Quel messale che invita all'antisemitismo

 

di Luca Kocci

 

il manifesto” del 23 agosto 2014

 

«Giudaica perfidia. Uno stereotipo antisemita tra liturgia e stori di Daniele Menozzi per il

Mulino

 

«Preghiamo anche per i perfidi giudei, perché il nostro Dio e Signore tolga il velo dai loro cuori e anchessi riconoscano Gesù nostro Signore. O Dio onnipotente ed eterno, che non respingi nemmeno la giudaica perfidia dalla tua misericordia, ascolta le nostre preghiere che ti presentiamo per quel popolo accecato, affinché, riconosciuta la luce della tua verità, che è Cristo, siano strappati dalle loro tenebre».

Fino al 1962 così si pregava nelle chiese cattoliche il venerdì santo, il giorno in cui è commemorata la passione e morte di Gesù. Quella per i «perfidi giudei» era l’ottava orazione delle nove allora previste nella cosiddetta preghiera universale. Seguiva quella per il «ritorno alla Chiesa di eretici e scismatici» e precedeva quella per la «conversione dei pagani». E, a differenza delle altre, durante le quali i fedeli erano invitati ad inginocchiarsi, si restava in piedi, come se la «giudaica perfidi

non meritasse nemmeno una genuflessione.

Per quattro secoli i cattolici hanno pregato così, da quando il papa della Controriforma, Pio V – san Pio V per la Chiesa –, pochi anni dopo la conclusione del Concilio di Trento (1545–1563), uniformando la disciplina liturgica per tutta la Chiesa cattolica romana, fece pubblicare il Missale romanum (1570), che conteneva appunto il rito del venerdì santo e l’orazione per i «perfidi giudei». Benché il vocabolo («perfidia») fosse estraneo al lessico neotestamentario, non si trattava di una novità: la teologia, l’apologetica e lomiletica erano intrise di ostilità nei confronti degli ebrei, popolo deicida. Il pregiudizio antiebraico però ora entrava a far parte della liturgia, ovvero la celebrazione della «storia della salvezza», manifestazione della piena ortodossia della fede e strumento principe della catechesi e dell’educazione delle masse dei fedeli, che non sapevano leggere ma andavano a messa. Il nuovo saggio di Daniele Menozzi, docente di storia contemporanea alla Normale di Pisa, indaga e percorre attraverso i secoli questo particolare aspetto: l’antisemitismo nella liturgia cattolica («Giudaica perfidia». Uno stereotipo antisemita fra liturgia e storia, il Mulino, pp. 248, euro 22).

Dal messale di Pio V in poi, i «perfidi giudei» saranno una presenza costante nella liturgia. Tutti i tentativi di espungere l’espressione saranno destinati al fallimento: da quelli maturati durante la Rivoluzione francese e le repubbliche giacobine, immediatamente arginati dal ritorno dellAncien régime e dalla Restaurazione; a quello della Società degli Amici di Israele, nella seconda metà degli anni ‘20, fondato sulle acquisizioni del nuovo metodo storico-critico, che aveva sottoposto a rigorosa analisi il significato del termine «perfidiinteso come «assenza di fede», ma bocciato dalla Congregazione vaticana Sant’Uffizio che dispose anche lo scioglimento dell’associazione, i cui membri – scriveva il segretario, cardinale Merry del Val – erano caduti «in un tranello ideato dagli stessi ebrei che penetrano dappertutto nella società moderna». Il Sant’Uffizio in questo caso – anche su indicazioni di Pio XI – rifiutava un antisemitismo «anticristiano» fatto di persecuzioni e vessazioni verso gli ebrei, ma non uno condotto «secondo le direttive dell’autorità ecclesiastica». Poteva esistere, quindi, un antisemitismo lecito. Ma, si chiede Menozzi, «come trattenere nei limiti dello spirito cristiano” un antisemitismo alimentato da un rito solenne che ripeteva ciclicamente la caratterizzazione degli ebrei come perfidi?». Di lì a poco arriveranno le leggi razziali e la Shoah. Il nodo sarà sciolto solo negli anni Sessanta, con l’elezione di papa Roncalli, Giovanni XXIII, che nella nuova edizione del messale romano del 1962 cancellò l’espressione «giudaica perfidia». Il percorso poi si completò al Concilio Vaticano II, con l’approvazione della dichiarazione Nostra aetate, in cui venne riconosciuta l’esistenza di un «comune patrimonio spiritual fra ebrei e cristiani e archiviate le condanne: tutto quanto è stato commesso durante la passione di Cristo, si legge, «non può essere imputato indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi, né agli ebrei del nostro tempo».

Una storia definitivamente chiusa? Non ancora. Paolo VI perfezionò l’aggiornamento di Roncalli con un nuovo messale (nel 1970) ulteriormente depurato da formule antiebraiche che ancora sopravvivevano in quello del 1962. Dopo però si sono intravisti pericolosi ritorni al passato. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, a fronte di gesti di amicizia nei confronti del popolo ebraico, hanno condotto azioni di governo contraddistinte da forti ambiguità, nel tentativo vano di recuperare la «scissione a destra» dei tradizionalisti di Marcel Lefebvre – che pure da Wojtyla venne scomunicato nel 1988 – e dei gruppi nati da quell’alveo. Fu Giovanni Paolo II a consentire loro le celebrazioni secondo il messale del 1962. Non c’era più la «perfidia giudaica», nota Menozzi, tuttavia diversi testi «contenevano comunque alcuni elementi antisemiti». Ma la Santa sede, nel 1990, approvò anche il messale di una comunità benedettina della Provenza, in cui l’espressione «giudaica perfidia» era rimasta al proprio posto. Chi firmava lintroduzione di quel messale? Il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, Joseph Ratzinger. Che di lì a poco, da papa, andrà oltre con il motu proprio Summorum pontificum in cui è concessa tuttora ai tradizionalisti l’adozione del messale preconciliare, essendo però costretto, a causa delle proteste internazionali, a modificare il testo della preghiera per gli ebrei.

«Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande», si legge nel Summorum pontificum. Ecco il vero nodo della questione: la convinzione, da parte di Ratzinger, che il «ritorno al sacro», sganciato dal percorso storico compiuto, costituisca il più efficace rimedio alla secolarizzazione, al relativismo e alla crisi della Chiesa. Si tratta, nota Menozzi, di una concezione largamente condivisa nel mondo tradizionalista: il «rifiuto della storia come sapere indispensabile alla comprensione del presente e all’organizzazione del futuro». Un nodo che papa Francesco, il quale non ha mai mostrato particolare simpatia verso il rito preconciliare, dovrà affrontare, se vorrà sciogliere i legami fra liturgia e antisemitismo e riprendere quel programma di aggiornamento ecclesiale introdotto da Giovanni XXIII ma abbandonato negli ultimi decenni.