L'esperienza di fede non parte dalle dottrine

 

intervista a Vito Mancuso a cura di Giuliano Ligabue

 

 

Confronti” del novembre 2012

 

Professor Mancuso, attualmente lei sta dirigendo la collana teologica «Campo dei Fiori», con l’editore Fazi. Quali sono le ragioni che hanno motivato questa iniziativa e quali prospettive si preannunciano?

Le ragioni sono state quelle di fare in modo che il nostro Paese potesse avere una collana di ricerca teologica libera dalle pressioni ecclesiastiche e, così, abbiamo in un certo senso istituito la prima collana di libera ricerca teologica. Le prospettive? Dipende da come andrà il mercato. Direi, per quanto riguarda questi due primi anni di vita, che siamo molto contenti: la collana funziona, ha già i suoi fedeli lettori. Vedremo, quindi. Però quello su cui voglio insistere è il legare la dimensione

della laicità alla dimensione della teologia al di fuori anche del solo settore accademico, perché la biblioteca di teologia contemporanea della Queriniana è una biblioteca che esiste da decenni in

Italia come collana teologica ma non riesce – per una serie di motivi o perché non vuole – andare al di là dellambito accademico: i volumi sono molto ampi e costano molto. Noi invece, con questa collana, intendiamo raggiungere quello che si può genericamente definire grande pubblico e entrare anche nel mercato laico, non solo allinterno del circuito religioso tradizionale.

 

Da più parti – dalle chiese locali come dai gruppi cristiani e dalle comunità di base, dai circoli teologici – si levano voci che chiedono sempre più insistentemente profonde riforme nella Chiesa cattolica romana. Nello stesso tempo e sempre in più parti – al vertice come alla base – si stanno celebrando i cinquant’anni dallinizio del Vaticano II. Ma è questo, secondo lei, un tempo e un luogo in cui leredità del Concilio può diventare risposta alle tante voci di riforma?

Non sono io l’unico a dire come quel fuoco di speranza che cinquant’anni fa si è acceso, allinizio del Vaticano II, oggi se non è spento è lì lì per spegnersi. Questo è semplicemente un dato di fatto. Il Sinodo dei vescovi che si sta celebrando in questi giorni (dal 7 al 28 ottobre, ndr) – e non vorrei essere un profeta espressione di Giovanni XXIII – certamente non mi pare possa generare aperture. La realtà è che ci troviamo in una situazione contingente di estrema chiusura; soprattutto, quello che manca è la volontà di chiamare i problemi per nome, allinterno della gerarchia. In un certo senso – con la prospettiva di sempre per cui se i problemi della fede esistono è sempre colpa del mondo, è sempre colpa degli altri, ci quella prospettiva preconciliare che aveva governato la Chiesa sostanzialmente dal Concilio di Trento fino alla metà degli anni Sessanta e che ha trovato il suo vertice nel Sillabo di Pio IX – questa prospettiva, a partire dal pontificato di Giovanni Paolo II e ora da quello di Benedetto XVI, è tornata di estrema attualità. I problemi si dice che esistono, ma sono sempre colpa degli altri, del mondo che non capisce, del relativismo, della cultura secolarizzata: non si fa, invece, quel passo assolutamente decisivo per comprendere che, se in una relazione esistono dei problemi – e i problemi esistono nella relazione Chiesa/mondo – entrambi i soggetti non

possono non essere chiamati in causa.

 

Allinizio dello scorso giugno, i media trasmettevano la notizia di un Benedetto XVI che «ha aperto ai divorziati risposati». In realtà, mentre ha affermato che essi «sono nella Chiesa», il pontefice è tornato a ribadire la loro esclusione dallEucaristia. Come valuta la posizione del papa e quale ritiene possa essere una possibile soluzione al problema dei divorziati risposati?

Il papa, affermando che i divorziati risposati «sono nella Chiesa», non ha fatto nientaltro che ribadire quanto tutti sappiamo: nessuno li ha scomunicati. Il fatto che non possano accedere alla comunione non significa una «scomunica», un essere fuori dalla comunità: significa limporre loro uno status di non piena comunione, di non perfetta comunione; quindi è chiaro che sono nella Chiesa. La realtà è che la situazione è così critica che perfino questa dichiarazione, che non fa che manifestare un’evidenza, è parsa un’apertura quando, in realtà, un’apertura non c’è. Cosa dire se


 

non ribadire quanto già a suo tempo diceva Martini – fino allultima intervista – e ci che il problema dei divorziati risposati, e più in generale il problema dellamministrazione dei sacramenti, dovrebbe essere la prima delle questioni da affrontare e risolvere. Si tratta di passare dalla logica dellamministrazione dei sacramenti come forma di potere a una vera e propria forma di comunione e di incoraggiamento per la vita delle persone. In questa prospettiva, cambiando questa mentalità di intendere il sacramento e il rapporto Chiesa/sacramento, è del tutto evidente che viene a cadere il divieto di accedere al sacramento, per i divorziati risposati.

 

Vengo a un argomento più diretto e personale quale è il suo recente libro «Io e Dio». Lei vi afferma che prima ancora delle riserve sui contenuti dogmatici della dottrina cattolica – ha riserve sul

«modello di fede» proposto da quella dottrina. Ma esiste una compatibilità tra il modello di fede da lei tratteggiato e la tradizione cattolica?

La tradizione cattolica è una cosa che – per riprendere Aristotele quando parlava dell’essere che si dice in molti modi – esiste in vari modi: non esiste «l tradizione cattolica, ma vi sono diverse tradizioni. Ricordo il saggio di Yves Congar La tradizione e le tradizioni. È chiaro che secondo una determinata tradizione – quella che si è imposta alla dottrina cattolica a partire dal Concilio di Trento tra quella impostazione e la mia modalità di intendere la fede c’è poca o nulla assonanza. Se andiamo a guardare qual è la vera tradizione cattolica, cila tradizione degli inizi, delle origini, la tradizione biblica e anche la tradizione dei Padri della Chiesa, vediamo come la pluralità delle fonti è, fin dallinizio, indice di una vera e propria pluralità di approccio al messaggio cristiano. Quindi ciò che io sostengo, col fatto che la dialettica e la libertà critica devono essere fin dallinizio parti dello status dell’essere cattolico, è quanto mai connaturato con la stessa sorgente del cattolicesimo e del cristianesimo.

 

Rimanendo a «Io e Dio»: vi si dichiara lintenzione di voler riscrivere una teologia fondamentale, i fondamenti della fede, ci le condizioni del discorso su Dio. In questo contesto lei si presenta con una sperimentazione della fede da attribuirsi non tanto a voci autorevoli o alla Bibbia o al Gesù della storia o alla teologia, ma a testimonianze di fede, ci all’«aver conosciuto uomini

spirituali». P indicare alcuni o uno di questi uomini spirituali all’origine della sua esperienza di fede?

Penso che questa cosa valga per tutti. Non conosco nessuno che abbia avuto un’esperienza di fede a partire dai libri, a partire dalle dottrine e, se qualcuno lo dice, non si tratta di esperienza di fede come quella cui ci si riferisce nel Nuovo Testamento. È lo stesso papa Benedetto XVI a dire che

l’esperienza cristiana è basata sullincontro. Questo vale per tutti: per tutti i veri credenti, per tutte le persone che parlano della fede come di una dimensione concreta. Si parte da un’esperienza, si parte da un incontro. Detto questo, per quanto mi riguarda, il nome che mi sorge spontaneamente sulle labbra è quello del cardinal Martini. Non avevo nemmeno diciotto anni – ne avevo  diciassette – quando lo incontrai proprio qui a Roma nellatrio dell’Università Gregoriana insieme a moltissimi altri venuti da Milano con un treno speciale organizzato dalla diocesi per salutare, ancor prima che entrasse in diocesi, il nostro nuovo arcivescovo.

Da allora per me Martini e il suo ministero sono rimasti un punto imprescindibile: a partire dalla dimensione contemplativa della vita, che è stato il titolo della sua prima lettera pastorale, fino all’ultima intervista al Corriere della sera pubblicata allindomani della sua morte, l’1 settembre

2011.

 

Riguarda proprio il cardinal Martini, l’ultima domanda. Considerando che lei si definisce suo

«discepolo», come effettivamente è stato ed è, quale ritiene – tra gli insegnamenti di Martini

quello che maggiormente l’ha plasmato in modo ricco e armonioso?

È il metodo, il metodo di lettura della vita. Il cardinal Martini è stato innanzi tutto un grande critico testuale, un grande esegeta: quindi ha insegnato a leggere la Bibbia. Ma a partire dalla lettura della Bibbia, Martini, da arcivescovo di Milano, ha insegnato a leggere la realtà, a leggere la vita concreta. La «lectio divina» di Martini si è trasformata in un metodo con il quale affrontare la vita,


 

un metodo di lettura – direi quasi disincantata – del reale, un metodo di lettura analitica, fredda, e che al contempo è portatore di una speranza, di una dimensione performativa: io leggo la realtà, soprattutto la realtà del fenomeno umano, innanzi tutto per quello che è; in secondo luogo aggiungo alla realtà come si presenta una dose di speranza, suscitando nel fenomeno umano che leggo la volontà di reagire a questa speranza, di mettersi in gioco, di mettersi in cammino. Ecco, da questo incrocio tra volontà di lettura analitica e al contempo di immissione di speranza nasce quella capacità di leggere la realtà che ho appreso da Martini: dalla sua maniera di accostare le fabbriche, di affrontare il terrorismo, di accostare la dimensione degli extracomunitari, la dimensione del dialogo a tutto tondo con la società. Lui è riuscito effettivamente a praticare, e a insegnare a chi l’ha seguito, una «lectio divina» del reale.