I DICO metteranno in crisi la famiglia?

 

Di Franco Barbero

 

In “cdb informa” n° 38 giugno 2007

 

Il 19 aprile si è svolto a Chieri, nel salone della sede di via San Giorgio 19, organizzato dalla Comunità Cristiana di base, dal Laboratorio Democratico e dal circolo “I Modiglioni” il dibattito su: “I DICO metteranno in crisi la famiglia? Il modello famigliare cristiano può essere l’unico modello riconosciuto per la nostra società” Hanno relazionato: don Franco Barbero della comunità cristiana di base di Pinerolo, Silvia Dicrescenzo del coordinamento donne DS, Gian Luigi Bonino capogruppo della “Rosa nel Pugno” al comune di Torino.

Riportiamo, non rivisto dall’autore, l’intervento di don Franco Barbero.

 

Io vorrei partire dal ricordo della sera in cui morì Welby. Vi sembrerà che inizi da un’altra parte per dirvi, da credente, da prete, il disagio che ho provato di fronte alla decisione di privarlo del funerale. Ma, al di là del mio disagio personale, che per la strada, in aereo, in treno ho risentito ingigantito, mi parve da subito molto leggibile lo scollamento interno alla chiesa cattolica. Da una parte una gerarchia che prende delle decisioni con una sua coerenza e dall’altra un sentire civico, culturale, cristiano, che dice: forse questa coerenza andrebbe rimessa in discussione. Forse questa coerenza è talmente rigida da imparentarsi con la disumanità. Perché ho voluto ricondurre questo inizio della mia piccola riflessione alla situazione Welby? Perché dentro la chiesa cattolica si vivono oggi delle tensioni che in quel momento si espressero bene. Mi ricordo le due suore che dissero al tg. 3: “noi siamo qui a pregare per Welby”. Ma altre volte non si esprimono così chiaramente. C’è effettivamente un momento in cui mi sembra di poter dire, con rispetto ma anche con serenità, che probabilmente, la cosiddetta istituzione ufficiale sta estraniandosi dai processi e dalla realtà del mondo in cui viviamo. La mia domanda è questa: possiamo vivere in riferimento a dei principi astratti, che io vorrei dire ellenistici, di un tempo filosofico determinato, prescindendo da questa modernità, nel bene o nel male? Vogliamo asserire l’assoluto in tutte le cose, o ci rendiamo conto che l’etica, la vita, è il luogo di un continuo patteggiamento, di una continua revisione, di una scelta del contingente, dello storico, del possibile. Io personalmente annoto questo elemento: mi sembra che si perda contatto con questa realtà. Ma notate non lo sto dicendo io. Se voi leggete quello che sui DICO ha detto monsignor Bettazzi, è proprio questo. Quello che ha detto il massimo teologo cattolico Giannino Piana è esattamente questo: perdiamo contatto con la realtà. Ho finito di leggere ieri l’ultimo libro del papa: “Gesù di Nazareth” e mi è sembrato di leggere questa onda profonda: che il grande nemico della fede è la modernità, e che i grandi nemici sono i teologi, i quali discutono troppo e così si perde l’orientamento.

Bisogna abitare il nostro presente, e non essere dei dirigisti ma degli uomini e delle donne che hanno appreso dalla storia l’esigenza di affrontare il contingente, l’umano, e che nessuna cultura, nessuna tradizione religiosa, oggi, nella complessità del reale, può essere in grado da sola di affrontare tutti i problemi. Di fronte ai problemi dell’ecosistema, delle biotecnologie, abbiamo bisogno di un pensiero molteplice. Perché il mondo è plurale. Il fatto di una societas che avesse in sè proprio la capacità di imporre un modello unico, mi ha sempre fatto credere che questa è un’operazione a imbuto, che non rispetta le persone. Invece, oggi, credo che si possa veramente guardare la realtà e scoprire che il modello unico è scoppiato e che ci sono più modi di amare. Uscire da un modello e quindi andare alla pluralità dei modi, fare sì che la legge, la statuizione giuridica, tenga conto di questo, mi pare un grande passo in avanti. Un grande passo di civiltà. In cui la mia fede non è per nulla estranea. A me non interessa, qui parlo come credente, che ci sia un modo solo di vivere la famiglia. Peraltro, d’accordissimo con voi, famiglia a cui tengo moltissimo, e non vedo come i DICO ne rappresentino una qualche minaccia. Siamo tutti d’accordo che bisogna fare di più per la famiglia. Ma se da un modello si passa a più modi di vivere la convivenza, la solidarietà, i beni e i doveri delle convivenze, mi pare che una comunità che vive nel mondo per annunciare la solidarietà dovrebbe essere partigiana di tutto questo, dovrebbe schierarsi. Soprattutto in un mondo che ha molti sfaldamenti, pieno di stupri, di violenze, di guerre. Riconoscere legalmente la possibilità di nuovi, arricchenti legami mi pare una grande ricchezza. Io temo che si perda contatto, che non si veda il bene dentro il travaglio di questa modernità disturbata, mobilitata, eppure capace di rinnovare tanti aspetti della nostra umanità, che non si veda che siamo di fronte ad una prigionia.

E’ vero che i DICO parlano di molte cose, ma rimane vero che dentro la chiesa il tasto più dolente è stato la perdita del modello unico. C’è un solo cristianesimo, si dice; mentre invece c’è ne sono tanti. Non c’è un solo vangelo, ne abbiamo almeno quattro. Il mito del modello unico funziona nella teologia, nella dogmatica, nella morale. Ed è un mito, non è la realtà. Ma è anche vero che oltre a questo, il terreno dell’omosessualità è molto sensibile. Per la gerarchia chiaramente perdere il modello unico è spiacevole. Ma è profondamente turbante, e qui si è scatenata in gran parte l’aggressività dei documenti e delle posizioni ribadite e ripetute, proprio il problema del rapporto omossessuale. Questo ha una storia. In breve, teologicamente la posso ripercorrere da “L’Humanae vitae” di Paolo VI. C’è soprattutto un decreto, sempre di quel papa, “Persona umana”, che nessuno ricorda, dove l’omosessualità viene vista come una devianza; quindi qualunque unione di persone dello stesso sesso è una devianza. Ma il documento che il cardinale Ratzinger scrisse (tre anni fa), che qui ho per intero, sull’obbligo che hanno i politici, gli amministratori, di obbedire al magistero e di non approvare nessuna legge che riguardi la possibilità giuridica di coppie di fatto dice, testualmente, che è una devianza. Si parla sempre nei termini di malattia e di anomalia. E’ questo, mi pare, che rende più aggressivo il discorso quando si arriva a tale questione. Devo dire, è un frutto di non conoscenza. L’associazione psichiatrica americana nel 1973 depennò l’omosessualità dalla possibilità di essere considerata malattia o disturbo. L’organizzazione mondiale della sanità nel 1993 proibì di curare gli omosessuali, dicendo che non sono collegabili al capitolo delle patologie. C’è un altro elemento, oltre al fatto di perdere il modello unico. Ci sono, in questa nota dei vescovi, che come sempre bisogna leggere per intero, delle cose di una gravità incredibile. Alcune sono delle non conoscenze, per usare un eufemismo, altre sono delle gravi menzogne. Ripetere testualmente che è un attentato alla famiglia non è onesto. Perché lo abbiamo detto in tutti i modi che non si tratta affatto di introdurre il matrimonio, non è il caso, anche se io da buon amico di Zapatero sarei molto d’accordo, ma la mia è un’opinione personale. I DICO sono altra cosa rispetto a questo. Mi ha impressionato che il documento cominci così “Noi che siamo i custodi di una verità e di una sapienza…”. Noi non siamo custodi della verità e della sapienza. Non è laico questo. Io non posso mettermi vicino a te e dire io rappresento i custodi della sapienza. Questa è un barzelletta. Oggi c’è così bisogno d’intrecciare le culture, la ricerca! Quello che il cardinale Hartz disse al Concilio: “dobbiamo passare dalla chiesa del dirigismo alla chiesa della compagnia”. Dobbiamo cercare insieme. Noi non abbiamo nessuna cartina di tornasole. Non abbiamo nessun documento d’infallibilità. Miti storicamente datati, da abbandonare, che hanno creato strutture ontologicamente di arroganza, al di là delle buone intenzioni delle persone che non tocca a me giudicare. Dicono che la legittimazione delle unioni di fatto è inaccettabile sul piano del principio, pericolosa sul piano sociale ed educativo. Ma sapete che cosa si disse nel grande documento Lexicon di cinque anni fa? Che l’omosessualità, essendo un male sociale, non è soggetto di diritti. Bisogna avere il coraggio di scendere dal trono e camminare con le donne e con gli uomini,  mettendo insieme non il rinnegamento di una fede, ma la scoperta di una umanità. Bisogna finirla con la presunzione, bisogna finirla con le declamazioni ideologiche, bisogna finirla con le menzogne! Vorrei dirvi, da persona che ogni giorno vive a fianco degli omosessuali, da 44 anni: quando,  professore in seminario, confessore in cattedrale, incontrai i primi, nella mia totale ignoranza, non sapevo che esistessero. Le parole “omosessuale, lesbica”, erano  parole innominabili! Avendo organizzato il primo convegno italiano su: fede cristiana e omosessualità, esattamente 30 anni fa, quando mi presentai al mio amato vescovo e lo invitai, mi disse “ma anche con questi ti vai a mettere?”. Le parole “omosessuale” o “lesbica” erano ancora innominabili! Bisogna andare al cuore del problema che è incontrare le persone. Non parlare astrattamente. Chi incontra ogni giorno le persone non si domanda più se sono lesbiche, omosessuali, transessuali. Si domanda se vivono l’amore, il rispetto, il senso civico. Se partecipano alla costruzione di una società più giusta. A me interessa la persona, e voglio che nella tua vita tu possa amare secondo la tua natura. Che tu possa essere un soggetto felice. Perché se sei un po’ felice contribuirai più facilmente al bene di questa società. Vorrei finire dicendo che la chiesa non è la gerarchia. Dobbiamo rispetto a tutti nella chiesa, ma l’ultima cosa che conta é la gerarchia. Primo elemento della chiesa sono le persone e la loro coscienza e, per  chi è credente, il vangelo. Nel vangelo non c’è la risposta ai DICO. Nel vangelo c’è l’orientamento: “ama e fai che l’amore si espanda”. La chiesa non è la gerarchia; l’ascolto volentieri ma decido nella mia coscienza. Secondo elemento: la laicità non ci divide, ci unisce. Quando devo lavorare per il bene della mia città, come facciamo tutti, secondo le nostre possibilità, non chiedo a uno: “Sei buddista, sei cattolico, sei protestante, sei islamico, sei ateo o agnostico?”. Gli chiedo:  “Ci stai su questo progetto?”.  Ma quando dobbiamo costruire progetti d’umanità non chiedo mica la tessera del partito, o la fede, la confessione religiosa! Mi interessa lo starci sui progetti. Pensate il movimento operaio, il movimento della sinistra, i movimenti femminili: tutti i movimenti di liberazione hanno veramente cercato di rompere queste perimetrazioni,  di fare confluire progetti, ricerche. Io invito chi è credente a documentarsi, ma a respingere ogni invadenza politica, in nome della laicità dello stato e, soprattutto, a respingere ogni soggezione di coscienza, perché la nostra coscienza è estremamente importante. Volete che ve lo dica in quel latino maccheronico di Tommaso D’Aquino che studiai tanti anni fa a Lovanio? “Verbum prelati est verbum prelati, fede coscientiam est verbum dei”: la parola di un prelato è tutto sommato sempre la parola di un prelato, ma la coscienza è la voce di Dio. Certo la coscienza può anche non essere la voce di Dio,  ma bisogna prima di tutto, questo voleva dirci Tommaso, che pure non era un rivoluzionario, che la coscienza sia posta al centro, in questa mediazione, tra la realtà e sovente i dictat gerarchici. Con molto rispetto, ma devo essere un cittadino laico o una cittadina laica. Devo essere un credente che non è un figlio della gerarchia ma è un figlio, una figlia di Dio. E deve decidere in una libertà, una creatività per cui, sovente, obbedire a Dio è disobbedire alle gerarchie. Sovente essere laici davvero significa giocarci la vita sul terreno della pratica della libertà. Nessuno sa, credo di essere la persona che ve lo può dire per un contatto enorme con il mondo omosessuale,  nessuno sa che cosa voglia dire per un ragazzo gay, per una donna lesbica, non avere diritto di potersi baciare in  pubblico, non avere il diritto di vivere l’amore. Non avere il diritto,  sul proprio pianerottolo, di manifestare “che noi ci vogliamo bene”. La legge è anche una forza contro il pregiudizio. Io insisto su questo. La legge non crea le condizioni, ma favorisce molte condizioni. Dà spazio alle persone, tutela gli affetti, suscita responsabilità. Le responsabilità e le sofferenze della vita sono molte. Le sofferenze aggiuntive, inflitte dall’ignoranza o dal pregiudizio trovo che non abbiano nessuna giustificazione.