INNOCENTE, CODARDO O COMPLICE?
PROSEGUE IL DIBATTITO SUL PASSATO DI BERGOGLIO

 

ADISTA n° 12 del 30.3.2013

 

Claudia Fanti

 

37090. CITTÀ DEL VATICANO-ADISTA. La polemica sul ruolo giocato da Jorge Mario Bergoglio, allora provinciale dei gesuiti, durante il regime militare in Argentina non si è placata – né era prevedibile che lo fosse – con le dichiarazioni del portavoce della Sala Stampa p. Federico Lombardi sulla «nota ed evidente» matrice «anticlericale» della campagna contro il nuovo papa (v. Adista n. 11/13). Evidenziando, il 15 marzo, come non esista alcuna «accusa concreta credibile nei suoi confronti» e come vi siano «invece moltissime dichiarazioni che dimostrano quanto Bergoglio fece per proteggere molte persone» durante la dittatura militare, Lombardi ha citato anche il Premio Nobel per la pace Pérez Esquivel, il quale ha negato che Bergoglio avesse vincoli con il regime militare. Anche se poi, sul suo sito, il Premio Nobel, che il 21 marzo è stato ricevuto in udienza dal papa, ha scritto che all’allora provinciale dei gesuiti «mancò il coraggio di accompagnare la nostra lotta nei momenti più difficili», senza contare che nel 2005, in un’intervista trasmessa dal canale televisivo argentino 678, Pérez Esquivel affermava che «l’atteggiamento di Bergoglio si inscrive all’interno di queste politiche, secondo cui tutti quelli che lavoravano in campo sociale, con i settori più poveri e più bisognosi, erano comunisti sovversivi e terroristi» (www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=alTbb6foF_M).
Nella sua difesa di papa Bergoglio, p. Lombardi ha fatto anche riferimento alle dichiarazioni di p. Franz Jalics – uno dei due gesuiti del cui sequestro, secondo gli accusatori del papa, l’allora provinciale sarebbe responsabile – il quale, in una dichiarazione affidata il 15 marzo al sito dei gesuiti tedeschi jesuiten.org, si era detto «riconciliato con quegli eventi», ritenendo «conclusa» la vicenda. «Non posso prendere alcuna posizione rispetto al ruolo di Bergoglio», aveva aggiunto Jalics, ricordando come, anni dopo, avesse celebrato pubblicamente una messa insieme a lui e scambiato «solennemente un abbraccio». E se questa prima dichiarazione non sembrava in realtà scagionare del tutto Bergoglio, dal momento che Jalics si limitava a dire di non poter prendere posizione al riguardo (tanto più che il riferimento alla riconciliazione presupponeva, evidentemente, l’esistenza di un problema anteriore, senza il quale non avrebbe avuto senso riconciliarsi), una seconda dichiarazione del 20 marzo sembra archiviare definitivamente la questione di una responsabilità dell’allora provinciale nel sequestro dei due sacerdoti: in essa Jalics spiega di aver creduto fino alla fine degli anni ’90 che il suo sequestro fosse il risultato di una denuncia, ma che poi, dopo aver parlato con diverse persone, era arrivato alla conclusione che si trattava di una supposizione infondata. Il provinciale – scrive Jalics – «non denunciò né me né Orlando Yorio»; «è un errore affermare che la nostra cattura avvenne per iniziativa di padre Bergoglio».

Innocente o colpevole?
Del sequestro suo e di Orlando Yorio, in realtà, Jalics aveva parlato nel suo libro Ejercicios de meditación, pubblicato nel 1995, sottolineando come molte persone con «convinzioni politiche di estrema destra» vedessero «con cattivi occhi» la loro presenza nelle baraccopoli. «Interpretavano il fatto che vivevamo lì come un appoggio alla guerriglia e si proposero di denunciarci come terroristi. Noi sapevamo (…) chi era responsabile di queste calunnie. Cosicché andai a parlare con la persona in questione e le spiegai che stava giocando con le nostre vite. L’uomo mi promise che avrebbe fatto sapere ai militari che non eravamo terroristi. Dalle dichiarazioni successive di un officiale e da trenta documenti a cui ho potuto avere accesso più tardi abbiamo potuto comprovare senza margini di dubbio che quest’uomo non aveva mantenuto la promessa, ma che, al contrario, aveva presentato una falsa denuncia ai militari». Nel suo libro Jalics racconta anche di aver bruciato nel 1980 tutti i documenti relativi ai suoi persecutori, che fino allora aveva conservato pensando di utilizzarli: «Da allora – scrive – mi sento veramente libero e posso dire di aver perdonato con tutto il cuore». L’identità della «persona» di cui Jalics non fa il nome viene svelata in una lettera – resa nota dal principale accusatore di Bergoglio, il giornalista Horacio Verbitsky (il quale ribatte all’ultima dichiarazione di Jalics in un dettagliato articolo su Página 12 del 21/3, dal titolo “Passato calpestato”, riferendo anche il contenuto di telefonate intercorse con il sacerdote; www.pagina12.com.ar/diario/elpais/1-216255-2013-03-21.html) – inviata da Yorio, nel novembre del 1977, all’assistente generale della Compagnia di Gesù, p. Moura, in cui riferisce proprio il fatto che Jalics aveva parlato due volte con il provinciale, e che Bergoglio si era «impegnato a frenare le voci all’interno della Compagnia e a parlare con gente delle Forze armate per testimoniare la nostra innocenza», ma poi aveva fatto tutt’altro, andando in giro a dire che i due sacerdoti appartenevano alla guerriglia. Voci che riappaiono in quello che Verbitsky ritiene il documento decisivo rispetto alle responsabilità dell’allora provinciale, relativo alla richiesta di rinnovo del passaporto di Jalics (il quale, dopo la sua liberazione, si era recato in Germania), richiesta presentata dallo stesso Bergoglio ai funzionari del Culto del Ministero degli Esteri. Si tratta di una nota firmata dal direttore del Culto Anselmo Orcoyen (riportata da Verbitsky nei suoi libri El Silencio e Doble juego), in cui si legge che Jalics, a cui potevano essere imputati «conflitti di obbedienza» e «attività di disgregazione nelle congregazioni religiose femminili», era stato «detenuto» alla Esma per sei mesi, accusato con p. Yorio di sospetti contatti guerriglieri e che i due «vivevano in una piccola comunità che il superiore gesuita aveva dissolto nel febbraio del 1976», che si erano rifiutati «di obbedire sollecitando l’uscita dalla Compagnia il 19 marzo» e che «nessun vescovo del Gran Buenos Aires li aveva voluti ricevere». Per concludere con un significativo «Nota Bene»: «Questi dati sono stati forniti al signor Orcoyen dallo stesso padre Bergoglio», con «speciale raccomandazione a non dar luogo alla richiesta». Una prova, quella fornita da Verbitsky, a cui Bergoglio ha reagito spiegando di aver risposto, al funzionario che lo interrogava sulle circostanze che avevano determinato la partenza del sacerdote, che Jalics e Yorio «erano stati accusati di essere guerriglieri», ma che «non avevano nulla a che vedere con questo». Precisazione che il funzionario avrebbe omesso di riportare.
«Coinvolgere il direttore del Culto cattolico della dittatura in una cospirazione contro la Chiesa sarebbe troppo», commenta Verbitsky su Página 12 del 17 marzo. Ma «è logico – aggiunge – che questo fatto del 1979 non sia sufficiente per una condanna legale relativamente al sequestro del 1976. Il documento firmato da Orcoyen non è neppure stato incorporato al fascicolo processuale, ma delinea una linea di condotta». Linea di condotta che emergerebbe anche da «un documento di un servizio di intelligence» reperito da Verbitsky, secondo quanto da lui riferito a Il fatto quotidiano del 15/3, nell’archivio della Cancelleria, dove si legge che «nonostante la buona volontà di padre Bergoglio, la Compagnia in Argentina non si è ripulita. I gesuiti di sinistra, dopo un breve periodo, con grande appoggio dell’estero e di certi vescovi terzomondisti, hanno intrapreso subito una nuova fase» (si tratta della Nota-Culto, cassa 9, bibliorato b2b, Arcivescovado di Buenos Aires, documento 9).
A definire «totalmente falsa» l’accusa che Jorge Bergoglio abbia tradito i suoi sacerdoti è invece Germán Castelli, uno dei tre giudici del processo Esma, nell’ambito del quale Bergoglio fu ascoltato nella sede dell'arcivescovado di Buenos Aires come persona informata sui fatti quando era già arcivescovo della capitale: «Abbiamo analizzato la vicenda, ascoltato quella versione, verificato i dati e siamo giunti alla conclusione che il suo comportamento non aveva alcun rilievo giudiziario, altrimenti avremmo dovuto denunciarlo».
E lo stesso ha affermato il presidente della Corte Suprema di Giustizia argentina, Ricardo Lorenzetti, secondo cui «al di là del fatto che ci sia gente che non è d’accordo, o che dice che potrebbe aver fatto una cosa o l’altra, è certo che non esiste alcuna accusa concreta» contro l’ex cardinale.
In difesa di Bergoglio si è anche schierata, tra gli altri, la sua amica e avvocata del Cels (Centro de Estudios Legales Sociales) Alicia Oliveira, secondo cui, quando i due gesuiti vennero catturati, «Jorge verificò che li teneva la Marina e andò a parlare con Massera, al quale disse che, se i sacerdoti non fossero stati rilasciati, lui come provinciale avrebbe denunciato quanto avvenuto. Il giorno successivo vennero rimessi in libertà».
In ogni caso, come ha rivelato il Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung il 17 marzo e rilanciato la Repubblica il giorno successivo, Bergoglio scrisse alla famiglia di Jalics promettendo di fare di tutto per liberarlo: «Ho preso molte iniziative per arrivare alla liberazione di vostro fratello – scrive il 15/10/76 –, finora non abbiamo avuto successo, ma non ho perso la speranza che suo fratello verrà presto rilasciato. Ho deciso che la questione è mio compito». E aggiunge: «Le difficoltà che suo fratello e io abbiamo avuto tra di noi sulla vita religiosa non hanno nulla a che fare con la situazione attuale». Jalics «è per me un fratello».

Una nube nera
Ma vi sono anche altre accuse rispetto al comportamento di Bergoglio negli anni del regime militare, a cominciare da quella di aver mentito quando, durante il processo Esma, dichiarò di aver saputo della lotta delle Nonne per ritrovare i loro nipoti desaparecidos solo nel 1985, dopo la fine della dittatura. Secondo quanto riferito da Estela de la Cuadra, la cui sorella Elena era stata sequestrata mentre era incinta di 5 mesi (e rilanciato da Página 12 del 15/3 e da il manifesto del 19/3), una sua parente che era in Italia aveva incontrato il generale della Compagnia Pedro Arrupe, il quale si era impegnato a far presente il problema al provinciale argentino. Ed è così che Bergoglio, il 28 ottobre del 1977, aveva ricevuto il padre di Elena, Roberto Luis de la Cuadra, e aveva scritto per lui una nota al vescovo ausiliare di La Plata, Mario Picchi: «Ho avuto un colloquio su speciale richiesta di p. Arrupe», spiegava a Picchi. «Lui le spiegherà di cosa si tratta e la ringrazio per tutto ciò che potrà fare». E Picchi aveva verificato, tramite il vice capo della Polizia di Buenos Aires, il colonnello Reynaldo Tabernero, che la bambina di Elena era stata affidata a un’altra famiglia, e non c’era «modo di tornare indietro». «Con la sua lettera – ha commentato Estela de la Cuadra al manifesto – Bergoglio dimostrò di sapere che cosa stava accadendo e a chi bisognava rivolgersi per avere informazioni certe». E ha concluso: «Durante la dittatura Jorge Mario Bergoglio fu un codardo».
Citato come testimone nel processo sul piano sistematico di sottrazione dei bambini proprio su richiesta di Estela de la Cuadra, Bergoglio ha scelto di rispondere per iscritto, usufruendo di un privilegio accordato agli alti dignitari ecclesiastici. E ha detto di non ricordare i dettagli della conversazione con suo padre, né che lui gli avesse riferito che sua figlia era incinta, né di aver saputo dei colloqui tenuti da mons. Picchi, ammettendo inoltre di non aver fatto nulla per aiutare la famiglia De la Cuadra. Non sorprende dunque che di «nube nera» sulla figura del nuovo papa parli Estela Carlotto, presidente delle Nonne di Piazza di Maggio, la quale definisce Bergoglio come rappresentante di una Chiesa «che non ha mosso un solo passo per collaborare con la verità, la memoria e la giustizia». 
Ma la lista dei rilievi mossi al gesuita non finisce qui. Bergoglio – si sottolinea – faceva parte della direzione dell’Università del Salvador (Usal) quando, il 25/11/77, la Usal concesse a Emilio Eduardo Massera la laurea honoris causa durante una cerimonia pubblica, un mese dopo che Yorio e Jalics erano stati trovati drogati e seminudi in un campo di Cañuelas.
E l’ex gesuita Mom Debussy, che all’epoca guidava l’auto di Bergoglio, ha riferito – secondo quanto riportato da Verbitsky su Página 12 il 2 maggio 2010 – come, durante i viaggi in macchina, il provinciale gli parlasse «varie volte» dei suoi incontri con Massera e del progetto politico di quest’ultimo. Nello stesso articolo, Verbitsky riportava anche la testimonianza del medico, oggi residente in Francia, Lorenzo Riquelme, all’epoca militante della Gioventù Peronista, secondo cui i militari, che lo cercavano per catturarlo, avevano costretto a parlare la sua fidanzata, che lavorava all’Osservatorio di Fisica Cosmica di San Miguel, all’interno del Collegio Massimo dove si trovava la sede principale della Compagnia di Gesù e dove viveva Bergoglio. All’operazione aveva partecipato un sacerdote che, con l’autorizzazione del provinciale, svolgeva la funzione di cappellano militare alla Scuola di sottufficiali General Lemos, nella vicina base militare di Campo de Mayo. Si chiamava Martín González e in quell’operazione aveva giocato il ruolo del “poliziotto buono”: «È meglio che parli, altrimenti non posso fare nulla per te», aveva detto alla donna. Impossibile, a giudizio di Riquelme, che ciò potesse avvenire all’insaputa di Bergoglio, il quale «esercitava un controllo assoluto su tutto ciò che avveniva nella sua sede».
In difesa del nuovo papa scende in campo invece l’Associazione 24 marzo, che ha spesso assunto la veste di accusatore, in tribunale, dei militari argentini. Secondo il suo presidente, Jorge Ithurburu, «Bergoglio all’epoca non era neanche vescovo e di sue responsabilità individuali non c’è traccia». Quanto al caso di Yorio e Jalics, «è evidente che l’episodio può essere letto in due modi: i capi dei due gesuiti sono responsabili di averli lasciati soli, o gli stessi capi sono intervenuti per ottenerne la liberazione. Propenderei per la seconda ipotesi: l’Esma non liberava nessuno per caso». E a difendere il nuovo papa scende in campo anche p. Miguel La Civita – testimone al processo per l’assassinio dei sacerdoti Carlos Murias e Gabriel Longueville (La Voz, 14/3) – secondo il quale Bergoglio «aiutò molte persone ad uscire dal Paese, in un momento in cui c’era tanta gente desaparecida». «Ho visto personalmente – ha aggiunto – come nel Collegio Massimo si nascondesse gente per preparare la documentazione e tutto il necessario per lasciare il Paese».
«Che Bergoglio abbia aiutato altri perseguitati – ribatte Verbitsky il 17/3 – non è una contraddizione: lo stesso fecero Pio Laghi e persino Adolfo Tortolo e Victorio Bonamín» (esponenti ecclesiastici di cui è incontrovertibile la complicità con il regime).

Due pesi e due misure
Le critiche a Bergoglio, e più in generale all’episcopato argentino, non si limitano però agli anni della dittatura. In discussione, in particolare, è la lettura che di quel periodo storico, e in particolare delle responsabilità della Chiesa, è stata condotta dai vescovi argentini dopo il ritorno alla democrazia. Non è un caso che il libro Iglesia y democrazia en la Argentina, pubblicato nel 2006 dalla Conferenza episcopale presieduta da Bergoglio (che ne è stato presidente dal 2005 al 2011) abbia rimosso – secondo quanto dimostrato da Verbitsky su Página 12 dell’11/4/10 (con la riproduzione del facsimile del documento in questione) – passaggi compromettenti come quello in cui, durante la riunione della Commissione esecutiva della Conferenza episcopale con la Giunta militare, il 15/11/76, i vescovi, al fine di «chiarire la posizione della Chiesa», garantiscono di non volere «in nessuna maniera» adottare «una posizione di critica all’azione di governo», nella consapevolezza che «un fallimento condurrebbe molto probabilmente al marxismo», motivo per cui, dicono, «accompagniamo l’attuale processo di riorganizzazione del Paese intrapreso e guidato dalle Forze armate, lo accompagniamo con comprensione, (…) con adesione e accettazione».
Neppure risponde a verità quanto sostenuto da Bergoglio riguardo al fatto che nella Chiesa «al principio si sapeva poco o nulla» di quanto stava succedendo. Come evidenzia Verbitsky sempre su Página 12 dell’11/4/10, già il 10 maggio del 1976, meno di due mesi dopo il colpo di Stato, in una riunione dell’assemblea plenaria dell’episcopato, i vescovi avevano le idee molto chiare su ciò che stava avvenendo, giacché ciascuno aveva offerto informazioni riguardo ai sequestri, alle sparizioni e alle torture che avevano avuto luogo nelle rispettive diocesi.
E se la Conferenza episcopale non è mai andata oltre una timida e assai incompleta richiesta di perdono, non si è neanche pronunciata su casi eclatanti come quello di Christian Von Wernich, sacerdote argentino e cappellano della polizia, il quale, condannato all’ergastolo per «delitti di lesa umanità nel quadro del genocidio che ha avuto luogo tra il 1976 e il 1983», non ha ricevuto alcun tipo di sanzione canonica da parte della Chiesa del Paese (v. Adista nn. 55, 68, 71/07 e 17/10). E mentre l’episcopato argentino non ha mai adottato alcun provvedimento neppure contro pedofili come il vescovo Edgardo Gabriel Storni o il sacerdote Julio César Grassi, entrambi condannati per abusi su minori, è stato invece subito sospeso a divinis, per iniziativa di mons. Carlos Nañez, il sacerdote José Nicolás Alessio, colpevole di aver difeso nel 2010 il progetto legislativo, allora in discussione al Parlamento e approvato definitivamente il 15 luglio 2010, che ha introdotto nell’ordinamento argentino il matrimonio gay. Progetto di legge che l’arcivescovo Bergoglio aveva definito come frutto della «invidia del demonio» che «vuole distruggere il piano di Dio»: «Non si tratta di un mero progetto legislativo (questo è solo uno strumento) – scriveva (v. Adista n. 23/11) – ma di una mossa del padre della menzogna che vuole confondere e ingannare i figli di Dio» (molto più aperto si è mostrato invece Bergoglio riguardo alle unioni civili tra persone dello stesso sesso).
E con la stessa energia Bergoglio si era schierato contro il governo Kirchner sul caso dell'ordinario militare argentino mons. Antonio Baseotto, il quale, nel 2005, aveva provocato un incidente diplomatico tra il governo del suo Paese e il Vaticano affermando che il ministro della Sanità Ginés González García, colpevole di aver proposto la depenalizzazione dell'aborto, avrebbe meritato che gli fosse messa una pietra al collo e fosse buttato in mare. Un'immagine ripresa, a suo dire, dal Vangelo di Luca (17,3), ma che agli argentini aveva richiamato subito alla memoria i più recenti e tragici “voli della morte” praticati durante la dittatura per liberarsi dei prigionieri politici.

Non è Romero
Riguardo al passato di Bergoglio, in ogni caso, anche tra i teologi della liberazione i giudizi differiscono. Secondo Leonardo Boff, che in Bergoglio ripone enormi speranze, convinto che soprenderà molti e saprà imprimere una decisa svolta alla Chiesa («Quello che interessa – ha dichiarato all’Ips il 20/3 – non è Bergoglio e il suo passato, ma Francesco e il suo futuro»), «finora non vi sono indizi chiari di un comportamento censurabile. Al contrario, egli nascose e salvò molti sacerdoti perseguitati». Mentre Jon Sobrino è decisamente più cauto: «Non sembra giusto parlare di complicità – afferma in un’intervista rilasciata a Deia (16/3) – ma pare corretto dire che in quelle circostanze Bergoglio visse un allontanamento dalla Chiesa popolare impegnata con i poveri». «Non è stato un Romero», insomma, e neppure ha offerto «l’immagine di mons. Angelelli, il vescovo argentino assassinato dai militari nel 1976». Se la sua sensibilità verso i poveri è indubbia, ha evidenziato, non è tuttavia intervenuto «in maniera attiva e rischiosa in loro difesa» all’epoca della repressione da parte del regime militare.