La nuova lotta di classe dei ricchi contro i poveri. Intervista a Luciano Gallino
MicroMega on line 4 aprile 201)
La 
flessibilità aumenta l'occupazione? Tagliare le spese dello Stato aiuta 
l'economia? La competitività valore assoluto? Tutte bugie. Un saggio di Luciano 
Gallino illustra le disastrose conseguenze economiche e sociali del 
neoliberismo, che ha elevato la disuguaglianza a ideale di sviluppo. 
colloquio con Luciano Gallino di 
Matteo Pucciarelli
Il povero ragioniere Ugo Fantozzi, reduce da una delusione amorosa in ufficio, 
prese in mano le “letture maledette” del compagno Folagra, il rivoluzionario con 
la barba lunga e la sciarpa rossa emarginato da tutti. Mesi di studio, e 
all'improvviso, curvo sui libri accatastati in salotto, sbatté il pugno sul 
tavolo: «Ma allora mi han sempre preso per il culo!». Quasi come una rivelazione 
divina: Fantozzi aveva capito tutto. 
Ecco, la lettura dell'ultimo lavoro di Luciano Gallino "La lotta di classe dopo 
la lotta di classe" (intervista a cura di Paola Borgna, editori Laterza) può 
sortire lo stesso effetto. Anche in un pubblico colto, sobrio e moderatamente di 
sinistra. Perché smonta uno a uno i dogmi dell'idea, anzi dell'ideologia moderna 
liberista, così trasversale, così apparentemente intangibile, come se non ci 
fossero altri schemi possibili all'infuori. E Gallino lo fa mettendo in fila 
dati, studi, e non opinioni. Senza facili populismi, senza scorciatoie 
preconfezionate. Spiegando che la lotta di classe esiste, eccome. Solo che si è 
ribaltata: è il turbo capitalismo che ha ingranato la quarta contro le conquiste 
dei movimenti operai ottenute fino agli anni ’70. E i lavoratori sono sempre più 
divisi al loro interno, impegnati in un’altra lotta, quella tra poveri. 
Un testo imprescindibile per capire dove stiamo andando, e seguendo quali 
(folli) logiche. Un testo che a sinistra dovrebbe – o potrebbe, chissà – 
diventare una sorta di bibbia laica. 
Era un'ottima occasione per parlarne direttamente col professore e sociologo 
piemontese. 
Partendo dal tema del momento: dopo aver letto il libro sembra di 
capire che l'attacco all'articolo 18, ma anche semplici frasi come quella di 
Monti «le aziende non assumono perché non possono licenziare», siano in realtà 
parte di un disegno ben preciso: quella lotta di classe alla rovescia di cui 
parla nel libro. È così?
«Direi di sì. Si tratta di idee che circolano da decenni, che fanno parte della 
controffensiva iniziata a fine anni ’70 per superare le conquiste che i 
lavoratori avevano ottenuto a caro prezzo dalla fine della guerra. Riproposte 
oggi sembrano sempre più idee ricevute, piuttosto che analisi attinenti alla 
realtà. Dottrine neoliberiste imposte adesso con la forza, combattendo i 
sindacati, comprimendo i salari e tagliando le spese sociali».
Lei scrive: «La correlazione tra la flessibilità del lavoro – che 
tradotto significa libertà di licenziamento e insieme uso esteso di contratti di 
breve durata – e la creazione di posti di lavoro non è mai stata provata, se si 
guarda all’evidenza accumulatasi con i dati disponibili». Qui da mesi e mesi 
alla tv ci riempiono la testa col “modello danese”, poi quello tedesco... Ci fu 
la riforma Treu nel '96, poi quella Biagi, e ancora non sembra bastare. Allora 
forse la Cgil non dovrebbe firmare la riforma, anche se la clausola del 
reintegro venisse reintrodotta, perché è tutto l'impianto ad essere sbagliato...
«La Cgil è in una situazione molto difficile. Anche perché gran parte degli 
altri sindacati e dei media sono favorevoli a questa visione neoliberale. L’Ocse 
non è mai riuscita a provare l’esistenza di una correlazione tra flessibilità e 
maggiori posti di lavoro, e in alcune sue pubblicazioni arriva perfino ad 
ammetterlo. E anzi, c’è un aspetto paradossale: usando gli stessi indici 
dell’Ocse, si scopre che ad aumentare dovrebbe essere la rigidità, semmai. 
Perché dopo la riforma del 2003, che ha aumentato la cosiddetta flessibilità in 
Italia e che la rende superiore ad altri paesi come Francia, Germania e 
Inghilterra, i nostri indici occupazionali sono peggiorati».
La sinistra sembra giocare sempre in difesa. Passa per 
conservatrice. Che poi in effetti è vero, perché difende diritti acquisiti. 
Eppure il messaggio non passa, e se passa lo fa negativamente. “La vecchia 
sinistra, anti-moderna”. Il progresso sembra appannaggio di chi professa lo 
smantellamento del modello sociale. C'è un problema di comunicazione? Perché la 
sinistra ha così tante difficoltà a farsi capire da chi dovrebbe difendere?
«C’è un problema non grosso come una casa, ma come un grattacielo. Se a sinistra 
non c’è un partito di grande dimensioni che non difende il “Lavoro” significa 
che siamo davvero malmessi e che l’impresa diventa ancor più ardua. E poi la 
sinistra ha contro la maggior parte dei media e della classe politica, anche 
quella della “sinistra” stessa. Perché sono state introiettate quelle dottrine 
neoliberiste di cui prima. La lotta ideologica contro i sindacati per adesso ha 
vinto, culturalmente in primis. Basta vedere il calo degli iscritti al sindacato 
nei Paesi sviluppati. E questo ha inciso anche sulla partecipazione dei 
cittadini alla vita politica». 
Verrebbe da dire che la fine delle ideologie è una grande bugia. 
Perché una è sicuramente rimasta, viva e vegeta....
«La fine delle ideologia è una delle più robuste e articolate ideologie in 
circolazione. È servita ad assicurare il dominio delle politiche economiche 
neoliberali, e anche la legittimazione di quelle politiche sul piano culturale e 
ideale. Gli slogan gli conosciamo bene: “ridurre la spesa pubblica”, “tagliare 
le imposte alle imprese e agli individui”, “occorre più flessibilità”, “meglio 
il lavoro temporaneo”, “il mercato deve guidare ogni immaginabile decisione, 
anche a livello locale”. Tutto questo ha avuto la meglio, anche nella cultura di 
una parte della sinistra. Conta poco che queste ricette siano sistematicamente 
sconfessate dalla realtà»
È interessante come il modello neoliberista abbia copiato da 
Gramsci la propria tendenza egemonica culturale. Lei lo ripete spesso. E poi 
spiega, e lo ha detto anche prima, come un pezzo di sinistra ne sia stata 
sedotta. Aggiungerei che alla sinistra hanno copiato anche l'internazionalismo, 
cioè la capacità di fare "gioco di squadra" a livello planetario. Come si fa a 
invertire la tendenza? Come si fa a imporre nuovamente una visione alternativa 
della società? 
«È estremamente difficile. L’egemonia attuale è vincente sia sul piano della 
pratica, come lo vediamo ogni giorno, sia sul piano morale e culturale. 
L’austerità sta tagliando l’insieme delle condizioni di vita di milioni di 
persone, seminando recessione. E qui nasce un altro pericolo, cioè che politiche 
di questo genere fomentino l’estrema destra che urla contro la finanza, ma in 
modo assolutamente strumentale». 
Il primo a parlare di “austerità” fu Enrico Berlinguer. Qualcuno, 
sempre a sinistra, ha ritirato fuori la cosa.
«Sì, ma erano altri tempi, altre situazioni, e quella parola usata dal 
segretario del Pci voleva dire un’altra cosa. Ora significa tagliare salari, 
posti di lavoro, spesa sociale e diritti. Allora era una critica al consumo. La 
crisi è nata anche per delle storture del modello produttivo. Non si può pensare 
di continuare a produrre sempre di più, all’infinito. Il progresso non consiste 
nell’avere cinque telefoni e tre automobili a famiglia, ma ha a che vedere con 
la qualità della vita, del tempo libero, del lavoro…»
Negli anni Settanta i giovani gridavano lo slogan "Lavorare meno, 
lavorare tutti". A un certo punto lei parla dei sindacati, e fa una critica a 
livello non solo europeo, ma mondiale: «Non si è sentito nessun sindacato, o 
gruppo di sindacati, europeo o americano, alzare la voce per dire che era 
inaudito che il salario orario minimo in Cina fosse di 75 centesimi di dollaro; 
e che è scandaloso che aziende europee e americane protestino perché 
quell’innalzamento da 65 a 75 centesimi non permette più loro di operare con 
profitto...». È sicuramente vero. Ma perché accade? Si è persa la solidarietà di 
classe? L'egoismo, l'interesse particolare, ha contagiato anche il sindacato? È 
questa l'ennesima vittoria del pensiero dominante? 
«I sindacati hanno delle giustificazioni. La frammentazione delle attività 
produttive ha complicato l’attività sindacale. Un conto è avere un megafono per 
parlare a cinquemila operai tutti insieme, un conto è andarli a cercare in 
cinquanta fabbriche diverse con cento operai ciascuno. Però sì, a livello 
internazionale si è fatto poco. La necessità, adesso, è esportare diritti».
Il governo tecnico, anzi i governi tecnici in Europa, sono in 
realtà governi di destra. Lo chiarisce molto bene. Com'è possibile che il Pd lo 
sostenga e ne subisca il fascino anche per il futuro? Sembra un cerchio che si 
chiude. La dimostrazione che la sua analisi sul pensiero dominante è corretta.
«Concorrono diversi fattori. Un po’ perché la dottrina neoliberale, come 
dicevamo, ha fatto presa anche a sinistra. Poi c’è il timore di apparire 
agganciati a una storia di “vecchie ideologie”. C’è una questione di competenza: 
si è capito ben poco di perché è nata la crisi, sul come si è sviluppata, per 
colpa di chi o di cosa. E infine c’è un fattore di convenienza: l’Italia è in 
Europa, e in Europa si gioca con le regole del liberismo. Così qualcuno avrà 
pensato di far mettere la faccia ai “tecnici” rispetto alla richieste dolorose 
che Bruxelles richiedeva. Diciamo che può essere stato un grigio calcolo 
elettorale». 
Lei cosa ne pensa dei No Debito? È possibile rifiutarsi di 
pagare?
«Il movimento non tiene conto dell’esistenza della Bce, che però non opera come 
una normale banca centrale: non può concedere prestiti, magari a basso tasso di 
interesse, agli stati membri o ad altre istituzioni. Questo perché il trattato 
di Maastricht lo proibisce. Abbiamo rinunciato alla sovranità monetaria entrando 
nella Ue, e quindi ci ritroviamo con una moneta straniera. Ecco, visto questo, 
non pagare il debito è impossibile. L’istanza è però moralmente valida, specie 
se si pensa alla dissennatezza del sistema finanziario, al fatto che i Paesi 
hanno speso 4,1 trilioni di euro per salvare le banche aumentando il proprio 
debito. Ma bisognerebbe chiedere subito una riforma del sistema finanziario. 
Sono stati fulminei a fare la riforma delle pensioni, a imporre diktat da 
occupazione militare alla Grecia, eppure da anni giace in un cassetto da anni 
una riforma di questo tipo. Per la quale dovremmo davvero batterci».
L’analisi del suo libro potrebbe diventare fondamentale per 
ridare fiato alla sinistra. Ho letto il 
"Manifesto per un 
soggetto politico nuovo", e mi 
sembra che il gruppo di intellettuali che l'ha redatto e firmato, tra cui lei, 
vada in quella direzione. Che reazioni ha avuto da parte dei partiti d’area?
«Ho l’impressione che siamo intorno a zero. Ma vorrei dire che non si tratta di 
buttare via i partiti, quanto di rinnovarli, saldando il ponte tra movimenti e 
organizzazioni politiche. Se i movimenti continuano a vedere i partiti come 
vecchie carrozze, e se i partiti vedono i movimenti come allegri ma inutili 
catalizzatori per le manifestazioni, il futuro non sarà certamente roseo».
Chiudo con una battuta. In chiusura lei scrive: «Con la caduta 
del socialismo reale è stato seppellito anche quel frammento di verità 
essenziale su cui era stata malaccortamente e colpevolmente innalzata la 
torreggiante megamacchina sociale che pretendeva di rappresentarlo. Quel 
frammento, che dopotutto sta alla base del movimento operaio da quando è 
cominciato, fin dall’inizio dell’Ottocento, era la ragione stessa della storia, 
o meglio la ragione che conferisce un senso alla storia. Era giusto che la torre 
cadesse, ma, cadendo, la torre ha sepolto tra le sue macerie anche quell’ultimo 
frammento che rappresentava la speranza di un rinnovamento della società intera. 
E questa è stata una perdita enorme». Lo sa che le daranno dello stalinista?
«È possibile e la cosa mi diverte anche. Perché cito dati ufficiali, molto 
spesso, del Congresso americano. Tutto questa significa che tra la realtà 
oggettiva delle cose e l’interpretazione che se ne dà c’è una distanza siderale. 
E ciò non depone certo a favore della maturità politica della nostra classe 
dirigente».