di Stefano Iucci
Rassegna sindacale cgil del 25.1.2012
La riforma del 
mercato del lavoro, da sola, non crea occupazione. E ancora, non è la crescita a 
generare occupazione, ma esattamente il contrario: è la creazione di posti di 
lavoro a produrre crescita. Quello di Luciano Gallino, sociologo e intellettuale 
a tutto campo tra i più lucidi di questi anni, è un approccio spiazzante in 
un’epoca di grandi semplificazioni ideologiche. Perché è singolare come in uno 
dei momenti più difficili della storia dell’ultimo secolo – in cui la finanza si 
avvita sull’economia rischiando di bruciare in pochi mesi diritti, lavoro e 
progresso pazientemente costruiti in tanti anni –, mentre servirebbero analisi e 
interventi sempre più complessi e sofisticati, il dibattito proceda invece con i 
tempi e la superficialità degli spot pubblicitari. 
E allora sfilano uno dopo l’altro slogan scoppiettanti e accattivanti nella loro 
semplicità. E così basterà eliminare l’articolo 18, lanciare finalmente in 
Italia la flexicurity e liberalizzare il mercato del lavoro perché il paese si 
tiri fuori dalle secche in cui è finito tornando a creare sviluppo e lavoro. Ma 
stanno davvero così le cose? “Quello a cui assistiamo oggi è un approccio 
ideologico alle grandi questioni in gioco – dice Gallino a Rassegna –. Già 
trent’anni fa cominciarono gli attacchi alla presunta rigidità del mercato del 
lavoro e in particolare all’articolo 18. Ma personalmente non ho mai letto uno 
studio, una ricerca che provasse una relazione verificabile tra questa presunta 
rigidità e la crescita dell’occupazione”. 
Rassegna Cosa ci dicono i dati disponibili in proposito? 
Gallino Le tabelle stilate dall’Ocse mostrano molto chiaramente che a 
partire dal 1996 e fino al 2008 (ultimi dati disponibili, ndr) il rigore della 
protezione del lavoro è fortemente diminuito in Italia. Si è passati dall’indice 
molto alto del 1996, 3,57, all’1,89 del 2008, un dato molto più basso di 
Germania, Spagna e Francia. Riassumendo: non c’è nessuna “prova” del rapporto 
tra facilità di licenziare e crescita dell’occupazione e, in ogni caso, questa 
flessibilità in uscita è molto aumentata negli anni. Cosa si vuole, dunque, di 
più? 
Rassegna A cosa va imputato questo forte abbassamento di protezione 
negli anni? 
Gallino Si è iniziati ad andare in questa direzione con il Pacchetto 
Treu, ma poi, soprattutto, c’è stata la legge 30, con la quale i contratti 
precari si sono moltiplicati in maniera esponenziale, compromettendo così 
un’intera generazione di lavoratori. Gli occupati supeflessibili, infatti, non 
sono più giovani con la speranza di avere un lavoro stabile entro pochi anni, ma 
hanno ormai 40 anni e più.
Rassegna Questa situazione, potrebbe cambiare con il contratto unico…
Gallino Guardi, io questi tre anni di prova durante i quali il lavoratore 
può essere licenziato li trovo davvero singolari, direi fuori dal mondo. Nessuna 
impresa ha bisogno di tanto tempo per capire se una persona è adatta al lavoro 
che deve svolgere. Il periodo di prova può e deve essere molto breve: un operaio 
che costruisce macchine o un addetto alla ristorazione, tanto per fare qualche 
esempio, hanno bisogno di pochi giorni per imparare le mansioni che devono 
svolgere. 
Rassegna Ma una riforma del mercato del lavoro senza ideologie come 
andrebbe fatta, secondo lei? 
Gallino Non amo citarmi, ma per me restano valide le proposte lanciate in 
Il lavoro non è una merce. Occorre tornare a un solo tipo di contratto di lavoro 
a tempo indeterminato e orario pieno; rispetto a questa tipologia generale di 
riferimento si possono ipotizzare alcune deroghe: il contratto a tempo parziale, 
a tempo determinato e, quando sono davvero reali e non trucchi, le 
collaborazioni e le partite Iva. Questa riforma si può fare in due modi: la 
prima, ma mi pare molto difficile, abolendo la legge 30 e un pezzo del Pacchetto 
Treu (quello che si riferisce al lavoro in affitto); l’altra, che mi sembra più 
facilmente perseguibile, senza nessuna abolizione ma aggirando le disposizioni 
normative. 
Rassegna
Una semplificazione che sembra abbastanza discutibile è quella 
che affida al mercato del lavoro il “compito” di creare lavoro. Cosa ne pensa?
Gallino Sono d’accordo. Il mercato del lavoro serve casomai a far 
incontrare domanda e offerta. Più in profondità, credo che la sua funzione sia 
quella di porsi come principio guida importante per rendere “decenti” le 
condizioni di lavoro. Mi riferisco a quel decent work che non è concetto 
astratto o pittoresco, ma basato su standard misurabili e verificabili elaborati 
dall’Ilo e che riguardano: salario, sicurezza, ambiente, organizzazione del 
lavoro e così via. E certamente un universo occupazionale come il nostro, con 4 
milioni di precari, non rientra in questi parametri. In estrema sintesi, un 
mercato del lavoro che funzioni deve ridurre i lavori “indecenti” e moltiplicare 
quelli “decenti”. 
Rassegna E per creare lavoro? 
Gallino Va totalmente ribaltato un concetto che oggi va per la maggiore: 
non è la crescita a produrre occupazione, ma il contrario. Solo una diffusa 
occupazione genera crescita. Occorre dunque lavorare, con serie politiche 
industriali – magari di stampo keynesiano –, per la creazione diretta di posti 
di lavoro. Ma di queste politiche non mi pare oggi di scorgere alcuna traccia o 
presagio, neanche all’orizzonte. 
Rassegna Cosa ci insegna l’Europa su come coniugare crescita e lavoro?
Gallino Il paese più virtuoso, da questo punto di vista, è sicuramente la 
Germania. E uno dei motivi, secondo me, sta nel fatto che i sindacati sono molto 
forti, soprattutto nelle grandi aziende dove hanno il 50 per cento dei 
rappresentanti nei Consigli di sorveglianza. Non è un caso che in questo paese 
negli ultimi anni non si sia praticamente più licenziato. Basti ricordare gli 
accordi che flessibilizzano, in momenti di crisi, gli orari di lavoro, con la 
riduzione da 39 a 27 ore settimanali e con una perdita di salario di appena il 4 
per cento grazie agli interventi dell’azienda e dello Stato. L’accordo alla 
Siemens del 2010, per esempio, che blocca i licenziamenti in tutto il mondo 
(210.000 addetti) fino al 2013. Ecco, cose di questo genere vorrei vederle anche 
in Italia. 
Rassegna Ma è esportabile un modello di questo tipo in un 
paese, come il nostro, il cui tessuto produttivo è fatto essenzialmente di 
piccole e medie aziende? E poi anche la codeterminazione alla renana ha qualche 
zona d’ombra… 
Gallino Certo il modello ha i suoi limiti, qualche compromesso di troppo, 
però nel complesso funziona. Quanto alla dimensione delle imprese, quello che 
dice lei è vero. Ma le potrei rispondere che accordi di questo tipo in grandi 
aziende come Fiat e Finmeccanica avrebbero una ricaduta importante in tutta la 
catena dell’indotto legata ad appalti e subappalti. Detto questo, anche in 
Germania non tutto va per il meglio. Ci sono milioni di occupati poveri nei 
cosiddetti minijobs – i lavori da non più di 15 ore a settimana e non più di 500 
euro al mese – e ancora grandi divari retributivi (anche 30-40 per cento) tra 
est e ovest persino per le mansioni più elevate. Però nelle grande e medie 
aziende va abbastanza bene. E poi, rispetto al nostro paese, c’è la grande 
differenza degli investimenti in ricerca e sviluppo. Le do un solo dato: nel 
2011 la Volkswagen ha speso 20 miliardi di euro, la Fiat 1,9. 
Rassegna Oggetto di grandi peana è da noi anche la flexicurity alla 
danese. Cosa ne pensa? 
Gallino Guardi, sulla flexicurity ci sono grandi equivoci. Le statistiche 
danesi sono congegnate in modo tale da nascondere la disoccupazione reale. Non 
rientra tra i disoccupati chi, avendo perso un lavoro, viene inserito in corsi 
di formazione professionale o si trova a svolgere apprendistato in qualche 
centro per l’impiego: ma non è affatto detto che costui, successivamente, venga 
effettivamente reinserito nel mercato del lavoro e, quindi, di fatto, al momento 
è disoccupato. Anche i prepensionati “a forza” non rientrano in questo 
contingente. In tal modo la Danimarca ha dichiarato per il 2011 un tasso di 
disoccupazione del 5 per cento, ma stime attendibili ci dicono che il reale 
indice di disoccupazione sia addirittura del 15 per cento. E poi c’è un altro 
aspetto da tenere presente. L’estrema flessibilità del mercato del lavoro danese 
porta ogni anno il 30 per cento degli occupati a cambiare lavoro, anche 
spostandosi. Ma la Danimarca è piccola: pensi all’impatto che potrebbe avere in 
Italia se il 30 per cento degli occupati (cioè 6 milioni di persone) dovessero 
ogni anno spostarsi per una penisola lunga duemila chilometri. Sono tutti 
aspetti che, nel nostro dibattito fortemente orientato in senso ideologico, 
vengono completamente ignorati.