Il cambiamento radicale della società

 

 Francuccio Gesualdi

 

Fonte: ilgranellodisabbia, il mensile per un nuovo modello sociale di Attac Italia, n. 9, gennaio 2014

A scuola ci hanno insegnato che la politica si fa nella cabina elettorale o, tutt’al più, nelle sedi di partito. Ma ci hanno ingannato. La politica si fa sempre, perfino quando stiamo zitti. A ben pensarci proprio il silenzio e l’indifferenza sono i comportamenti di maggiore rilevanza politica, perché il potere adotta la regola che chi tace acconsente. In effetti la maggioranza silenziosa è il suo più grande alleato.

Pochi si interrogano sulla natura del potere ed è diventato un luogo comune che il potere stia in piedi da solo. In realtà è sostenuto dal basso. La vera forza del potere si chiama consenso, che non si avvale solo del silenzio, ma anche dell’obbedienza. Non a caso cerca di allevarci in una scuola autoritaria, classista, concorrenziale. Per la stessa ragione tiene ben salde le redini dei giornali e delle televisioni, per darci una chiave di lettura della realtà che fa comodo a lui.

E’ un fatto che il potere non può realizzare i suoi progetti da solo. Ha bisogno di noi, del nostro lavoro, del nostro consumo, del nostro risparmio, del nostro voto. Per questo tutti siamo responsabili dei crimini commessi dal potere. Ma la nostra responsabilità è solo una faccia della medaglia. L’altra è il nostro potere. Dal momento che il nostro lavoro, il nostro consumo, il nostro risparmio sono così importanti per la sopravvivenza del sistema, possiamo usarli per ricattarlo ed obbligarlo a comportamenti diversi.

Proviamo ad immaginare cosa succederebbe se smettessimo di comprare i prodotti di aziende che sfruttano i lavoratori, o se smettessimo di depositare i nostri risparmi presso le banche che sostengono il commercio di armi. Esse dovrebbero adeguarsi alle nostre richieste, pena il fallimento. Per questo padre Zanotelli paragona il potere alla statua di Nabucodonosor: le sue dimensioni erano imponenti ed incuteva in tutti un grande terrore. Ma la statua aveva un difetto: aveva i piedi di argilla, un materiale che se riceve i raggi solari si indurisce ed è capace di sostenere un peso molto grande sopra di sé, ma se riceve qualche goccia d’acqua diventa una poltiglia che fa crollare il peso sopra di lei. Noi siamo i piedi del potere e sta a noi stabilire se vogliamo che questa argilla si indurisca o diventi una poltiglia. La induriamo se ci adeguiamo in maniera apatica alle sollecitudini del sistema. La riduciamo a poltiglia se agiamo in maniera critica e diciamo “no, non collaboro” ogni volta che non condividiamo l’ordine o l’invito ricevuto.

Se pensiamo prima di agire e se agiamo confrontandoci con i nostri valori, possiamo mettere il sistema in ginocchio. Ecco perché la politica si fa in ogni momento della vita: al supermercato, in

banca, sul posto di lavoro, all’edicola, in cucina, nel tempo libero. Scegliendo cosa leggere, quale lavoro svolgere, cosa e quanto consumare, da chi comprare, come viaggiare, a chi affidare i nostri risparmi, rafforziamo un modello economico sostenibile o di saccheggio, sosteniamo imprese responsabili o vampiresche, contribuiamo a costruire la democrazia o a demolirla, sosteniamo un’economia solidale e dei diritti o un’economia animalesca di sopraffazione reciproca.

In effetti la società è il risultato di regole e di comportamenti e se tutti ci comportassimo in maniera consapevole, responsabile, equa, solidale, sobria, non solo daremmo un altro volto al nostro mondo, ma obbligheremmo il sistema a cambiare le sue regole, perché nessun potere riesce a sopravvivere di fronte ad una massa che pensa e che fa trionfare la coerenza sopra la codardia, l’impegno sopra il quieto vivere, l’equità sopra le piccole avidità.

Una corretta politica del fare passa attraverso la resistenza e la desistenza. Resistere significa fare pressione sulle imprese, sui governi, sulle istituzioni internazionali e qualsiasi altro centro di potere affinché assuma comportamenti più responsabili. Sono esempi di resistenza la denuncia, la manifestazione di piazza, il boicottaggio, il consumo critico, le campagne di pressione a mezzo lettere e raccolta firme, l’obiezione bancaria, l’obiezione fiscale, la disobbedienza civile che si fa obbedienza civile quando la disobbedienza si rende necessaria per imporre il rispetto della legge, come è successo nel caso dell’acqua.

Desistere significa tirarsi fuori dal sistema, saltare giù dal treno, per realizzare subito iniziative economiche e sociali diverse, ispirate a principi di equità e sostenibilità. Iniziative come il commercio equo solidale, i gruppi di acquisto solidale, la finanza etica, il turismo responsabile, la sobrietà, le transition towns, la creazione di monete complementari, la costituzione dei distretti di economia solidale, l’occupazione di spazi inutilizzati per la rinascita delle comunità. Resistenza e desistenza sono due strategie che non vanno viste in contrapposizione fra loro, ma complementari. Di solito la resistenza assolve a una funzione tampone di riduzione del danno: serve ad arrestare i processi particolarmente dannosi o a impedire la perdita di diritti acquisiti. La desistenza serve a costruire un modello alternativo.

Le ragioni a sostegno della desistenza sono varie e potremmo cominciare dall’urgenza. Noi continuiamo a fare discussioni infinite su cosa potremmo fare per salvare il pianeta. Intanto tutte le mattine infiliamo la chiave nel cruscotto e partiamo a razzo con la nostra automobile, dopo aver bevuto un caffè che emana un forte odore di sfruttamento. Noi prendiamo tempo, ma il pianeta ci manda a dire che il nostro tempo è scaduto. Ci manda a dire che se vogliamo evitare il tracollo ambientale e sociale dobbiamo fare in fretta. Ecco perché dobbiamo cominciare da subito a consumare meno, a produrre meno rifiuti, a produrre energia rinnovabile, a consumare locale e in maniera equa e solidale. Lo dobbiamo fare come singoli, come famiglie, come imprese, come enti locali.

Ognuno deve assumersi le proprie responsabilità, subito, nel proprio piccolo, indipendentemente da come si comportano gli altri. Il buon comportamento di una minoranza potrebbe ritardare il precipitare degli eventi e offrirci del tempo prezioso per organizzare il cambiamento di massa. Un cambiamento che non è facile far passare, perché è una piccola rivoluzione. Ma le nostre possibilità aumentano se ci presentiamo al pubblico, oltre che con delle belle idee, anche con delle iniziative. A volte vale più un fatto di mille discorsi: i fatti parlano da soli, sono concreti, mostrano subito pregi e difetti. I fatti fanno scuola perché dimostrano che cambiare è possibile.

Di fronte ai fatti la gente non può più dire “è bello, ma è un’utopia”. Utopia significa non luogo, ma tutto ciò che esiste ha un luogo ed è concreto. Dunque dobbiamo sperimentare per diventare più credibili.

Del resto abbiamo avuto la dimostrazione che le iniziative alternative hanno il potere di condizionare il sistema. Innumerevoli esempi di consumo e risparmio alternativo mostrano che le imprese si interrogano quando si rendono conto che un numero crescente di persone non si rivolge più a loro, ma a strutture che si ispirano ad altri principi. In ambito privato la sperimentazione non manca, mentre è ancora debole in ambito pubblico. Su questo piano ci siamo limitati a rivendicare il “bilancio partecipativo”, ossia una maggiore partecipazione nella messa a punto del bilancio comunale. Ma possiamo fare di più. Possiamo chiedere di sperimentare la partecipazione diretta ai servizi, cominciando da quelli più semplici come la cura dei giardini, la pulizia delle strade, il sostegno ai servizi sociali. Magari, potremmo proporre una riduzione delle tasse comunali in cambio di ore di lavoro. Sarebbe un’iniziativa importante che avrebbe il merito di rinforzare lo spirito di comunità e di avviare i primi passi verso l’economia del bene comune.