NIENTE MODELLO TEDESCO
Antonio Lettieri
il manifesto 2012.04.07
Mario Monti 
aveva fatto della sostanziale abolizione dell'articolo 18 il banco di prova di 
un cambiamento di principio nel rapporto fra governo e sindacato. Un cambiamento 
che intaccava la fisionomia stessa di una democrazia pluralista. Si "ascolta", 
si dialoga, si consulta - come con qualsiasi interlocutore degno di un rapporto 
di cortesia - ma non si negoziano le soluzioni che il governo proporrà al vaglio 
e alle determinazioni finali del Parlamento. A questo cambiamento nello "stile" 
di governo, Monti teneva non meno che al contenuto stesso della riforma.
Il no della Cgil, la mobilitazione dei lavoratori e l'altolà del Pd hanno 
bloccato questa filosofia per molti versi reazionaria. Le forze sociali non sono 
una lobby. Per la rappresentatività che gli appartiene e per la consistenza 
degli interessi che rappresentano, i sindacati non possono essere messi al 
margine di un democratico processo politico. La marcia indietro imposta al 
governo è almeno da queto punto di vista un successo da non banalizzare. Ciò non 
toglie che il compromesso sul'articolo 18 rimane ambiguo e, come vedremo più 
avanti, rischia di essere fortemente lesivo dell'autonomia del giudice nella 
decisione relativa al possibile reintegro.
Vale la pena di ricordare che il progetto originario del governo non aveva 
inventato nulla, se non copiato l'ultima versione del modello spagnolo di 
riforma del lavoro. Mariano Rajoy, a capo del nuovo governo conservatore 
spagnolo, aveva fatto passare a metà febbraio, con un decreto legge, un 
provvedimento di piena liberalizzazione dei licenziamenti individuali per 
ragioni economiche, sanzionandone l'eventuale illegittimità con un indennizzo 
risarcitorio ulteriormente ridotto. Un giudice con le mani legate, al servizio 
della parte sociale più forte. 
Ma se la nuova versione della riforma Monti-Fornero scongiura l'americanismo del 
modello spagnolo, rimaniamo tuttavia lontani dal "modello tedesco", un modello 
più efficiente e più limpidamente protettivo delle ragioni del lavoratore o 
della lavoratrice ingiustamente licenziati. Quanto all'efficienza, è il giudice 
che, in Germania, nella prima fase del ricorso, opera un tentativo di 
conciliazione. Per la sua stessa autorevolezza, è messo in grado di acquisire 
tutti gli elementi di prova della legittimità del provvedimento, avvalendosi 
anche delle valutazioni del Consiglio di fabbrica (che rappresenta tutti i 
lavoratori, iscritti o no al sindacato), al quale il provvedimento dell'azienda 
e le sue motivazioni devono essere comunicate in via preventiva. 
Il momento della conciliazione sotto l'egida del giudice porta nella maggioranza 
dei casi a un accordo fra le parti o attraverso una revisione della posizione 
dell'azienda, o attraverso un compenso risarcitorio a favore del lavoratore. Se 
il tentativo di conciliazione esperito dal giudice in sede stragiudiziale si 
rivela improduttivo, si apre la fase giudiziaria in senso stretto. A questo 
punto lo scenario cambia. Rientrato nella sua su funzione giudicante, il giudice 
ha il compito specifico di verificare sulla base di tutte le circostanze 
acquisite se il licenziamento è legittimo o illegittimo. E se il licenziamento è 
giudicato illegittimo, per mancanza o insufficienza dei requisiti addotti come 
giustificazione, il giudice decreta puramente e semplicemente l'annullamento del 
provvedimento e, come logica conseguenza, il reintegro del lavoratore nella 
condizione antecedente al provvedimento.
Nella proposta del governo Monti la fase della conciliazione resa obbligatoria è 
prevista in una sede amministrativa, così come già esiste, senza peraltro aver 
dato risultati significativi rispetto alla soluzione del contenzioso. Una volta 
che l'obbligo del tentativo di conciliazione si sia concluso senza esito, la 
parola passa al giudice. Ma, secondo la riforma, il ruolo del giudice e le 
garanzie per il lavoratore sono rese meno trasparenti, più incerte e meno 
garantite dalla distinzione, per molti versi arbitraria, fra illegittimità per 
"manifesta insussistenza" e illegittimità in quanto tale.
Mettiamo il caso che il giudice non consideri "manifestamente insussistente" la 
motivazione addotta dall'impresa in ordine a una riorganizzazione in corso nel 
sistema produttivo che riduce una determinata tipologia di mansioni nel cui 
ambito è inquadrato il lavoratore licenziato. Ma, al tempo stesso, il giudice 
prende atto nel corso del dibattimento del fatto che il lavoratore può essere 
ricollocato in una diversa mansione o trasferito in un'altra unità produttiva 
senza pregiudizio per l'economia dell'organizzazione. Sulla base di tale fondato 
argomento, il giudice sentenzia l'illegittimità del provvedimento per mancanza 
di una giustificata motivazione; ma, non ricorrendo la "manifesta insussistenza" 
del motivo addotto dall'impresa che fa riferimento a un processo organizzativo 
effettivamente in corso, non potrà reintegrare il lavoratore, dovendo limitarsi 
a un risarcimento sostituivo.
Può essere che i giuristi del lavoro si eserciteranno nello stabilire i confini 
interpretativi di questa distinzione arbitraria. Ma è un modo confuso e 
fraudolento di regolare un aspetto essenziale del rapporto di lavoro e della 
giusta protezione che spetta al lavoratore o alla lavoratrice di fronte a un 
atto giudicato illegittimo, il cui annullamento dovrebbe ripristinare come 
logica conseguenza lo stato antecedente. Tanto più che la lesione sanzionata 
dalla pronuncia di illegittimità incide profondamente nella condizione della 
persona che è rimasta vittima di un'azione riconosciuta illegittima.
Fin qui la questione dell'articolo 18. Ma la riforma del mercato del lavoro dei 
"Professori" presenta molti altri punti che non innovano, se non marginalmente, 
nelle questioni della precarietà, lasciando in vita un numero insensato di 
modelli contrattuali di ingresso. Dall'altro, andando verso una riforma degli 
ammortizzatori che, in nome di una malintesa unificazione, stabilisce garanzie 
del reddito per chi ne rimane privo che sono palesemente al di sotto degli 
standard europei. Ma questo è un altro discorso, non meno rilevante di quello 
sull'articolo 18, sul quale i sindacati dovranno tornare con la massima 
attenzione e la necessaria mobilitazione nel corso del dibattito parlamentare.