Labate dimenticato, due chiacchiere con dom Giovanni Franzoni

 

intervista a Giovanni Franzoni a cura di Giovanni Panettiere

 

Pacem in terris” (Quotidiano.net) del 7 gennaio 2013

 

Franzoni, ma allora è vivo?

«Certo, ci mancherebbe altro».

Non se la prenda, è solo che per i cinquant'anni del Vaticano II il papa ha celebrato messa con i padri conciliari ancora in vita e lei non c'era.

«Non mi hanno neanche invitato, in Vaticano si sono dimenticati di me che tra gli italiani ero il più giovane membro del Concilio. Addirittura il vaticanista di Rai 1, durante la diretta tv della messa, ha detto che i padri del nostro paese ancora in salute sono tre: Luigi Bettazzi, il cardinale Giovanni Canestri e un altro di cui non si ricordava il nome. Anche in televisione mi censurano».

La voce è solenne come quando, da abate della basilica romana di San Paolo fuori le mura, lanciava omelie di fuoco a favore della Chiesa dei poveri e contro il capitalismo. Solo la vista l'ha abbandonato. A mezzo secolo dall'apertura del Concilio, che l'ha avuto tra i protagonisti, dom Giovanni Franzoni, classe 1928, per la Chiesa cattolica è un fantasma di cui si dimentica volentieri

il nome. Ridotto allo stato laicale a causa del suo sostegno al Pci (1976), col tempo è diventato una presenza sempre più ingombrante. Come se non avesse mai scritto La terra è di Dio (1973), una delle lettere pastorali più profetiche degli ultimi decenni. Persino vescovi e preti decisamente conservatori, lontano da taccuini e occhi indiscreti, riconoscono il valore di quello che resta un affresco impietoso sui limiti della proprietà privata e sulle compromissioni dell'establishment ecclesiastico con la speculazione edilizia nella Capitale.

 

Passano i decenni, ma evidentemente in Vaticano non le perdonano le scelte del passato. Franzoni, lei che ha fatto parte della Gerarchia, ha ancora qualche rapporto con l'autorità ecclesiale?

«Ci sono contatti sporadici sin dai tempi di monsignor Clemente Riva, allora vescovo ausiliare di Roma sud che, dopo i provvedimenti ai miei danni, mi diede la possibilità di continuare a dire messa e dare la Comunione nella comunità di base di San Paolo fuori le mura nella Capitale».

 

E ora?

«Il vicariato di Roma ha incaricato il vescovo ausiliare, monsignor Guerino Di Tora, di tenere i contatti con la cdb. Finora da lui ho ricevuto solo risposte sabbiose. Per giunta non è mai venuto a far visita alla comunità a differenza di Riva».

 

È vero che la Santa sede l'ha contattata recentemente per avere un suo parere sulla vertenza dei lefebvriani?

«Sì, e a loro ho espresso la mia approvazione per il tentativo del papa di ricucire con la destra cristiana. Già quando i vescovi della Fraternità di San Pio X vennero scomunicati (1988) espressi il mio disappunto. In Concilio una minoranza cercò di far passare nei documenti finali la scomunica dei comunisti. Per fortuna non se ne fece nulla. Come disse il cardinale Sergio Pignedoli, 'per la Chiesa non è più tempo di scomuniche'».

 

Ma non trova che Benedetto XVI sprechi tantissime energie per recuperare i lefebvriani e, di contro, escluda il dialogo con quella parte del popolo di Dio che invoca riforme, per così dire,

'più di sinistra' come il sacerdozio femminile o l'abolizione dell'obbligo di celibato per i chierici?

«Senz'altro, questo squilibrio esiste, va denunciato e superato. Occorre ascoltare tutte le richieste, non solo quelle d una parte della cristianità».

Da protagonista del Vaticano II quale è il suo ricordo più bello dell'ultima assemblea episcopale della Chiesa cattolica?

«Ne ho tanti, ma penso soprattutto alla preghiera ecumenica nella basilica di San Paolo fuori le Mura, dove allora ero abate. Ricordo con piacere la preghiera del patriarca di Costantinopoli, Atenagora, e il pranzo con tutti gli osservatori ecumenici: tutti i fedeli in Cristo seduti allo stesso tavolo».

Il Concilio compie cinquant'anni. Quale è il suo bilancio?

«Purtroppo molte riforme dell'assemblea hanno trovato una scarsa attuazione. A partire dal principio di collegialità dei vescovi nel governo della Chiesa universale. Basti guardare ai lavori del recente sinodo sulla nuova evangelizzazione. In quel contesto non è mancato un confronto interno tra i pastori, per certi versi anche interessante, ma dal momento che la struttura sinodale è meramente consultiva, anche stavolta sarà solo il pontefice a tracciare la sintesi dei lavori in un documento vincolante quale l'esortazione apostolica postsinodale. Anche Il dibattito intraecclesiale langue, sia tra teologi e vertice della Chiesa che tra laici e preti. Non solo spesso mancano le sedi opportune, il più delle volte lo stesso confronto viene frustrato dall'alto, come denunciano Hans Kung e Tissa Balasuriya».

 

A portare a termine il Concilio è stato Paolo VI, il papa che ha provveduto a ridurla allo stato laicale. Eppure lei ha sempre difeso Giovanni Battista Montini.

«Ha commesso senz'altro degli errori come l'aver riservato a sé, togliendolo dal dibattito conciliare, il tema del controllo delle nascite o l'aver impedito che in assemblea si discutesse del celibato obbligatorio dei preti di rito latino. Detto questo, non posso dimenticare che dopo l'enciclica Populorum progressio (1969) la Chiesa ha rafforzato il suo impegno a favore della pace e della giustizia sociale. Ma Paolo VI ha anche compiuto un gesto straordinario».

 

Quale?

«Era il 13 novembre del 1964, quarta sessione del Vaticano II, alla fine della liturgia nella basilica di San Pietro il papa, si al dal trono, si tolse la tiara dal capo e la pose sulle ginocchia di Maximos IV, patriarca di Antiochia dei melchiti che aveva lanciato un appello per uno sforzo maggiore della Chiesa a fianco dei poveri. Con quel gesto Montini ha fatto sì che il papato si spogliasse del potere per aprirsi a una prospettiva di servizio. Non va dimenticato che il triregno era il simbolo del potere spirituale, sugli imperatori e sulle realtà celesti del pontefice. Dopo Paolo VI nessun papa l'ha più indossato».

 

Franzoni, adesso lei è laico come Gesù Cristo. Le farebbe piacere se fosse revocata la riduzione allo stato laicale ai suoi danni?

«Certo, sarebbe possibile, ma non mi interessa. Va rivisto tutto il ministero sacerdotale. Gesù non ha sostituito la casta sacerdotale ebraica con un'altra. E nel Nuovo testamento non compare mai la dizione di sacerdote, semmai quella di presbitero. Poi bisognerebbe aprire una profonda riflessione sull'acceso delle donne ai ministeri. Nelle lettere di Plinio a Traiano si parla esplicitamente di ministre cristiane, anche Paolo scrive di comunità guidate da donne (Lettera ai Romani)».