Paolo De Benedetti “Dio non era sicuro del risultato, Cr tutto e disse:purché tenga”

 

intervista a Paolo De Benedetti a cura di Antonio Gnoli

 

la Repubblica” del 24 agosto 2014

 

Maria e Paolo De Benedetti mi attendono alla stazione di Asti. Sono fratello e sorella. Insieme da sempre. Un’intesa perfetta. Mi attendono con una Panda. Prima tappa un ristorante di tradizione. A tavola si parla un po’ di tutto: gli anni prima della guerra, durante e dopo. Un lungo periodo nel quale una famiglia di ebrei, stimata e ben voluta, ha dovuto provare sulla propria pelle cosa ha significato la somma di razzismo e stupidità: «Qui, in questa zona, non ci fu mai vera cattiveria, né accanimento», corregge Paolo, mentre il suo cucchiaio affonda nella crema ai frutti di bosco. «È sempre stato un golosone», sottolinea Maria che detta, con abilità, i tempi della conversazione. Sarà lei a riaccompagnarmi, nel tardo pomeriggio, alla stazione. Penso sia una donna un po’ speciale: dura, ma anche aperta; paziente, soccorrevole e disincantata per quel tanto da sapere che le cose vanno accolte con tranquilla vigilanza: «Sa», mi dice, «per Paolo è stato un pomeriggio felice. Poter discutere dei suoi interessi, della propria vita dedicata alla conoscenza del mondo ebraico è come averlo riportato indietro di qualche anno».

Da poco Paolo è stato dimesso dall’ospedale. Nelle ore che abbiamo trascorso assieme, nella casa immediatamente fuori Asti, ho avuto la sensazione di un uomo che nel tempo ha cercato con semplicità la giustizia: «Anche per stare dalla parte giusta», osserva, mentre accarezza la gatta che gli si è posata sulla pancia, «ci vuole il senso dell’orientamento ».

Cosa significa orientarsi?

«Gli antichi lo facevano con il sole e le stelle. Per noi è possedere una specie di sesto senso che ci avverte della direzione che abbiamo intrapreso. Non è vero che allinizio tutto è confuso e che non sappiamo dove andare. Lo spaesamento, che pure ci può cogliere, è parte della nostra vita, della nostra disperazione. Ma è lì per farci vivere l’opportunità di orientarci di nuovo».

Le è mai accaduto di perdere l’orientamento?

«Chiedersi che ci faccio io qui?”, ma sì, ma sì. Direi ogni qualvolta i drammi del mondo mi hanno spinto a domandarmi dov’era Dio in quel momento ».

Dio è anche un mettere alla prova la nostra fragilità, i nostri dubbi.

«Non potrebbe essere più interessante rovesciare la questione?».

Rovesciarla come?

«Pensare alla fragilità di Dio e ai dubbi che lo tormentano ».

Non immaginavo tra le tante opzioni possibili che investono Dio anche a quelle così profondamente umane.

«È sorprendente, non trova? Un Dio che chiede al suo popolo di consolarlo. Siamo in pieno

Midrash ».

Midrash è una parola che amano i rabbini.

«Non solo loro. Si tratta dellinterpretazione del testo biblico. Diciamo, la parte recondita della parola sacra. Per me è una forma di “ruminare”, ruminare la Bibbia per farne una regola di vita». Lei è considerato tra i massimi studiosi del pensiero ebraico. Quando e come è nato questo interesse?

«Potrei risponderle che le mie origini hanno orientato le mie scelte. Ma in fondo è vero solo parzialmente. Stimerei la mia vita di studioso come quella di un pendolo che oscilla tra più mondi. Certo l’ebraismo, ma anche il cristianesimo. Fin da piccolo ho cercato nelle cose la parte apparentemente più fragile».

Che a volte è la più segreta.

«Nessuno ama esporre le proprie debolezze. Ma è lì che spesso si nasconde la forza del vivente».

E le sue debolezze?

«Oh, dovrei farne un lungo elenco. Le mie malattie: per cominciare il mio Parkinson, i miei reni, per fortuna curati, la mia memoria che svanisce. E tutto quello che non siamo riusciti a cambiare».


 

È un elenco senza punte tragiche.

«Lo dico nella convinzione di non aver mai drammatizzato le questioni della vita. Non bisogna puntare alle grandi cose. Ma fare in modo che le piccole cose diventino un po’ più grandi».

Il Paradiso delle piccole cose ( Imprimatur editore) è un libro in cui lei, insieme a sua sorella

Maria, si racconta.

«Forse avevamo delle cose da dire».

Le sue radici, per esempio.

«Apparteniamo a quelle famiglie ebraiche che alla fine del Quattrocento, partendo dalla Catalogna, attraverso la Francia, giunsero in Piemonte».

Per arrivare a qualche generazione meno remota?

«La nostra discendenza ha una storia buffa. Nel Settecento c’era una certa Dolcina Artom fidanzata con Salvatore, il nostro bisnonno; i medici la visitarono e dissero che era sterile. Fece 15 figli. La sua vita deve essere stata terrificante. D’accordo che c’erano le fantesche ma tirare su 15 figli non

fu semplice. Dolcina, sorella di Isacco Artom, segretario di Cavour, mo a 57 anni. Il nonno mise al mondo sei figli: due medici, un avvocato, un ingegnere, un ufficiale e uno con poca voglia di studiare, lo fecero sposare alla figlia di Federico Enriquez, il grande matematico».

E suo padre?

«Era medico. Divenne primario e direttore dell’ospedale di Asti. Quando ci furono le leggi razziali gli tolsero i titoli e anche credo lo stipendio però doveva continuare a fare il suo lavoro».

Perché restaste ad Asti?

«La città ci ha protetti. Altri della famiglia si rifugiarono altrove. Rodolfo, fratello di mio padre e papà di Carlo e Franco, ripararono in Svizzera. Nostro padre era talmente noto e amato che nessuno avrebbe avuto il coraggio di alzare un dito. Quando, dopo il 25 aprile, ci fu la resa dei conti con i fascisti, ne sal diversi dalla fucilazione. Disse che la famiglia era stata rispettata».

Ma che percezione ebbe di quegli anni?

«Fu un periodo che ci lasciò angosce tremende. Al di là del Tanaro c’erano i partigiani e papà era chiamato a intervenire su tutto il territorio. Lo vedevamo partire con il calesse e non sapevamo se sarebbe tornato. In certi momenti gli toccava buttarsi in un fosso perché arrivavano gli aerei a mitragliare. Linverno del 1944 fu particolarmente freddo. Quellanno il Tanaro divenne un blocco di ghiaccio. Dopo la guerra ricominciammo praticamente da zero».

Lei non ha seguito le orme paterne.

«No, ero più incline agli studi umanistici. Dopo il liceo mi iscrissi alla Cattolica di Milano dove sapevo c’era un buon dipartimento di lingue orientali e in particolare di ebraico. Finii l’università a Torino. Ero molto interessato alla teologia. Da giovane avevo letto i classici russi. Non escludo che alcune componenti della riflessione su Dio siano nate da quelle letture e dalle discussioni con un giovane sacerdote ».

Chi era?

«Si chiamava Don Chini. Sarebbe diventato un grande latinista e grecista. Con lui scambiai due cose: studiammo insieme l’ebraico, con un giudice in pensione, persona straordinaria quanto a sapienza delle lingue, e ci occupammo di teologia con Don Bussi. Quest’ultimo fu amico di Pavese e Fenoglio».

Li ha conosciuti?

«No, Pavese era già morto e negli anni in cui avrei potuto conoscere Fenoglio, mi trasferii a Milano a lavorare alla Bompiani. Fu Celestino Capasso a notare certe mie doti di traduttore e di studioso di religioni e ad offrirmi un’occupazione ».

Che anno era?

«Mi pare il 1952. Vi sono rimasto per quasi 15 anni. Divenni amico di Valentino Bompiani, e fui io a portare Umberto Eco in casa editrice».

Come accadde?

«Eco lavorava per la televisione e lo zio Vale”, così chiamavo Bompiani, mi incaricò di contattarlo. Aveva sentito parlare di questo giovane di talento e volle conoscerlo per offrirgli un lavoro».


 

E lui accettò?

«Sì, Umberto svolse un lavoro straordinario per la saggistica filosofica. Mettemmo su una squadra niente male, composta tra gli altri da Mario Spagnol, Sergio Morando, Giampaolo Dossena. Nelle pause ci divertivamo a scrivere limerick, versi di nonsense».

Mi piacerebbe leggerne qualcuno.

«Chissà che un giorno non mi decida a pubblicarli. Anche in questo Eco eccelleva».

E dopo la Bompiani?

«Passai alla Garzanti. Valentino si era ritirato e per me era stato fondamentale il rapporto con lui».

E cosa trovò alla Garzanti?

«Non riuscii ad adattarmi».

Livio Garzanti non doveva essere un personaggio facile.

«Lasciamo perdere. Mentre Bompiani era un personaggio difficile ma di grande intelligenza, non posso dire la stessa cosa di Garzanti. Pativa di gelosia verso i suoi assistenti. Quando un collaboratore aveva troppo successo lui incominciava a perseguitarlo».

Che cos’è la gelosia?

«Un misto di insicurezza e di stupidità. La mancanza di una visione serena della vita. A volte una patologia».

È anche un peccato?

«Diciamo una deformazione del carattere. È difficile definire il peccato. Ci accontentiamo di dire che è la violazione di un precetto o di un comandamento. O lattentato al modello di uomo che Dio aveva creato».

Ed è sufficiente?

«Davvero Dio voleva fare l’uomo a sua immagine?».

E cosa risponde?

«Dio non ha un’immagine fisica. È pensiero, affetto, aspirazione. Nella tradizione ebraica c’è una storiella interessante. Dopo che Dio creò il tutto vide che il tutto non era niente male. E pare avrebbe aggiunto: purché tenga. Non era sicuro del risultato!».

Limmagine che lei offre di Dio è poco metafisica.

«Dio può essere visto come un atto di amore o come una cosa. Il nostro rapporto con lui cambia a seconda della prospettiva in cui lo inseriamo».

Dio fa il mondo, e poi?

«Bella questione. Nella teologia il fare” può rivestire varie forme. Ce ne è una che è molto simile a ciò che nella Cabala è lo Tzimtzum, ossia una forma di autolimitazione. Dio, nel momento in cui crea il mondo, si ritira per lasciare spazio all’uomo».

E dove va?

«Resta dov’è. Secondo alcuni interpreti diventa Shekhinà , che è l’equivalente di Gesù in quanto

Dio».

È incarnazione?

«Nella mistica ebraica la Shekhinà è latto con cui il divino si incarna in alcune realtà terrestri».

Dio che abita nei dettagli?

«È il Dio che si rende presente nel mondo con una forma di materializzazione, o meglio di immanenza. E coinvolge il vivente nel suo insieme».

A questo proposito lei ha elaborato una teologia degli animali.

«Per un credente il destino dell’uomo è di solito motivato dal peccato. Ma questo non coinvolge il destino degli animali. Non sono forse creature altrettanto preziose? È degradante constatare la crudeltà alla quale spesso li sottoponiamo; lo sterminio industrializzato e sadico perpetrato ai loro riguardi. Al di là delle convinzioni, la teologia degli animali vuole essere un modo di porre un limite alla violenza ».

Preservare gli animali come fece Noè?

«L’Arca è un modello interessante di teologia degli animali ».

Dio intende distruggere ogni forma di vivente e poi ci ripensa. Perché?

«Non solo nellepisodio dell’Arca. La sua coscienza lo frena. In fondo non rinuncia a pensare che

possano esistere uomini migliori. È il bisogno che ha Dio di specchiarsi in qualcuno che risponda

alle sue speranze. Il culto dei santi è spesso superstizione. Ma sono anche la continua presenza del

verbo che si incarna».

Ha conosciuto uomini “migliori”?

«Diversi, certamente. E ogni volta fu una gioia. Tra questi Padre David Turoldo. Fummo a lungo

amici. Negli ultimi anni andavo a trovarlo sotto il monte dove lo avevano emarginato. Le sue

poesie, i suoi discorsi, i suoi salmi avevano un’aura particolare. Sembrava che non fosse lui a

pronunciarli, ma scaturissero da una necessità superiore. Era un uomo rude, ma guidato da un

principio di giustizia che andava al di là del fatto che appartenesse a una certa congrega religiosa.

Sa chi mi ricorda?».

No, chi?

«Per l’aspro e onesto modo di guardare le cose del mondo mi ricorda Giorgio Bocca. Spesso

mangiavamo assieme. Discutevamo. Lo penso con affetto e nostalgia. Appariva difficile, brusco,

perfino intollerante. In realtà, era un uomo che tra le parole e il cuore non mostrava separazione».

È più fedele al suo passato o alla speranza di ciò che il futuro le riserverà?

«Sono fedelissimo ai ricordi, che pure tendono a svanire, e alle persone che non ci sono più. Alle

quali sono appartenuto come loro a me. Ma è un appartenersi senza angoscia. Quanto al futuro, Dio

dovrà fare una cosa che finora non gli è riuscita: stabilire dei rapporti di fratellanza tra tutti gli esseri

viventi. Comprese le piante. È la mia speranza».