Di Abramo e di altri racconti

 

Franco Barbero

 

(da alcuni incontri sulla Bibbia svolti c/o il gruppo Primavera)

Sbobinatura e adattamento non rivisto dall’autore

 

In “cdb informa” n° 61 giugno 2015

 

Tutta la storia d’Israele è un intreccio di persone che hanno una relazione con Dio, che stanno al suo cospetto. Egli  non suggerisce le risposte ma dà la forza per trovarle, è un Dio che sta nel loro cuore, da cui nascono scelte responsabili. E’ la forza che suscita responsabilità. Quello che noi, nel linguaggio cristiano, chiameremo lo “Spirito Santo” era,  nel linguaggio ebraico, la Ruah: Dio che investe le nostre vite, che suscita libertà, responsabilità, forza.

In un bellissimo libro della pastora battista Lidia Maggi: «L’elogio dell’amore imperfetto» si legge che la storia di Israele con Dio è il racconto di una relazione tortuosa. Lui ce la mette tutta: il popolo fa bizzarrie, tradimenti, si allontana, ma Dio ritorna sempre in campo. E’ una storia in cui c’è il codice di lettura di tutta la Bibbia. Un rapporto tortuoso, un amore difficile, dove entrano in gioco la fedeltà e l’infedeltà. Un Dio quasi disperato per questo popolo, ma che non lo abbandona mai e alla fine gli uomini e le donne tornano sempre a cercarlo.

Nella Bibbia troviamo individui che sanno cercare le domande,  che non ne eludono nessuna, che stanno davanti all’inquietudine del mondo e si domandano spesso: “Dio dove sei? Perché non agisci, perché ti rendi assente, perché trionfano gli empi?”. La prima onestà della Bibbia è in questo ascoltare la vita, accogliere le domande e quindi imparare l’Ecad, in ebraico “ascolta”. “Ascolta Israele ho qualcosa da dirti, nella vita ti parlerò, ascolta”. Noi paradossalmente leggiamo la Bibbia per imparare ad ascoltare. E’ significativo il fatto che l’ebraismo incominci la giornata con “Ascolta Israele”.

Se noi avessimo voluto tessere un elogio storico di un popolo, avremmo cercato di purificare le memorie, avremmo preso i tratti più belli, tolto le storie più caduche e più imperfette. Invece la bellezza della Bibbia sta in questo far vedere il tormento di Dio e il tormento del popolo. Un rapporto difficile come è difficile la Storia, come è difficile un amore, come è difficile la solidarietà. Un testo pieno di gioia, di calore e di gelo: questa è la Bibbia! Per noi entrare in un mondo simile è veramente difficile! Vorremmo pensare il rapporto con Dio come una relazione facile, un idillio, dove ci sentiamo tutti sollevati ed è vero che nella dimensione della fede c’è un rapporto con l’Altissimo che dà pace, serenità, gioia, ma è tutto sul piano della nostra responsabilità, l’Eterno non “cala dall’alto” delle risposte.

Non dobbiamo credere di dover estrarre dalla Bibbia la soluzione ai nostri problemi, non ci scarica dalle nostre responsabilità. Il suo input è di darci pochi, fondamentali, strutturanti messaggi per la nostra vita: “adora Dio, ama il prossimo tuo come te stesso”, il resto è ciò che noi dobbiamo interpretare della storia. L’annuncio e le culture non si sovrappongono: dentro il variare delle conoscenze e delle tradizioni devo interpretare come vivere il messaggio. Come farò ad adorare Dio in questa società? Come farò ad amare il prossimo in questi giorni della lotta per i diritti, contro le disuguaglianze e la povertà? I racconti biblici non mi forniscono soluzioni, mi danno degli input e mi dicono: “In altri tempi, altri credenti hanno dato delle risposte, fidando nella compagnia di Dio e tu, nel tuo tempo, come le cerchi? Non credere di trovare la soluzione di tutto, ma sappi che l’Altissimo ti accompagna nel cercarla!”. Noi leggiamo la Bibbia per ascoltare delle esperienze e per capire il messaggio e la presenza di Dio che le ha sorrette. Ci consola il fatto che sono tutte pratiche imperfette di pellegrini della storia, uomini e donne alla ricerca di risposte nella preghiera, nell’azione, nei molti tentativi. Una bellezza che solo chi vive davvero la vita può apprezzare.

Un’altra cosa che volevo citare è lo “shamar” ebraico, il “custodire”. Certo prima ci vuole l’interpretazione, occorre la scienza biblica: tutto questo è importante, ma poi bisogna arrivare a “custodire” la Parola. Conoscere la Scrittura per custodire la Parola. E’ una cosa molto importante lo Shamar. E’ un dato di  fatto che io possa leggere tutta la Bibbia e non custodirla, devo invece familiarizzare con essa, non averla solo nella mia biblioteca, ma tenerla tra le mie mani! Solo se si “convive” con essa, solo se diventa un riferimento abituale, se la leggo e rileggo, io imparo a penetrarne il senso! Non devo leggerla nel modo frettoloso con cui leggiamo il giornale. La Bibbia va lasciata penetrare dentro, che ci ispiri, che ci dica e che ci ridica ancora. Tanti brani vanno letti e riletti, lasciati sedimentare dentro di noi. Sotto questo aspetto un altro libro di Lidia Maggi: «Dire, fare, baciare» ci ricorda che, nei racconti ebraici, Dio bussa al nostro cuore infinite volte, ci dice una parola, però non la grida, ce la mette lì vicino e dice: “ Chissà se tu mi aprirai la porta!”. Sono tantissimi i midrash ebraici che narrano di questo atteggiamento di Dio: “Voglio che sia tu ad aprire la porta, non la forzerò. La porta della tua vita è tua, io la rispetterò. La mia parola sta vicino a te”. Altre volte invece la Bibbia rovescia i toni e dice che Dio è un torrente impetuoso che ti trascina via.

Importante poi è la passione con cui io leggo queste pagine per raccogliere una testimonianza, sapendo che questa non è il passaggio da una cultura ad un’altra: lì c’è la narrazione di una fede che deve parlare al mio percorso.

Alcune parole sul concetto di Rivelazione: quando studiavo il trattato di “De Divina rivelazione” si diceva che Dio aveva quasi mosso la mano degli scrittori. Come affermavamo all’inizio, la Bibbia è la testimonianza di uomini e donne che hanno creduto e ci dicono: “Questa è stata la nostra fede, vedete se vi può servire, dentro il vostro tempo. Noi abbiamo fatto questi percorsi”.

Come cristiani abbiamo individuato nei due Testamenti delle testimonianze preziose, il racconto però continua,sta a noi farlo procedere. Lì ci sono delle sorgenti, ma non è una “soffiata” di Dio, è ciò che quei credenti hanno capito del loro travagliato rapporto con Lui. E’ una lettura che parte dalla fede e mi spinge a cercare la testimonianza di altri credenti. Questa è a rivelazione che il nostro presente incontra, con la quale deve fare i conti, senza rinchiudersi su se stesso, perché altrimenti non raccoglieremmo le narrazioni dei percorsi di fede del passato. Il concetto base è che Dio mi viene incontro nella storia. Questi uomini e queste donne mi hanno detto come loro lo hanno cercato, trovato, vissuto, ma io oggi devo dare la mia risposta. La testimonianza non serve se non a risvegliare la mia responsabilità. Avere delle testimonianze è importante, noi non viviamo nel vuoto!

 

Genesi

 

Una narrazione  straordinaria di percorsi di fede la troviamo in Genesi, che è un piccolo gioiello letterario. In questi racconti che gli ebrei hanno collezionato, non sempre trovate un passaggio logico da un capitolo all’altro, ma sono un gioiello perché è l’ebreo che si interroga, che non celebra se stesso, ma la fiducia in Dio e la Sua presenza nel mondo. Mi sono molto servito, per queste note, di Elena Bartolini, una biblista ebraica molto sensibile al tema dello smarrimento nella storia, della complessità del vivere. E’ uno degli elementi che mi affascina di più dell’ebraismo, lo trovo vivendo i nostri giorni, quei pochi e contati che ci sono dati, pieni di domande e di interrogativi, ma dove la benedizione di Dio non viene meno. Certamente la storia è luogo di tantissime domande. Leggendo i 50 capitoli di Genesi si può assaporare cos’è la storiografia biblica. Vediamone alcuni esempi nei suoi racconti più significativi, tralasciando i capitoli sulla creazione di cui abbiamo già parlato altre volte.

 

Caino e Abele

 

Il racconto è un midrash fatto per interrogarci; è una specie di provocazione, perché uno che lo legge si domandi come mai Dio preferisce Abele, Hevel in ebraico, che significa “leggero come un soffio, che non conta nulla”. Essere un Abele in ebraico voleva dire: “Sei una nullità”, Dio preferisce il sacrificio della nullità. Questo racconto viene scritto al ritorno in Palestina dopo l’esilio a Babilonia. I reduci trovarono una società impoverita e diversa da quella che avevano lasciato. I contrasti e le discriminazioni si accesero subito. Il redattore si schiera ed attraverso il racconto dice: “Non conta essere reduci o residenti, conta che Dio sceglie gli ultimi!”. Abele è poi diventato un nome.  Dio preferisce lui. Ma dopo tutelerà anche Caino: anche lui non esce dalla benedizione.

 

La torre di Babele

 

La torre di Babele è in un momento particolare della Bibbia. Fino a poco prima si parla di tante lingue, tante nazioni, tante culture poi ad un certo punto, come d’incanto, spunta una torre. La lettura ebraica e quella cristiana di questo testo sono molto differenti. La lettura cristiana: Agostino, la patristica e poi Tommaso l’hanno letto come l’umanità che sfida Dio ed allora Egli la punisce. Il racconto è stato usato soprattutto nel Rinascimento e nell’Umanesimo per condannare la crescita umana; è stata una lettura tragica, come se Dio fosse geloso del progresso dell’umanità. L’ebraismo ne diede un’interpretazione diversa: “Certo che noi non possiamo credere di essere chissà chi, ma il problema vero è se ci chiudiamo tra di noi o se invece rimaniamo aperti al plurale del mondo”. Questo brano viene redatto quando gli esiliati a Babilonia ritornano in Palestina, siamo nel 539/537 a.C., e la trovano occupata, oltre che dalla povera popolazione rimasta, da popoli stranieri di altre lingue, altre culture. I reduci erano una parte degli esuli, perché alcuni non partirono e si stabilirono a Babilonia. Quelli che ritornarono in una prima e poi in una seconda ondata dovettero affrontare alcuni problemi: non c’era più il Tempio, distrutto da Nabucodonosor; molte terre e possedimenti erano occupati e ciò innescò dispute, conflitti ma, soprattutto, si trovarono in un contesto culturale e religioso diverso, con simboli religiosi, feste e lingue che non erano le loro. Si divisero sulle strategie e le soluzioni da mettere in atto. Ci fu una chiusura che portò ad una legislazione che proibiva i matrimoni misti, la partecipazione a culti e feste straniere: anche lì una parte era della “Lega nord”! Queste posizioni non furono condivise da tutti. La corrente che sta dietro i libri di Rut, di Giona ed a tutta una serie di altri libri disse: “No, l’unico nostro avvenire è di gettare ponti con tutti! Il miglior modo di essere noi stessi è quello di non chiuderci, di non isolarci, ma di dialogare con gli altri. E’ un errore formidabile quello di equiparare l’identità con l’isolamento e dobbiamo, anzi, favorire ogni pacifica convivenza: i problemi reali si risolvono solo insieme!”. Si tratta di due tradizioni che si scontrano in modo acerrimo, due letterature, perché invece i libri storici, Cronache ed altri, dicono: “No, non è possibile l’integrazione”. Si tratta di un conflitto teologico durissimo, due correnti dentro la stessa tradizione ebraica. Per fortuna prevalse, lentamente, quella saggia: “Bisogna imparare a convivere”. Ebbe il sopravvento perché questo messaggio veniva da chi era nella diaspora in Egitto e a Babilonia. Queste minoranze dissero: “Guardate che noi qui siamo veramente ebrei fedeli alla nostra tradizione, ma lo siamo dentro il plurale! Se a Babilonia o in Egitto ci isolassimo, faremmo la fine del topo! Abbiamo il nostro quartiere, ma partecipiamo alla vita di queste comunità e manteniamo rapporti con tutti”.

Dalla diaspora vengono le voci più libertarie. La redazione della torre di Babele nasce in questo momento, era un mito antico, ma viene riportata dentro questo contesto: “Se vogliamo vivere da ebrei non abbiamo altra strada che mescolarci. Non significa parlare tutti la stessa lingua, ma significa essere fedeli: amerai il Signore Dio tuo  e il prossimo tuo come te stesso”. E qui nasce la legislazione avanzata per il rispetto della vedova, l’orfano e lo straniero.

La torre di Babele nasce per dire: “Ricordatevi che ogni volta che ci si chiude si finisce nel nulla; la volontà di Dio è il molteplice”. In Genesi l’antenato degli ebrei, Eber, viene messo insieme agli altri. Avete presente questo lungo elenco di nomi? Nella mappa dei popoli Dio non ha detto: “C’è il primo della classe”. Quando si deve affrontare la storia e avvengono le sfide, la tentazione è quella di chiudersi. Il redattore della torre di Babele dice: “Dio vuole il plurale:  essere se stessi, ma accettando le molte lingue, le molte tradizioni”. La bellezza dei testi biblici è che hanno una storia, hanno un humus sapienziale, hanno un percorso di dibattito e di dialettica.

E’ con questa consapevolezza che Dio non si può rinchiudere nei nostri “recinti” ed è sempre al di là delle nostre definizioni che nacque teologia del pluralismo religioso, che non significò mettere tra parentesi o negare la propria strada, ma avere coscienza Dio è più grande di ogni strada. E’ bello sapere che Dio è più grande del cristianesimo! Io percorro con gioia la mia strada, ma Dio non è cristiano. Noi invece facendo di Gesù un dio, abbiamo fatto Dio cristiano. Questa è la storia tragica delle missioni, della colonizzazione. Un’altra cosa importante è che la diaspora o dispersione sembrò nella prima lettura una maledizione, invece nell’ebraismo, e potremmo dire anche per noi, è stata una benedizione. Sovente scopriamo noi stessi solo nella relazione con chi è diverso da noi; è un dato che la psicologia e la psicanalisi hanno confermato: non si diventa davvero una donna e un uomo adulti senza aver incontrato l’altro: questa è la prospettiva dell’umanità.  La diaspora è il luogo in cui viene fuori il meglio di ciò che siamo perché dobbiamo esercitare il dialogo, il confronto; è una benedizione, perché ci fa vedere che il mondo è più del mio villaggio e mi dimostra che la benedizione di Dio è estremamente ramificata e diffusa.

 

I patriarchi

 

Nella Bibbia la storia continua con le vicende dei Patriarchi. E’ una narrazione che non ha i canoni della storiografia moderna, ovviamente, viene redatta al rientro da Babilonia ed è in larga misura di fonte P, la fonte sacerdotale. E’ una fonte che, al rientro da Babilonia, si domanda a chi ispirarsi per riprendere le fila interrotte ed allora attinge dalle antiche saghe (quelle di Abramo, Sara, Isacco, Rachele ed altre) e le cuce sapientemente insieme. C’è stato un momento nella storia di Israele, con l’esilio, in cui in cui tutto sembrava perduto, ma poi ripresero il cammino che iniziava dal giorno in cui un loro antenato partì e si mise in viaggio: Israele è il popolo del viaggio. E’ il Dio che ha chiamato i loro progenitori che li chiama ancora al viaggio ed in questo cammino ne succedono di tutti i colori. Se uno volesse scrivere l’albero genealogico della propria famiglia cercherebbe di selezionarlo un po’, ma a loro non interessa raccontarci una storia edificante, descrivere una discendenza pura, no, sono più interessati a dirci che, pur nelle contraddizioni, Dio ha continuato a guidare il suo popolo e che quindi la sua benedizione non è venuta mai meno. Dentro questa storia ci sono tutte le violenze, i tradimenti, le fragilità, le contraddizioni che noi troviamo nelle vicende umane: pensate all’episodio delle figlie di Lot, a quello di Tamar, non si possono certo definire edificanti!  Con un verismo e un’impressionante descrizione letteraria l’ebreo dice: “Questa è la nostra storia, noi non siamo una razza pura, ma la benedizione di Dio va avanti con noi e a volte nonostante noi.  La nostra storia non è finita soltanto perché Dio continuamente l’ha ripresa in mano e ci ha chiamato a muoverci. Come ha chiamato Abramo, così ha chiamato le figlie di Lot e Rebecca, dopo tutti i conturbamenti di Giacobbe”.

Questa chiamata continua ad essere viva ed è quello che l’ebreo chiama la “berakà di Yawhe”, ossia il fatto che Dio accompagna, conduce, non si stanca, non demorde. Anche il sangue non è solo sangue ebreo, perché Abimeleh, Melchisedek non sono ebrei. Nelle narrazioni c’è tutto un intreccio di pagani, stranieri, gente non conosciuta che entra nelle storie degli amori, dei possedimenti di terreni, nelle vicende addirittura cultuali di Israele. Chiunque voglia trovare la razza non la troverà, incontrerà invece la mescolanza: la storia è fatta di questo. E ciò che ha unito queste diversità è stata la fede in Yawhe, una fede radicale.

I personaggi di questi racconti sono dei prototipi: Abramo, più che un personaggio storico è un personaggio teologico; con Sara, con Rebecca sono colui, colei che, nonostante le imperfezioni umane, si sono fidati di Dio ed hanno intrapreso un cammino.

Nel racconto del sacrificio di Isacco uno dei significati possibili è che le cose non sempre si capiscono, a volte sono più grandi di noi, ma ci vuole una grande fiducia. La fede in Dio è una scommessa; qualche volta va oltre l’assurdo e solo nei secoli, come se fosse un’intricata matassa, si sbroglia; questo racconto è, insieme a quello di Giobbe, uno dei vertici dell’ebraismo.

Abramo, in quella terra che aveva conquistato il suo cuore, si sente dire per tre volte: “Vai, parti, prendi la tua decisione, prenditi le tue responsabilità. Ricordati Abramo, ricordati Isacco devi andare per conto tuo, devi diventare una persona responsabile!”. Non a caso questo viene detto del singolo e del popolo. Difficilmente voi potreste selezionare dei racconti edificanti, ma c’è una corposità intrinseca a questo intreccio narrativo, che è la densità della storia. La storia è questo: un intreccio di paradossi, di ombre, di oscurità, di negazioni, di perdizioni umane. Dio la recupera continuamente, accompagnandoci; non ci offre mai un orizzonte in cui tutto è risolto. Si tratta di vedere chi vuole fare questa scommessa con se stesso, con Dio, con il popolo, con il mondo: ed è un viaggio fatto di scommesse.