L’austerity e la dittatura dell’1%
di Paul Krugman,
 Repubblica, 27 aprile 2013
È raro che i dibattiti economici si concludano 
con un ko tecnico. Tuttavia, il dibattito che oppone keynesiani ai fautori 
dell’austerità si avvicina molto a un simile esito.
Quanto meno a livello ideologico. La posizione 
pro-austerity è ormai implosa; non solo le sue previsioni si sono dimostrate del 
tutto fallaci, ma gli studi accademici invocati a suo sostegno si sono rivelati 
infarciti di errori e omissioni, nonché basati su statistiche di dubbia 
attendibilità.
Due grandi interrogativi, tuttavia, persistono. 
Il primo: come ha potuto diventare così influente la dottrina dell’austerity? E 
il secondo: cambierà la policy, adesso che le rivendicazioni fondamentali dei 
sostenitori dell’austerità sono diventate oggetto di battute nei programmi 
satirici della terza serata?
Riguardo alla prima domanda: l’affermazione dei 
fautori dell’austerità all’interno di cerchie influenti dovrebbe infastidire 
chiunque ami credere che la policy si debba basare sull’evidenza dei fatti, o 
essere da questi fortemente influenzata.
Dopotutto i due principali studi che forniscono 
all’austerity la sua presunta giustificazione intellettuale — quelli di Alberto 
Alesina e Silvia Ardagna sull’“austerità espansiva”, e di Carmen Reinhart e 
Kenneth Rogoff sulla fatidica “soglia” del novanta percento del rapporto 
debito/Pil — sono state ferocemente criticati già all’indomani della loro 
pubblicazione.
Gli studi, inoltre, non hanno retto a un attento 
scrutinio. Verso la fine del 2010 il Fondo monetario internazionale aveva 
rivisto Alesina-Ardagna ribaltandone le conclusioni, mentre molti economisti 
hanno sollevato interrogativi fondamentali sulla tesi di Reinhart-Rogoff ben 
prima di venire a sapere del famoso errore nella formula di Excel. Intanto, gli 
eventi nel mondo reale — la stagnazione in Irlanda (l’originario modello 
dell’austerity) e il calo dei tassi di interesse negli Stati Uniti, che 
avrebbero dovuto trovarsi di fronte a una crisi fiscale imminente — hanno 
rapidamente svuotato di significato le previsioni del fronte pro-austerity.
E tuttavia, la teoria a favore dell’austerità ha 
mantenuto, e persino rafforzato, la propria presa sull’élite. Perché? La 
risposta è sicuramente da ricercare in parte nel diffuso desiderio di voler 
interpretare l’economia alla stregua di un racconto morale, trasformandola in 
una parabola sugli eccessi e le loro conseguenze. Abbiamo vissuto al di sopra 
dei nostri mezzi, narra il racconto, e adesso ne paghiamo l’inevitabile prezzo. 
Gli economisti possono spiegare ad nauseam che tale interpretazione è errata, e 
che se oggi abbiamo una disoccupazione di massa non è perché in passato abbiamo 
speso troppo, ma perché adesso spendiamo troppo poco, e che questo problema 
potrebbe e dovrebbe essere risolto. Tutto inutile: molti nutrono la viscerale 
convinzione che abbiamo commesso un peccato e che dobbiamo cercare di redimerci 
attraverso la sofferenza. Né le tesi economiche né la constatazione che oggi a 
soffrire non sono certo gli stessi che negli anni della bolla hanno “peccato” 
bastano a convincerli che le cose stanno diversamente.
Ma non si tratta di opporre semplicemente la 
logica all’emotività. L’influenza della dottrina dell’austerity non può essere 
compresa senza parlare anche di classi sociali e di diseguaglianza.
Dopotutto, cosa chiede la gente a una policy 
economica? Come dimostrato da un recente studio condotto dagli scienziati 
politici Benjamin Page, Larry Bartels e Jason Seawright, la risposta cambia a 
seconda degli interpellati. La ricerca mette a confronto le aspettative nutrite 
riguardo alla policy dagli americani medi e da quelli molto ricchi — e i 
risultati sono illuminanti.
Mentre l’americano medio è per certi versi 
preoccupato dai deficit di budget (cosa che non sorprende, considerato il 
costante incalzare dei racconti allarmistici diffusi dalla stampa), i ricchi, 
con un ampio margine, considerano il deficit come il principale problema dei 
nostri giorni. In che modo dovremmo ridurre il deficit nazionale? I ricchi 
preferiscono ricorrere al taglio delle spese federali sulla sanità e la 
previdenza — ovvero sui “programmi assistenziali” — mentre il grande pubblico 
vorrebbe che la spesa in quei settori fosse incrementata.
Avete capito: il programma dell’austerity 
rispecchia da vicino, la posizione dei ceti abbienti, ammantata di rigore 
accademico. Ciò che il più ricco un per cento della popolazione desidera diventa 
ciò che la scienza economica ci dice che dobbiamo fare.
Gli interessi dei ricchi sono forse di fatto 
agevolati da una depressione prolungata? Ne dubito, dal momento che solitamente 
un’economia prospera è un bene per tutti. Ciò che invece è vero, è che da quando 
abbiamo optato per l’austerità i lavoratori vivono tempi cupi, ma i ricchi non 
se la passano così male, avendo tratto vantaggio dall’incremento dei profitti e 
dagli aumenti della Borsa a dispetto del deteriorare dei dati sulla 
disoccupazione. L’un per cento della popolazione non auspica forse un’economia 
debole, ma se la passa sufficientemente bene da rimanere arroccato sui propri 
pregiudizi.
Tutto ciò suscita una domanda: quale differenza 
produrrà di fatto il crollo intellettuale della posizione pro-austerità? Sino a 
quando ci atterremo a una politica dell’un per cento, voluta dall’un per cento a 
vantaggio dell’un per cento, forse assisteremo solo a nuove giustificazioni 
delle solite, vecchie policy.
Spero di no; mi piacerebbe poter credere che le 
idee e l’evidenza dei fatti contino, almeno in parte. Cosa farò altrimenti della 
mia vita? Immagino però che ci toccherà vedere sino a dove ci si può spingere 
pur di dare una giustificazione al cinismo.