Ora una “legge Martini” sul fine vita
di Paolo Flores d’Arcais,
 da il Fatto quotidiano, 6 settembre 2012 
Giulia Facchini Martini, nipote del cardinale Carlo Maria Martini, ha raccontato 
con semplicità toccante la morte dello zio, con una lettera che comincia così: 
“Caro zio, zietto come mi piaceva chiamarti negli ultimi anni quando la malattia 
ha fugato il tuo naturale pudore verso la manifestazione dei sentimenti, questo 
è il mio ultimo, intimo saluto”. Ci sono brani della lettera che riguardano 
soprattutto e forse solo i credenti, per i quali “lo spirito, la vera essenza, 
rimaneva forte, presente seppure non visibile agli occhi” dopo la morte, dopo 
che “lì sul letto rimaneva soltanto l'involucro fisico”. Ma ce ne sono altri che 
ci riguardano tutti, riguardano da vicino ogni cittadino (e del resto, non è 
stata proprio questa cifra della presenza del cardinale a capo della diocesi di 
Milano a spingere tanti agnostici e atei a dargli l’estremo saluto ?). 
Scrive Giulia: “Tu vorresti che parlassimo dell’agonia, della fatica di andare 
incontro alla morte, dell'importanza della buona morte”. E sente che parlarne è 
un dovere, quando vede un malato di Sla che va incontro al feretro. Perciò si 
rivolge così allo zio: “Avevi paura, non della morte in sé, ma dell’atto del 
morire, del trapasso e di tutto ciò che lo precede. Ne avevamo parlato insieme a 
marzo e io, che come avvocato mi occupo anche della protezione dei soggetti 
deboli, ti avevo invitato a esprimere in modo chiaro ed esplicito i tuoi 
desideri sulle cure che avresti voluto ricevere. E così è stato”. Ma di questo 
già è stato scritto, del rifiuto della nutrizione e idratazione artificiali che 
una sciagurata legge vorrebbe invece rendere obbligatoria per molti morenti. Più 
importante quello che segue: “Avevi paura, paura soprattutto di perdere il 
controllo del tuo corpo, di morire soffocato (…). Con la consapevolezza 
condivisa che il momento si avvicinava, quando non ce l’hai fatta più, hai 
chiesto di essere addormentato. Così una dottoressa con due occhi chiari e 
limpidi, una esperta di cure che accompagnano alla morte, ti ha sedato”. 
Carlo Maria Martini ha deciso, deciso liberamente e sovranamente, il momento in 
cui voleva perdere definitivamente conoscenza, non “vivere” più la propria 
agonia e la propria morte. Questo e non altro, infatti, significa essere sedati. 
Non sentire più nulla, non provare più nulla, essere “fisicamente non cosciente” 
(anche se un credente crede, e dunque anche Giulia lo riafferma, che lo spirito 
misteriosamente resti presente nella sedazione, proprio come presente sarà anche 
nella morte e dopo, per l’eternità). Essere già, soggettivamente, nel sonno 
eterno, nell’eterno riposo, nella fine irreversibile di ogni sofferenza e di 
ogni angoscia. 
Carlo Maria Martini ha giustamente goduto della libertà di scegliere il momento 
in cui dire basta, essere sedato, non dover provare più nulla, il momento in cui 
“una dottoressa con due occhi chiari e limpidi” ha compiuto il gesto che il 
malato ha chiesto. Questa è l’“alleanza medico-paziente”, troppe volte invocata 
a sproposito e sadicamente, per imporre al paziente ore e giorni di vigile 
sofferenza che vorrebbe rifiutare. 
Carlo Maria Martini ha goduto di un privilegio, mentre avrebbe dovuto godere di 
un diritto. Un privilegio, perché ogni giorno in ogni ospedale italiano ci sono 
esseri umani, “soggetti deboli”, che rivolgono la stessa richiesta, essere 
definitivamente sedati, non dover provare più nulla mentre il loro organismo si 
avvia verso l’ultimo respiro, e che non vengono esauditi, non trovano la loro 
“dottoressa con due occhi chiari e limpidi”, ma la disumana durezza burocratica 
che quella sedazione definitiva rifiuta. Malati terminali che per ore, giorni, 
settimane, sono costretti alla mostruosa altalena di periodi di sedazione 
alternati a periodi di veglia e coscienza, saturi di quelle angosce che il 
cardinal Martini ha giustamente preteso di evitare, di non percepire, di lasciar 
vivere al suo organismo ma non al suo essere cosciente. Ora attraverso le parole 
affidate alla nipote, chiede a tutti, dunque in primo luogo alle istituzioni “di 
condividere i suoi [del morente] timori, di ascoltare i suoi desideri senza 
paura o ipocrisia”. 
Ecco, io credo che il modo migliore per onorare il cardinal Martini sarebbe una 
“legge Martini” che stabilisca in modo inequivocabile il diritto di ogni malato 
di scegliere il momento in cui ricevere una sedazione definitiva che lo 
accompagni in perfetta e irreversibile incoscienza alla morte dell’organismo. Ma 
sono ancora più certo che la Chiesa gerarchica e i politici che ne sono succubi 
(quasi tutti, anche a “sinistra”) e gli atei devoti e i falsi liberali che 
imperversano nei media e il cui nome è Legione, troveranno mille cavilli per 
dire no.