisfero sud, ndt), ma lo è praticamente in tutti i Paesi del mondo, ricchi e poveri, occidentali e orientali, cristiani e non cristiani.

La prosperità economica occidentale è il prodotto della scienza moderna e della tecnologia. Vari autori hanno indicato come la nascita della scienza moderna richiedesse un ambiente intellettuale cristiano, con la sua fede nel Creatore razionale di un universo ordinato e governato da leggi. (…). Ma tutte le grandi tradizioni religiose nelle loro differenti versioni (…) vedono l’universo in questo modo. La cosmologia induista e quella buddhista presentano, nei riguardi di alcune delle maggiori teorie scientifiche moderne, un’affinità più grande di quella che si coglie nella tradizionale cosmologia cristiana. L’antica concezione induista delle numerose Kalpas (lunghe ere) successive, tutte orientate alla conflagrazione dell’universo e al suo rinnovamento, passando un’altra volta per lo stesso sviluppo, è vicina ad uno dei modelli contemporanei scientifici di una espansione-contrazione infinita dell’universo. L’enfasi buddhista sul processo incessante di un flusso interdipendente e infinito di cambiamenti è in consonanza con il quadro fisico dell’universo come un campo energetico sottoposto a continue trasformazioni.

Tuttavia, né l’induismo, né il buddhismo, né il cristianesimo diedero vita di fatto alla scienza moderna durante i primi quindici secoli. Cosicché bisogna chiedersi quale altro fattore sia entrato in gioco per risvegliare la mente umana dal sonno prescientifico. La risposta sembra venire dal risorgere, durante il Rinascimento Europeo e poi nell’Illuminismo, dello spirito greco della libera ricerca, che gradualmente sollevò la mente dal peso dei dogmi, aprendola all’osservazione, alla sperimentazione e al ragionamento che hanno permesso di comprendere la realtà in cui viviamo.

Allora, una volta mossi i suoi primi passi, la scienza moderna divenne rapidamente un’impresa autonoma, sempre più potente, obbediente a precetti metodologici propri e tesa ad affermare enfaticamente la propria indipendenza di fronte all’etica religiosa all’interno della quale era nata. (…). Nei dibattiti tra la scienza e la religione nel XIX secolo, così come nelle prime minacce ecclesiali a Galileo e nei tentativi di sopprimere la nuova cosmologia, il cristianesimo, lungi dal considerare la scienza come un proprio particolare regalo al mondo, intraprese una lunga e fallimentare battaglia contro di essa! (…).

Il cristianesimo non può rivendicare alcun diritto di fronte all’attività scientifica moderna. La sua speciale relazione con essa consiste semplicemente nel fatto che è stato il primo, tra le religioni del mondo, a subire l’impatto della nuova conoscenza e della nuova prospettiva empirica. Possiamo immaginare che l’islam subirà uno shock altrettanto forte, mentre l’induismo e il buddhismo potrebbero adattarsi senza grande difficoltà. Ma in ogni caso l’effetto più profondo dovrà essere, come è avvenuto nell’Occidente cristiano, quello di una progressiva secolarizzazione tanto del pensiero come della società. E la sfida più profonda sarà quella di sviluppare forme di fede attraverso cui lo spirito umano possa relazionarsi con il Trascendente e risultarne trasformato, all’interno del contesto della conoscenza moderna di noi stessi e del nostro ambiente. (…).

L’altro principale campo in cui il cristianesimo contemporaneo tende a considerarsi superiore è quello dell’adozione dei moderni ideali di uguaglianza umana e di libertà, espressi politicamente nelle forme democratiche di governo. (…). Il sorgere di concetti come i diritti umani, la libertà individuale e l’uguaglianza fu all’inizio impedito dalla Chiesa con la stessa forza con cui era stata ostacolata inizialmente la scienza moderna. (…). La tardiva e spesso vacillante conversione delle Chiese agli ideali di uguaglianza umana e di libertà presenta uno sviluppo molto recente, che oggi si avverte anche all’interno di altre tradizioni mondiali. Ancora una volta, il cristianesimo non può vantare diritti di proprietà su questi potenti ideali laici del mondo moderno. È vero che questi presentano una sicura base teorica negli insegnamenti di ciascuna delle grandi religioni, ma in ogni caso la loro apparizione come una forza reale è dovuta in gran parte al lavoro della modernità nel processo di dissoluzione dell’autoritarismo. (…).

UNA MESCOLANZA DI BENE E DI MALE

Quando guardiamo alle tradizioni religiose come organismi storici di lunga durata, troviamo in ciascuna una complessa mescolanza di elementi benefici e nocivi. Ciascuna ha offerto un efficace quadro di significato a milioni di aderenti, guidandoli attraverso le diverse tappe della vita, donando consolazione nella malattia, nella necessità, nella calamità e permettendo di celebrare comunitariamente i tempi della salute, del benessere e della creatività. (…). Molti hanno risposto – di nuovo, in diversi gradi – alla rivendicazione morale dell’amore/compassione mediata dalle grandi tradizioni e formulata comunemente come la “Regola d’oro”: «Non lasciare che alcun essere umano faccia a un altro un atto che egli non vorrebbe che altri gli facessero, sapendo che per lui è doloroso» (il Mahabharata indù, Shanti Parva, cclx. 21). «Non fare ad altri quello che non vorresti che facessero a te» (Confucio, Analectas, Libro XII, n º 2 ). «Non fare agli altri quello che sarebbe un danno per te stesso» (l’Udanavarga buddhista, v. 18). «Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Lc 6,31). «Nessun uomo è un vero credente se non vuole per suo fratello quello che vuole per se stesso» (il musulmano Hadith, islam, iman, 71-2).

Ma, al tempo stesso, ogni religione ha santificato vizi e mali umani. (…). La conclusione è che ogni tradizione ha costruito la propria mescolanza peculiare di bene e di male. Ciascuna di esse rappresenta una realtà sociale duratura passata per momenti di gloria e per tempi di decadenza; e ciascuna è al suo interno assai diversa, con aspetti che promuovono il benessere e altri che danneggiano la famiglia umana. Di fronte a questa complessità, pare impossibile giudicare globalmente se una tradizione religiosa abbia contribuito di più al bene o di meno al male rispetto a un’altra o se presenti un maggiore equilibrio tra il bene e il male che le altre. (…) Nessuna può essere indicata come manifestamente superiore. Se è così, possiamo iniziare a considerare come questa verità possa toccare il lavoro in corso nella teologia cristiana.

UNA NUOVA TEOLOGIA

Le tre dottrine centrali della trinità, dell’incarnazione e dell’espiazione sono legate l’una all’altra. (…).

Avvicinandoci a questo insieme di dottrine attraverso il concetto dell’incarnazione, è oggi ampiamente accettato dagli eruditi del Nuovo Testamento, anche da quelli relativamente conservatori, che il Gesù storico non si presentò a se stesso come il Figlio di Dio, come seconda persona di una trinità divina che viveva una vita umana. (…). Probabilmente pensò a sé come l’ultimo profeta, colui che avrebbe avuto la missione di annunciare la fine di un’epoca. (…).

Il titolo “figlio di Dio”, che sarebbe diventato normativo nella teologia ecclesiale, probabilmente fece la sua comparsa nel Vecchio Testamento e venne ampiamente usato nell’antico Medio Oriente, dove stava a indicare un servo speciale di Dio. In tal senso, re, imperatori, faraoni, grandi filosofi, operatori di miracoli e altri uomini santi venivano chiamati comunemente “figli di Dio”. Ma nella misura in cui il Vangelo oltrepassò le frontiere del mondo ebraico rivolgendosi all’Impero Romano, la poesia venne trasformata in prosa, e la metafora viva si congelò in un dogma rigido e letterale. Per accomodare il risultato della filiazione metafisica, e dopo circa tre secoli di acuti dibattiti, la Chiesa stabilì la teoria delle due nature di Gesù, una divina e un’altra umana, (…) una costruzione filosofica distante dalla cosmovisione e dall’insegnamento dello stesso Gesù (…).

Vi sono sempre state, però, altre tendenze nel pensiero cristologico, per quanto le variazioni siano state ufficialmente soppresse durante il lungo e relativamente monolitico periodo della cristianità medioevale. La prima tendenza (…) espresse probabilmente una cristologia di ispirazione, che vede Gesù come un grande profeta pieno dello Spirito divino. (…). L’idea fondamentale è che parlare dell’amore di Dio incarnato significa parlare di uomini e donne nelle cui vite l’ispirazione di Dio, o la grazia, ha operato in modo così efficace da trasformarli in strumenti divini sulla terra. (…). L’incarnazione, in questo senso, è avvenuta e sta avvenendo in forme distinte e gradi differenti in molte persone diverse. Se nel caso di Gesù sia avvenuta più pienamente che in quello di qualsiasi altro essere umano, o forse anche in maniera assoluta, ciò non può essere propriamente dimostrato a priori sulla base dell’informazione storica (…).  

Una cristologia di ispirazione (…) è pienamente compatibile con la concezione della trinità come affermazione dei tre diversi modi in cui l’unico Dio viene sperimentato nella sua azione verso di noi e può di conseguenza essere da noi conosciuto, come creatore, redentore, e ispiratore. In questa interpretazione, le tre persone non sono tre differenti centri di coscienza, ma le tre principali espressioni della natura divina. (…).

Como nel caso della cristologia, la dottrina dell’espiazione più compatibile con il pluralismo religioso è più vicina di quanto appaia all’insegnamento di Gesù. Qui troviamo, nelle parole del Padre Nostro e in parabole come quella del figliol prodigo, l’ipotesi di una relazione diretta con Dio in cui, in presenza di un vero pentimento, si può chiedere e ricevere perdono e vita nuova. Il padre della parabola non esige un sacrificio di sangue per soddisfare il proprio senso di giustizia: non appena vede il figlio sulla via del ritorno, «commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò», dicendo: «questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15,20.24). E l’unica condizione per il perdono di Dio nel Padre Nostro è che anche noi perdoniamo gli altri. Ciò è molto distante dall’idea che Dio possa perdonare i peccatori solo perché Gesù ha pagato il nostro giusto castigo con la sua morte in croce (…). Un perdono che deve essere comprato tramite il pagamento totale del debito morale non è in alcun modo un perdono. Gesù parlava invece dell’autentico miracolo del perdono, un miracolo che non può essere colto nei parametri delle dottrine dell’espiazione. (…).

Allora, nel caso di ciascuna di queste dottrine, lo spettro teologico esistente nella tradizione cristiana, così come si è diversificata in epoca moderna, offre ampie risorse affinché le teologie possano incorporare il pluralismo religioso. Pertanto, ciò che richiede la visione pluralista non è di abbandonare radicalmente la tradizione cristiana, ma di trovare alcuni modi di svilupparla, suggeriti dalla scoperta della presenza di Dio e della sua azione salvifica in altre correnti religiose dell’umanità. Da cui risulta che il cristianesimo non è l’unico cammino di salvezza, ma uno tra diversi altri.

Allo stesso tempo, altre due grandi idee (…) stanno anch’esse sollecitando sviluppi paralleli. La prima è il riconoscimento, espresso nella teologia della liberazione, che Dio sta operando laddove vi sia un impegno valido nella lotta per la giustizia umana, e pertanto sia presente nei movimenti di liberazione marxista e laica esattamente come nella chiesa, e talvolta di più. (…).

L’altra prospettiva nuova è quella che si esprime nella teologia femminista contemporanea: che Dio è certamente fonte di vita e di senso tanto per le donne quanto per gli uomini e che di conseguenza la nostra comprensione religiosa deve essere condotta verso una nuova equilibrata apertura dell’ampia vita religiosa dell’umanità, con la sua ricca pluralità di modi maschili e femminili di simboleggiare il divino, che possono aiutare a liberarci dalle grinfie dell’assolutezza del patriarcalismo cristiano.

Queste preoccupazioni stanno creando oggi una nuova rete di alternative per il pensiero cristiano. (…). Il nostro compito è quello di cercare di esporre e spiegare la nuova visione che sta emergendo gradualmente, in modo che quante più persone possibile possano riconoscere in essa un’illuminazione contemporanea dello Spirito (…).