Economia Democratica
Fiscal compact: parti uguali tra diseguali
di Domenico Gallo]*
* Consigliere della Corte di Cassazione
adista documenti n° 1 del 12.1.2013
Il 2 marzo 
2012, in occasione del Consiglio europeo di primavera tenutosi a Bruxelles, è 
stato sottoscritto il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla 
governance nell’Unione economica e monetaria, ovvero il cosiddetto Fiscal 
compact o Patto di bilancio. I firmatari sono stati 25 tra i 27 Stati membri 
dell’Unione Europea. Non hanno sottoscritto il trattato il Regno Unito e la 
Repubblica Ceca.
Il Fiscal compact contiene una serie di regole vincolanti nell’Ue intese a 
rafforzare il pilastro economico dell’unione economica e monetaria attraverso un 
Patto di bilancio, a potenziare il coordinamento delle politiche economiche e a 
migliorare la governance della zona euro. È entrato in vigore il primo gennaio 
2013 giacché 12 dei 17 Paesi della zona euro lo hanno ratificato. 
I principali punti contenuti nei 16 articoli del Trattato sono: l’impegno ad 
avere un deficit pubblico strutturale che non deve superare lo 0,5% del Pil e, 
per i Paesi il cui debito pubblico è inferiore al 60% del Pil, l’1%; dal 2014 
l’obbligo per i Paesi con un debito pubblico superiore al 60% del Pil, di 
rientrare entro tale soglia nel giro di 20 anni, a un ritmo pari a un ventesimo 
dell’eccedenza in ciascuna annualità; l’obbligo per ogni Stato di garantire 
correzioni automatiche con scadenze determinate quando non sia in grado di 
raggiungere altrimenti gli obiettivi di bilancio concordati; l’impegno – che 
verrà verificato dalla Corte europea di giustizia – a inserire le nuove regole 
in norme di tipo costituzionale o comunque nella legislazione nazionale entro il 
primo gennaio 2014; l’obbligo di mantenere il deficit pubblico sempre al di 
sotto del 3% del Pil, come previsto dal Patto di stabilità e crescita (in caso 
contrario scatteranno sanzioni semi-automatiche); l’impegno a tenere almeno due 
vertici all’anno dei 17 leader dei Paesi che adottano l’euro.
In Italia, il Fiscal compact è stato promulgato dal presidente della Repubblica, 
dopo l’approvazione delle Camere, il 23 luglio 2012. Si tratta di indicazioni in 
larga parte irrealizzabili che se solo messe parzialmente in atto produrrebbero 
– ad esempio per l’Italia – manovre da 40-50 miliardi l’anno con effetti 
recessivi pesantissimi per l’economia.
In sostanza il Fiscal compact è un accordo fra i Paesi membri dell’Unione 
europea (esclusi due) per orientare le politiche di bilancio in modo convergente 
verso l’obiettivo di un equilibrio stabile di bilancio e di una sostanziosa 
riduzione del debito sovrano. I vincoli imposti dal Trattato sono pesantissimi 
per i Paesi che hanno un debito pubblico superiore al 60% del Pil, essendo 
previsto un percorso obbligatorio di riduzione del deficit di 1/20 all’anno. Il 
rispetto di tali vincoli è sottoposto ad una rigorosa azione di sorveglianza e 
di verifica da parte del Consiglio e della Commissione Europea.
L’Italia, avendo un debito pubblico che si aggira intorno ai 2.000 miliardi di 
euro, pari ad oltre il 120% del Pil, dovrà adottare delle manovre finanziarie 
che entro venti anni portino ad una riduzione del 60% del debito, cioè dovrà 
ridurre il debito pubblico del 3% ogni anno per venti anni consecutivi. Ciò 
comporta, oltre all’obbligo del pareggio del bilancio, l’obbligo di realizzare 
un avanzo primario che consenta di pagare 100 miliardi di interessi all’anno 
(prendendo a base un tasso d’interesse del 5%) e circa 40/50 miliardi per la 
riduzione del debito. In una situazione di depressione del ciclo economico 
queste misure sono insostenibili.
Spetterà agli economisti valutarne l’impatto e sviluppare le critiche più 
pertinenti. Quello che vogliamo evidenziare è l’insostenibilità giuridica del 
Fiscal compact. Il fondamento di questo Trattato, la sua ragione di essere, è la 
necessità di assicurare la convergenza delle politiche di bilancio per 
rafforzare il pilastro economico dell’Unione Europea, rendendo più solida la 
moneta comune, attraverso una convergente riduzione del debito sovrano. Senonché 
il Trattato fallisce platealmente il suo obiettivo (quello di rafforzare il 
pilastro economico dell’Unione), perché affronta soltanto una delle facce del 
problema.
Il Trattato impone obblighi pesantissimi per alcuni Stati (e molto più leggeri 
per altri) sostanzialmente espropriandoli della sovranità sul proprio bilancio, 
senza che, a fronte di questi obblighi, corrisponda alcun intervento di sostegno 
da parte dell’Unione. Insomma è un trattato in cui all’assunzione di una serie 
gravissima di doveri non corrisponde nessun diritto.
Per essere più chiari, gli Stati europei “deboli”, con maggiori problemi di 
sostenibilità finanziaria del debito pubblico, si impegnano verso gli altri 
Stati Europei, ad effettuare per 20 anni, drastiche manovre di riduzione del 
bilancio, che – in ipotesi – possono risultare utili al consolidamento 
dell’euro, senza che l’Europa muova un dito per rendere sostenibile questo 
percorso.
Insomma ogni Stato si impegna verso gli altri Stati a ridurre il “suo” debito 
sovrano, ma di tale debito deve sopportare tutto il peso, che viene 
quotidianamente accresciuto dalla “fuga” dei capitali verso gli Stati più 
virtuosi, come la Germania. Se il problema dell’eccessivo debito dei singoli 
Stati dell’Unione è un problema dell’Unione, della solidità del suo pilastro 
economico, allora la riduzione del debito è un problema comune e non può essere 
scaricato sulle spalle del singolo Stato in difficoltà.
Lungi dal rafforzare il pilastro economico, il Fiscal compact crea le premesse 
per una crescente divisione dell’Europa sotto il profilo dello sviluppo 
economico sociale. È un Trattato ineguale in quanto impone obblighi ineguali. 
Una cosa è, infatti, l’obbligo di realizzare il pareggio del bilancio pagando un 
servizio sul debito inferiore al 2% (come avviene per la Germania), altra cosa è 
realizzare il pareggio del bilancio, pagando un servizio sul debito da tre a 10 
volte superiore a quello pagato dai Paesi più virtuosi;  come una cosa è fare un 
percorso di rientro dal debito dell’0,05% all’anno, e un’altra è imporre un 
percorso di rientro del 3% o più all’anno.
Se l’Europa vuole imporre una rigorosa disciplina di bilancio agli Stati membri, 
allora deve garantire dei meccanismi di riequilibrio per rendere questa 
disciplina sostenibile e per evitare che si creino o si accrescano ulteriormente 
delle fratture sul piano della sviluppo economico sociale. Una disciplina comune 
(e rigorosa) di bilancio, presuppone che il debito sovrano debba essere 
affrontato con strumenti comuni. Le tempeste speculative che si abbattono sui 
Paesi più “deboli” della zona Euro possono essere regolate attraverso 
l’intervento della Banca centrale europea (Bce), a cui deve essere consentito di 
intervenire sui mercati finanziari, esattamente come interviene la Federal 
reserve (la banca centrale Usa) e la Banca centrale d’Inghilterra, per 
contrastare i movimenti speculativi e spingere verso il basso i tassi 
d’interesse.
Le obbligazioni contenute nel Fiscal compact presuppongono che il debito sovrano 
sia considerato una questione comune ai Paesi dell’Unione e come tale trattato. 
Presuppongono, se non la “comunitarizzazione” dei debiti sovrani dei singoli 
Stati, quanto meno che il debito sovrano di ciascuno Stato europeo sia garantito 
dall’Europa e dalla sua Banca centrale. Presuppongono un intervento “tecnico” 
della Bce per rendere tendenzialmente omogenei i tassi d’interesse gravanti sul 
debito sovrano dei singoli Stati.
Solo tali garanzie potrebbero rendere economicamente sostenibile una convergenza 
delle politiche di bilancio del tipo di quella disegnata dal Fiscal compact e 
giuridicamente sostenibile l’obbligazione a rinunziare alla sovranità sulle 
politiche di bilancio, che non può essere abbandonata in cambio del nulla. È 
quindi necessario mantenere e sviluppare una forte critica pubblica, senza 
arrendersi al fatto compiuto, ed evidenziare l’insostenibilità, anche giuridica, 
oltre che economica, politica e sociale, del Fiscal compact, non per gusto della 
recriminazione, ma per tenere aperta la porta verso altri sbocchi, verso 
soluzioni più razionali ed umane.