Voglia di decidere. Una stagione di referendum per rivendicare democrazia
politica ed economica
di Alessandro Somma
da www.micromega.net
Il referendum trivelle è fallito, boicottato e
colpito a morte da un esecutivo che ha fatto di tutto per impedire il
raggiungimento del quorum. Ha iniziato rifiutando l’accorpamento con le elezioni
amministrative di giugno, che avrebbe oltretutto fatto risparmiare trecento
milioni di Euro. Ha proseguito con una campagna di vera e propria
disinformazione e mistificazione sulla portata del quesito, propagandando
falsità come la sicura perdita di migliaia di posti di lavoro. E ha concluso in
bellezza invitando all’astensione: opzione fuori dalla Costituzione, dove si
prevede il quorum per misurare il reale interesse dei cittadini sul quesito
referendario, e non anche per trasformare la diserzione delle urne in un’arma
politica.
Renzi ha festeggiato a modo suo il macabro
successo: ha gettato benzina sul fuoco, dichiarando che il referendum è fallito
perché la demagogia non paga, e accusando i media di averla alimenta. È stata
una reazione arrogante, tanto da suonare se possibile più odiosa e urticante
della sconfitta referendaria. Tutto questo mentre si è appena aperta una
stagione di iniziative referendarie che comprendono il voto di ottobre sulla
riforma costituzionale, ma anche la raccolta di firme per i questi sulla legge
elettorale, la scuola, il lavoro e l’ambiente, oltre che per alcune leggi di
iniziativa popolare in materia di lavoro e di diritto allo studio.
Insomma, l’arroganza a cui ci ha abituato il
Premier ha finito per far esplodere la voglia di democrazia diretta: di
partecipare e decidere in prima persona, di reagire da protagonisti
all’autoritarismo renzista, ma anche all’attuale assenza di alternative
credibili. Non solo per ripristinare i fondamenti della democrazia politica,
ovvero per riaffermare il principio della sovranità popolare, ma anche per
restringere il perimetro del mercato e allargare quello dei diritti
fondamentali, nella sfera economica esattamente come nella sfera politica: una
svolta indispensabile nel momento in cui l’attuale classe dirigente offre
riscontri definitivi del suo asservimento ai desiderata di poteri forti più o
meno identificati.
Riforma costituzionale
Il referendum al momento più noto è quello che
riguarda la legge di riforma costituzionale appena approvata dalla maggioranza
assoluta di ciascuna Camera[1].
La Costituzione afferma che in questi casi, ovvero se non si è raggiunta la
maggioranza dei due terzi, la legge viene sottoposta a referendum se lo
richiedono un quinto dei membri di una Camera o mezzo milione di cittadini.
Nello specifico il referendum si terrà, il 16 ottobre prossimo, perché lo hanno
già chiesto un numero più che sufficiente di parlamentari, e probabilmente
perché lo chiederanno anche un numero consistente di cittadini: il 25 aprile
inizierà infatti la raccolta di firme per chiedere che la riforma sia sottoposta
e referendum.
Non ce ne sarebbe bisogno, visto che comunque la
consultazione referendaria è assicurata dalla richiesta dei parlamentari, ma in
questo modo si rende il dibattito sulla riforma costituzionale una vicenda non
limitata al ceto politico. Tanto più che anche i parlamentari della maggioranza
hanno fatto richiesta di referendum, volendo con ciò trasformarlo in un
plebiscito su Renzi. A conferma della sua volontà di ridurre tutta la vita
politica italiana a un dialogo tra il leader e i suoi sudditi, secondo la
migliore tradizione cesarista o bonapartista, che in questo caso finisce per
sequestrare il dibattito sul patto fondativo dello stare insieme come Paese.
Ma torniamo al 25 aprile, data di inizio della
campagna referendaria che non è stata scelta a caso. Con la Liberazione,
infatti, si festeggia la riconquista della democrazia e dunque della sovranità
popolare: il bene prezioso che la riforma costituzionale sacrifica invece
sull’altare dell’autoritarismo efficientista di chi vuole ridurre i tempi della
politica ai ritmi dell’economia. È questo il senso ultimo di un provvedimento
ampio e complesso con cui si incide profondamente sull’assetto istituzionale, e
non solo per le modalità con cui si è abolito il bicameralismo perfetto: si
sarebbe potuto trasformare il Senato nel luogo in cui valorizzare il dialogo tra
istanze nazionali e rappresentanze regionali, e invece è diventato una Camera
dai compiti residuali, nella quale siederanno rappresentanti individuati in base
a criteri confusi, risultato dell’ennesimo scontro stucchevole e tormentato tra
le anime del partito del Premier.
Ma la riforma non si limita a questo aspetto:
sono complessivamente numerosi gli interventi sulla Costituzione. Spiccano tra
essi la moltiplicazione dei procedimenti legislativi, differenziati con modalità
che non mancheranno di produrre conflitti, o l’indebolimento delle autonomie
regionali con un vero e proprio rovesciamento della linea emersa con la riforma
del 2001. Certo, vi sono anche interventi apprezzabili, come la previsione di
referendum propositivi o il vincolo per il Parlamento a discutere le leggi di
iniziativa popolare, per le quali si eleva però a centocinquantamila il numero
delle firme necessarie alla presentazione. Siamo peraltro chiamati a
pronunciarci sul senso complessivo della riforma, ben rappresentato dalla
circostanza che è stata varata da un Parlamento eletto con una legge dichiarata
incostituzionale: il mitico Porcellum. E a nulla vale ricordare che la Consulta
ha voluto salvare l’operato dei parlamentari in virtù del principio della
continuità dello Stato[2]:
forse questo principio è buono per sanare sul piano formale l’attività dei
deputati, ma non certo per avallarla dal punto di vista sostanziale, almeno
laddove, come nel nostro caso, esorbita in modo evidente rispetto al disbrigo
degli affari ordinari.
Legge elettorale
Che la riforma costituzionale rappresenti un
attentato alla sovranità popolare, emerge in modo chiaro se la si mette in
relazione con l’Italicum[3]:
la legge elettorale appena approvata, non a caso ricorrendo al voto di fiducia,
per rimpiazzare il Porcellum dichiarato incostituzionale dalla Consulta. Questa
legge consente al partito che ottiene più voti alle elezioni di ottenere
maggioranze parlamentari solide e dunque di esprimere in solitudine l’esecutivo.
E permette a queste maggioranze di controllare l’elezione del Presidente della
Repubblica, e quindi di un terzo dei giudici costituzionali, per la quale la
Costituzione prevede che dal quarto scrutinio sia sufficiente la maggioranza
assoluta dei votanti (art. 83). È vero che la riforma costituzionale modifica
questo aspetto, richiedendo una maggioranza non inferiori ai tre quinti dei
votanti, ma è altrettanto vero che ciò sembra più che altro un espediente
davvero perverso per sostenere la necessità di una sua approvazione popolare.
Proprio il legame tra la riforma costituzionale
e la legge elettorale impone dunque che la volontà popolare cancelli entrambe.
Per questo è in corso la raccolta di firme per l’abrogazione delle parti dell’Italicum
in cui si riproducono, e se possibile amplificano, i medesimi difetti di
costituzionalità riscontrati con riferimento al Porcellum: l’impossibilità di
esprimere preferenze a causa delle liste bloccate, e la previsione di un premio
di maggioranza senza l’indicazione di una soglia minima per la sua attribuzione[4].
Formalmente l’Italicum prevede che solo il
capolista sia bloccato, e dunque indicato dall’alto con possibilità di essere
eletto a prescindere dal legame con gli elettori. Peraltro si prevedono collegi
di dimensioni molto ridotte, da tre a sei seggi, sicché in pochi casi un partito
potrà eleggere più di un deputato, ovvero il capolista bloccato. La legge
prevede poi una soglia minima per attribuire il premio di maggioranza: il 40%
dei voti validi. Se però nessuna lista la raggiunge, il che non è certo
un’ipotesi remota, si ha un ballottaggio tra le due liste più votate con
attribuzione del premio a quella che ottiene maggiori voti. Il risultato è che
liste con un gradimento indefinito, comunque al di sotto della soglia del 40%,
possono ottenere la maggioranza assoluta dei seggi.
I referendum sull’Italicum mirano a rimuovere
dalla legge questi due aspetti[5],
parte integrante del tentativo di sacrificare la volontà popolare che trova il
suo apice nella riforma costituzionale. La raccolta delle firme, realizzata
insieme a quella per la consultazione sulla riforma costituzionale, è iniziata
il 9 aprile e durerà sino all’8 luglio.
Scuola e università
I media non ne parlano, ma dal 9 aprile, e fino
all’8 luglio, è in corso anche la raccolta di firme per i cosiddetti referendum
sociali: un pacchetto di quesiti che si occupano di scuola e ambiente.
Quattro sono i quesiti dedicati alla scuola.
Mirano a smontare le parti più odiose della riforma varata la scorsa estate dal
Governo Renzi, quella volta a demolire i fondamenti dell’istruzione pubblica, la
cui portata eversiva è stata occultata dietro il nome rassicurante di “buona
scola”[6].
La riforma ha complessivamente trasformato la
scola da luogo di trasmissione del sapere critico, indispensabile alla
costruzione di una cittadinanza consapevole, a luogo in cui si veicolano e
praticano valori aziendalisti. Ha cioè amplificato la complessiva tendenza ad
assolutizzare le dinamiche del mercato come punto di riferimento per definire lo
stare insieme come società: per confondere l’inclusione nel mercato con
l’inclusione sociale. Il tutto alimentato da un’errata concezione del rapporto
tra mondo del lavoro e mondo dell’istruzione: che deve ovviamente esserci, come
deve esserci il rapporto con la società in genere, tuttavia non per trasformare
il mondo dell’istruzione in un passivo ricettore delle istanze provenienti dal
mondo del lavoro, bensì per realizzare scambi virtuosi, comprendenti anche la
possibilità per il sistema formativo di condizionare le scelte del sistema
produttivo.
Con i primi due referendum si chiede di abolire
i poteri incontrollati del dirigente scolastico, che attentano alla libertà di
insegnamento e incentivano a gestire l’istituto in modo clientelare e comunque
poco trasparente: il potere di scegliere e confermare i docenti, e il potere di
scegliere se destinare loro incentivi premio. Un terzo referendum mira invece a
eliminare l’obbligo dell’alternanza scuola lavoro, per cui gli studenti sono
tenuti a trascorre un periodo di almeno duecento ore, se si tratta di licei, o
quattrocento ore, se si tratta istituti tecnici, presso imprese e altri enti
pubblici o privati. Il tutto sottraendo tempo alla didattica e soprattutto in
assenza di coordinamento con la didattica, dal momento che l’alternanza scuola
lavoro, se obbligatoria per un elevato monte di ore, incentiva la formazione di
una massa di lavoratori non pagati da destinare a mansioni poco o per nulla
qualificanti. Con il quarto referendum si vuole infine cancellare la possibilità
di donazioni a singole scuole, possibilità che crea una perversa gerarchia tra
istituti più o meno beneficiati da finanziatori privati, e a monte un’odiosa
competizione tra istituti per soddisfare le necessità di quei finanziatori,
magari ripagati destinando loro forza lavoro nell’ambito del sistema
obbligatorio di alternanza[7].
In tema di istruzione c’è un’altra iniziativa
volta in ultima analisi a difenderne e a rilanciarne il carattere pubblico. È la
proposta di legge di iniziativa popolare sul diritto allo studio, elaborata da
un nutrito gruppo di sigle del mondo universitario, per porre rimedio a uno dei
tanti tristi primati italiani: un numero di laureati dimezzato rispetto alla
media europea, dovuto alla cronica carenza di fondi e strutture[8].
L’iniziativa legislativa popolare è prevista
dalla Costituzione, per cui la proposta deve essere sostenuta da almeno
cinquantamila cittadini (art. 71), chiamati a sottoscriverla con le medesime
modalità previste per i referendum[9].
Non sono fissati termini entro cui la proposta deve essere discussa dal
Parlamento, e difatti questo è finora avvenuto in meno della metà dei casi,
senza che peraltro l’esito sia poi stato particolarmente lusinghiero: nel corso
degli anni poco più dell’1% delle proposte di iniziativa popolare sono state
approvate e sono divenute legge. Ciò nonostante l’iniziativa riveste un notevole
significato politico, giacché punta a coordinarsi con la campagna per i
referendum sociali, motivo per cui la raccolta di firme è iniziata il 9 aprile e
proseguirà sino all’8 luglio.
Ambiente
Passiamo ai referendum sociali sulle tematiche
ambientali[10].
Il primo è particolarmente significativo, perché mira a rilanciare rispetto a
quanto richiesto con il referendum dello scorso 17 aprile: ottenere il divieto
di nuovi interventi di perforazione ed estrazione di idrocarburi anche sulla
terra ferma e anche in mare oltre le dodici miglia. Questo risultato si ottiene
incidendo sulla disciplina del piano energetico nazionale laddove si elencano le
zone in cui è vietata la prospezione, la ricerca e l’estrazione di idrocarburi:
eliminando l’elenco delle eccezioni resta il divieto come regola[11].
Il tutto per fermare le oltre cento richieste attualmente pendenti, a riprova
dell’urgenza di mettere finalmente la parola fine allo sfruttamento delle
risorse naturali che producono profitto per pochi e danni ambientali
irreversibili per tutti.
Va nella stessa direzione il secondo referendum,
con il quale si chiede di superare le disposizioni del cosiddetto provvedimento
Sblocca-Italia che incentivano il ricorso all’incenerimento dei rifiuti, e
dunque colpiscono la salute dei cittadini e vanificano gli sforzi volti a
incrementare la raccolta differenziata e il riciclaggio. La disposizione che si
vuole abrogare stabilisce tra l’altro che gli inceneritori sono opere
strategiche di preminente interesse nazionale, la cui realizzazione e
localizzazione spetta pertanto al governo nazionale, senza che le Regioni
abbiano nel merito voce in capitolo o il diritto di opporre limiti di
conferimento[12].
Beni comuni
I promotori dei referendum sociali hanno incluso
tra le loro iniziative anche la raccolta di firme in calce a una petizione sul
tema dell’acqua bene comune. La petizione è anch’essa uno strumento di
democrazia diretta, tuttavia piuttosto debole: la Costituzione la prevede,
stabilendo solo che può riguardare la richiesta di provvedimenti legislativi o
l’esposizione di comuni necessità, e che va diretta alle Camere (art. 50). Nulla
si dice a proposito del numero di firme necessarie, né tanto meno circa un
eventuale obbligo del Parlamento di prenderla in considerazione.
Peraltro, in questa materia, neppure gli altri
strumenti di democrazia diretta hanno sortito gli effetti sperati e comunque
previsti dalla legge. Come è noto, infatti, i referendum del 12 e 13 giugno 2011
avevano per un verso eliminato la possibilità di ricavare proventi dalla
gestione del servizio idrico, con la finalità, evidenziata dalla Consulta, di
renderlo “estraneo alle logiche del profitto”[13].
Per un altro verso avevano abrogato le norme che imponevano la privatizzazione
dei servizi pubblici locali di rilevanza economica: non solo di quelli idrici,
come è stato chiarito nuovamente dalla Consulta nella sentenza che ha dichiarato
l’incostituzionalità di una legge con cui il governo Berlusconi aveva inteso
vanificare l’esito referendario[14].
A distanza di cinque anni dal referendum
sull’acqua, Renzi coglie l’occasione per fornire l’ennesimo riscontro della sua
naturale inclinazione a seguire le orme del Signore di Arcore, se possibile con
maggiore disprezzo per la volontà popolare. Il Testo unico sui servi pubblici
locali, attuativo della cosiddetta Legge Madia sulla riorganizzazione della
Pubblica amministrazione, rilancia la privatizzazione dei servizi, la loro
gestione in regime di concorrenza e il ruolo dei privati, reintroducendo nel
merito la possibilità di prevedere nella tariffa una quota di profitto[15].
Ebbene, con la petizione si chiede di rispettare
l’esito referendario del 2011, e quindi il ritiro del Testo unico sui servizi
pubblici locali. Non si tratta qui solo di ripristinare la volontà popolare, ma
anche di mettere in luce la comune matrice della sua compressione e
dell’insofferenza verso i beni comuni: beni che richiedono una gestione
partecipata, capace di preservarne la fruizione da parte delle generazioni
future, scandita dalle regole della democrazia piuttosto che da quelle del
mercato. Il tutto sancito dalla richiesta, contenuta anch’essa nella petizione,
di inserire nella Costituzione il diritto all’acqua, per sottrarre finalmente le
sorti di questo bene alla voracità delle contingenti maggioranze parlamentari[16].
Lavoro
Non fanno formalmente parte dei referendum
sociali, ma ne completano idealmente la filosofia di fondo, i tre proposti dalla
Cgil e dedicati a quella riforma del lavoro che, ricorrendo alla lingua inglese
e alla sua capacità di occultare il senso delle cose, è stata chiamata jobs act[17].
La Costituzione italiana colloca il lavoro al
centro del patto sociale. Per un verso stabilisce in capo ai cittadini un dovere
di svolgere un’attività concorrente al progresso sociale, tutelandoli però in
caso di inabilità, infortuni, malattia, invalidità e vecchiaia, e per un altro
prevede un diritto all’equa retribuzione e un complesso di diritti sociali
destinati a liberare dal bisogno e a promuovere il pieno sviluppo della persona.
Accade invece l’opposto: il lavoro viene sempre più precarizzato e svalutato,
quindi sempre più accostato a una relazione di mercato qualsiasi, mentre lo
Stato sociale è in costante ritirata, sostituito da un mercato sempre più
famelico.
La riforma del lavoro voluta da Renzi
costituisce forse l’atto più arrogante ed esplicito in quella direzione, e i
referendum mirano a smantellare alcuni degli aspetti più odiosi. Il primo punta
alla cancellazione del lavoro accessorio[18],
trasformatosi nel tempo in una forma di sfruttamento e di elusione di norme
fiscali e previdenziali. Con il secondo referendum si vuole reintrodurre la
responsabilità solidale dell’appaltante e del committente in tema di
organizzazione del lavoro e di trattamento riservato ai lavoratori[19].
Il terzo referendum riguarda invece il cosiddetto contratto a tutele crescenti,
per il quale è stato sostanzialmente eliminato il reintegro in caso di
licenziamento illegittimo, che si vuole invece ripristinare[20].
Questi tre referendum, per i quali si raccolgono
le firme nello stesso periodo previsto per i referendum sociali, ovvero dal 9
aprile all’8 luglio, si affiancano a una proposta di legge di iniziativa
popolare: quella per l’adozione di una “Carta dei diritti universali del
lavoro”, da intendersi come “nuovo statuto delle lavoratrici e dei lavoratori”[21].
Il testo non si sostituisce allo statuto attualmente in vigore, quello approvato
quasi mezzo secolo fa[22],
ancora attuale ma alterato nello spirito, se non altro per lo svuotamento della
tutela contro i licenziamenti illegittimi. Del “vecchio statuto” si mantengono
infatti le disposizioni favorevoli al lavoratore, che il “nuovo statuto” intende
completare per dare attuazione, nella mutata realtà economica e sociale,
all’imperativo contenuto nella Costituzione: tutelare il lavoro “in tutte le sue
forme ed applicazioni” (art. 35). Ecco perché l’articolato si rivolge a “tutti i
lavoratori titolari di contratti di lavoro subordinato e di lavoro autonomo
anche nella forma di collaborazione coordinata e continuativa pure se
occasionale” (art. 1), e ripristina inoltre il reintegro come misura generale
prevista per i licenziamenti illegittimi, anche nei confronti dei datori di
lavoro che impiegano meno di quindici dipendenti (art. 83).
La Lettera della Bce
Da notare che l’approvazione della Carta dei
diritti universali del lavoro porterebbe anche a eliminare la possibilità, per
la contrattazione collettiva a livello aziendale o territoriale, di derogare in
peggio a quanto previsto negli accordi nazionali, e persino dalla legge (art.
38). È quanto venne consentito da un contestato provvedimento emanato dal
Governo Berlusconi nella calda estate del 2011[23],
quando il mitico spread era alle stelle e la Banca centrale europea ne
approfittò per indirizzare la famosa lettera contenente l’elenco delle riforme
poi realizzate da Mario Monti, Enrico Letta e infine, senza soluzione di
continuità, da Renzi.
Quella lettera, che come è noto è divenuta la
Costituzione materiale italiana, eversiva rispetto a quella nata dalla
Liberazione, ma seguita alla lettera da tutti i governi, ha ispirato molte delle
scelte contro cui si indirizza la nuova stagione di democrazia diretta. Chiede
in effetti “la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali”, oltre che di
“migliorare l’efficienza amministrativa e la capacità di assecondare le esigenze
delle imprese”. E impone alle autorità italiane di procedere a “un’accurata
revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei
dipendenti”, oltre che di “riformare ulteriormente il sistema di contrattazione
salariale collettiva: permettendo accordi al livello d’impresa, in modo da
ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle
aziende, e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di
negoziazione”[24].
Se la stagione di democrazia diretta che ci
aspetta avrà successo, sarà anche l’occasione per rifiutare la logica delle
politiche austeritarie che impediscono lo sviluppo dell’Europa politica e
sociale, e che trasformano quella economica e monetaria in un strumento di
dominio plasmato a immagine e somiglianza delle necessità tedesche. Questa
indicazione non potrà che venire dal basso, posto che i vertici governativi sono
tutt’al più capaci di formulare qualche patetico brontolio, buono solo a
nascondere l’assenza di prospettive e l’incapacità di resistere ai diktat di
Bruxelles. O in alternativa a occultare l’intima volontà di assecondare
Bruxelles, le cui politiche sono spesso funzionali a soddisfare le richieste dei
centri di interessi che anche il Governo Renzi, come i suoi predecessori, ha
inteso privilegiare.
Oltre i referendum
Durante la campagna per i referendum del 17
aprile, Renzi, come Craxi, ha invitato i cittadini a disertare le urne e ad
andare al mare. Diversamente dall’esule di Hammamet, che non venne ascoltato e
diede così avvio al suo declino, il bullo di Firenze è per ora riuscito nel suo
intento. La sua rovina potrebbe però essere solo una questione di tempo, giacché
i mesi a venire offrono molte opportunità per ribadire che chi di arroganza
ferisce, di democrazia diretta perisce.
Potrebbe essere anche l’occasione per
ricompattare e rinnovare la sinistra e la sua idea di società, per ritrovare i
fili di un’identità perduta, e di nuove forme per esprimerla. La materia grezza
non manca: ci sono i contenuti, ovvero la difesa della democrazia come valore da
affermare nella sfera politica così come nella sfera economica, e c’è una folta
schiera di persone e gruppi disposti a lottare per imporre quei contenuti
nell’agenda politica e nel dibattito pubblico. È opportuno ricordarli e metterli
in fila, per rendersi conto del quadro che si sta formando sotto i nostri occhi,
e che il silenzio assordante dei media punta a non farci vedere.
I referendum sulla riforma costituzionale e
sulla legge elettorale sono stati promossi in particolare dal Coordinamento per
la democrazia costituzionale, nel quale sono attivi diverse personalità della
politica e della cultura, come Alessandro Pace, Stefano Rodotà, Massimo Villone
e Gustavo Zagrebelsky, ma anche diverse associazioni: tra queste Articolo 21,
l’Associazione per il rinnovamento della sinistra, Giuristi democratici, Il
Manifesto in rete e Libertà e giustizia. Non mancano poi organizzazioni
sindacali, come Fiom e Usb, e politiche come Rifondazione comunista e L’Altra
Europa[25].
I referendum sociali sono stati promossi dalla
Campagna stop devastazioni, dal Comitato blocca inceneritori, dal Forum italiano
dei movimenti per l’acqua, dal Movimento per la scuola pubblica. A quest’ultimo
aderiscono tra gli altri i Cobas, la Flc-Cgil e il movimento nato attorno alla
Legge di iniziativa popolare per una buona scuola per la Repubblica, che nel
2006 ha raccolto centomila firme, il doppio di quelle previste dalla
Costituzione per la sua presentazione[26].
La proposta di iniziativa popolare sul diritto
allo studio è stata avanzata da un folto gruppo di sigle del mondo universitario
e non, comprendenti fra l’altro l’Associazione dottorandi e dottori di ricerca
italiani, l’Arci, la Flc-Cgil, la Fiom, Legambiente, Link - Coordinamento
Universitario, il Comitato di sostegno alla legge di iniziativa popolare per una
buona scuola per la Repubblica, l’Unione degli studenti, oltre ad alcune forze
politiche: in particolare Rifondazione comunista e Sel - Sinistra italiana.
Quanto ai referendum e alla legge di iniziativa
popolare proposti dalla Cgil, il tutto è stato presentato, discusso e avallato
nel corso di oltre quarantamila assemblee nei luoghi di lavoro, con il
coinvolgimento di un milione e mezzo di lavoratori.
Insomma, si sta appalesando una naturale
alleanza di sindacati, movimenti e singoli, che da più parti viene ritenuta il
presupposto per rifondare un progetto politico di sinistra. Un progetto
abbastanza ampio e forte da evitare che sia egemonizzato, e dunque condannato
all’insuccesso, dai partitini che litigano alla sinistra del Pd, innanzi tutto
per decidere se convenga o meno accettare o proporre alleanze elettorali con il
renzismo.
Ovviamente l’ampiezza e la forza del progetto
dipende anche dalla capacità di stare insieme innanzi tutto durante la campagna
referendaria. Peraltro questa è molto utile a far emergere aspetti qualificanti
di quel progetto, ma è insufficiente a farlo percepire nella sua totalità.
Occorre dunque andare oltre la campagna referendaria, immaginare forme di
collaborazione e integrazione che consentano di non disperdere quanto si sarà
nel frattempo costruito, recuperando in questo modo molte delle idealità
espresse con il lancio della Coalizione sociale[27]:
scomparsa prima ancora che potesse mostrare ciò di cui poteva essere capace.
NOTE
[1] Testo
di Legge costituzionale 12 aprile 2016 (Disposizioni per il superamento del
bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il
contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del
Cnel e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione).
[2] Corte
costituzionale, 13 gennaio 2014, n. 1.
[3] Legge
6 maggio 2015, n. 52 (Disposizioni in materia di elezione della Camera dei
deputati).
[4] Corte
costituzionale, 13 gennaio 2014, n. 1.
[5] I
quesiti sono pubblicati nella Gazzetta ufficiale dell’11 dicembre 2015, n. 288.
[6] Legge
13 luglio 2015, n. 107 (Riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione
e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti).
[7] I
quesiti sono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale del 19 marzo 2016, n. 66.
[8] Cfr.
http://linkcoordinamentouniversitario.it/wp-content/uploads/2016/02/Lip-dsu-in-pillole.pdf.
[9] Art.
49 Legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla
Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo).
[10] I
quesiti sono pubblicati nella Gazzetta Ufficiale del 19 marzo 2016, n. 66.
[11] Cfr.
art. 4 Legge 9 gennaio 1991, n. 9 (Norme per l’attuazione del nuovo piano
energetico nazionale: aspetti istituzionali, centrali idroelettriche ed
elettrodotti, idrocarburi e geotermia, autoproduzione e disposizioni fiscali).
[12] Cfr.
art. 35 Legge 11 novembre 2014, n. 164 (Misure urgenti per l’apertura dei
cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese,
la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la
ripresa delle cattività produttive).
[13] Corte
costituzionale, 26 gennaio 2011, n. 26.
[14] Corte
costituzionale, 20 luglio 2012, n. 199.
[15] Cfr.
il testo nella forma dello schema (che ha poi ricevuto la bollinatura della
Ragioneria generale dello Stato il 29 febbraio):
http://www.funzionepubblica.gov.it/sites/funzionepubblica.gov.it/files/Dlgs_Servizi_pubblici_locali_1.pdf.
[16] Il
testo della petizione: http://www.referendumsociali.info/wp-content/uploads/2016/04/Petizione_popolare_alle_camere.pdf.
[17] I
quesiti sono pubblicati nella Gazzetta ufficiale del 23 marzo 2016, n. 69.
[18] Sono
interessati gli artt. 48-50 Decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81
(Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema
di mansioni, a norma dell’art. 1, comma 7, della Legge 10 dicembre 2014, n.
183).
[19] Si
incide sull’art. 29 Decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 (Attuazione
delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla Legge
14 febbraio 2003, n. 30).
[20] Sono
interessati il Decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia
di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti) e parti del
nuovo art. 18 Legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei lavoratori).
[21] Testo
e commento: www.cgil.it/admin_nv47t8g34/wp-content/uploads/2016/01/Commentario_Carta_dei_diritti.pdf.
[22] La
legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei
lavoratori, della libertà sindacale e nell’attività sindacale nei luoghi di
lavoro e norme sul collocamento).
[23] Art.
8 Decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito nella Legge 14 settembre 2011
n. 148.
[24] Cfr.
il testo della lettera:
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-09-29/testo-lettera-governo-italiano-091227.shtml?uuid=Aad8ZT8D.
[25] Elenco
completo in https://coordinamentodemocraziacostituzionale.net.
[26] Notizie
in http://lipscuola.it/blog.
[27] Ho
approfondito questi aspetti in A. Somma, L’altra faccia della
Germania. Sinistra e democrazia economica nelle maglie del neoliberalismo,
Roma, 2014 e Id., Il mosaico della sinistra. Cinque tesi sulla cosa
rossa (9 novembre 2015), http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-mosaico-della-sinistra-cinque-tesi-sulla-cosa-rossa.