Gesù ribelle

 

di Franco Barbero

 

All’interno della ricerca storica su Gesù, tema  scelto dalle cdb Piemontesi, alcuni aspetti originali della personalità del Nazareno, nella relazione fatta da Franco Barbero all’ultimo incontro .

 

Sbobinatura e adattamento, non rivista dall’autore

 

In “cdb informa” n° 54 dicembre 2012

 

Vorrei prendere spunto dall’assemblea che è avvenuta ieri a Roma per ricordare i 50 anni dall’inizio del Concilio. Penso che, per quanto le nostre esperienze siano un po’, per così dire, “esiliate”e politicamente ci troviamo in un momento di non grandi vittorie a livello popolare, c’è una preghiera che nasce proprio dal contesto biblico. Se ricordate, il salmo 137 viene composto quando, negli ultimi anni di Babilonia, un sacerdote-profeta, Ezechiele, invita il popolo alla non rassegnazione. E’ una figura straordinaria di sognatore e vede i suoi concittadini e concittadine come esuli in un contesto di angoscia e di tristezza: “Sui fiumi di Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion.  Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre.  Là ci chiedevano parole di canto coloro che ci avevano deportato, canzoni di gioia, i nostri oppressori: «Cantateci i canti di Sion!».  Come cantare i canti del Signore in terra straniera?  Se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra; mi si attacchi la lingua al palato se lascio cadere il tuo ricordo, se non metto Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia”.

Che cosa avviene? Riprendono la chitarra e suonano i canti di Sion e quelli di Gerusalemme. Una  era la città della pace, l’altra la collina a sud di essa, verdeggiante anche nel tempo dell’arsura. Non invano usano i nomi di Sion e Gerusalemme,  che significano: “Noi siamo qui, deportati, ma non possiamo smettere di cantare di gioia pur nell’angoscia e nella perdita della nostra libertà. Non è chiuso il futuro e quindi bisogna ritornare a coniugare fatica, resistenza, gioia della vita”. Che bello questo salmo! Mi pare molto legato a Babilonia ma anche molto legato a noi. Vorrei farlo come preghiera a Dio, che ci aiuti a non appendere le chitarre, le danze della vita, le speranze, i sogni, le utopie. Non dobbiamo appenderli a salici piangenti, ma tenerli nella nostra vita! E’ quello che hanno fatto questi nostri fratelli e sorelle, che hanno continuato a cantare, a danzare alla vita, a trovare felicità nella lotta, anche dentro situazioni di grande difficoltà. E’ davvero una testimonianza preziosa! Non stacchiamo mai le cetre, rimettiamole nelle nostre mani per continuare il cammino.

Il tema di oggi potrebbe essere un antecedente del bellissimo libro di Harvey Cox: “Il cristiano come ribelle”. Erano anni ruggenti, gli anni dal 70’ al 72’, quando Cox scrisse questo bellissimo volume. Ne scrisse anche subito dopo un altro: “Il Dio degli oppressi” che era il pendant di questo. Ricordo che in quel periodo la comunità di Pinerolo pubblicò: “Fede e resistenza”, mentre le teologie della liberazione e le teologie femministe elaborarono una “fede come lotta di liberazione”. Erano gli anni dei grandi sviluppi di queste ricerche di frontiera. Fu la prassi laica nel mondo che ci fece incontrare la vasta ricerca sul Gesù storico: eravamo interessati a capire come Gesù si collocasse nel suo tempo. Ma allora, se possiamo usarci una tenera ma verace autocritica, fummo forse un po’ troppo desiderosi e desiderose di trovare per noi una risposta già confezionata. Che cosa ci diceva in quel contesto Gesù? Facemmo un trasloco dal Gesù storico alla nostra storia, in modo un po’ veloce. Dirò che è stata una stagione fondamentale, ma avevamo ancora l’idea che dentro la Bibbia potessimo  trovare, in qualche modo già pronte, alcune delle risposte. Probabilmente, la domanda su Gesù come ribelle si precisò, dentro il nostro cammino, proprio nella resistenza al potere politico, dentro la nostra prassi quotidiana. Oggi mi sembra che la riproponiamo in un contesto planetario, che ci aiuta a mettere insieme fede e laicità.

Preparando questa piccola conversazione con voi, ho per un momento messo in secondo piano tutti gli autori cristiani ed ho studiato solo autori ebraici: Ben Chorin, Flusser, Isaac,  Lapide, Calimani. Ho voluto vedere, su questo tema, che cosa i cinque grandi autori ebrei hanno detto. Perché noi abbiamo avuto la fortuna di avere grandi studiosi e studiose cristiani e cristiane ed abbiamo assunto le risposte sempre dai nostri correligionari. Proviamo una volta ad andare in casa ebraica, porre la domanda a loro e leggere nei loro testi cosa hanno detto. Perché questo? Perché c’è stato un tempo in cui abbiamo vestito Gesù dei panni del rivoluzionario, del banditore delle acquisizioni della modernità, del paladino delle libertà moderne: il Gesù hippy, il Gesù femminista, il Gesù nero, il Gesù socialista. Era la nostra risposta, la reazione al Gesù della tradizione vincente, dogmatica. Dico questo sottolineando che è stata una stagione importante, decisiva, perché ci siamo liberati della cappa dogmatica e abbiamo messo i nostri percorsi di uomini e donne in rapporto col Gesù storico. Lo abbiamo fatto come abbiamo saputo, come abbiamo potuto, ma è stata una grande elaborazione che è avvenuta nelle nostre comunità e in altre riflessioni e ricerche affini. Dunque, prendere sul serio la nostra storia di donne, di uomini e metterla in relazione con il Gesù storico, non accettare più la mediazione assoluta del Gesù dogmatico. Per me è stata un’esplosione, uno tsunami ideologico, perché tutto passava attraverso il Gesù dogmatico. Abbiamo sperimentato un percorso dove, come donna, come uomo, come comunista, come ecologista, mi potessi mettere in rapporto a Gesù. Il passo più difficile è stato, dopo questa stagione importante e positiva, quello di uscire dalla cultura del “Gesù cristiano”. Questo è un passo che non è ancora del tutto avvenuto, se pensate che un biblista come Ortensio Da Spinetoli nell’ultimo libro, che ha appena scritto e che molto vi consiglio: “Io credo. Una fede adulta” edito da Meridiana, ad un certo punto si lascia scappare che Gesù è il primo cristiano. Questa è un’dea di cui non riusciamo mai a liberarci completamente. All’interno della nostra ricerca, assumere la storicità del Gesù ebreo è un passaggio obbligato. Perché il Gesù storico è diverso dal Gesù confezionato cristianamente.

Vorrei fare alcuni esempi suscitati dalla lettura del libro:  “Gesù ebreo” di un autore ebreo, Riccardo Calimani; un testo con una dovizia di particolari sui quali qualche volta nella nostra elaborazione facciamo fatica ad entrare con puntualità. Facciamo alcuni esempi: il gruppo di Gesù era una comunità di eguali? Gesù operò delle mediazioni con la sua cultura, ma certamente voleva una comunità di uomini e donne eguali. Il nostro autore ci ricorda come Gesù dovette fare le mediazioni necessarie nel suo tempo. I dodici: è proprio Gesù che, nel tentativo di ugualizzare la società, deve tener conto del contesto ed allora, come rappresentanti del popolo d’Israele, sceglie  dodici uomini.  Voi direte: un deficit di egualitarismo; sì, ma secondo la nostra visione. L’egualitarismo in Gesù viene spinto al massimo dentro le possibilità del suo tempo. Non solo, allìinterno di questi dodici ne sceglie alcuni: Pietro, Giacomo, Giovanni con i quali vive l’esperienza di maggiore familiarità e di più intenso impegno. Ed è interessante questo Gesù che cerca veramente una comunità di eguali, di uomini e donne, ma deve tener conto del suo contesto, deve fare delle mediazioni. Importante, su questo tema, il contributo del libro di David Flusser “Il cristianesimo. Una religione ebraica”. L’autore cristiano J. P. Meier nel terzo volume della sua corposa opera “Un ebreo marginale”, dalla pagina 270 in avanti, parla del concetto della retroproiezione: noi abbiamo messo sul volto di Gesù il realizzo delle nostre libertà. Egli ha aperto una strada, dice Pagola, ma non poteva ancora conoscere la rivoluzione francese, nè tutte le lotte sociali e di liberazione, le lotte delle donne, la teologia del pluralismo ecc. Gesù era dentro la sua cultura. Non vorrei che dicendo questo vi sembrasse che io diminuisco Gesù. No! Gli autori ebrei prima citati sostengono che si ama ciò che è vero nella storia di Gesù; dicono: “noi amiamo questo profeta, però voi dovete avere il coraggio storicamente di restituircelo”. Sorridevo una sera con mia moglie: prima di cena e del TG 3 passa il nome del santo del giorno ed ho scoperto che hanno fatto santi Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo! Avevo già scoperto da anni che san Giovanni Battista lo abbiamo rubato all’ebraismo: la congregazione ebraica mandò  una lettera dicendo “ce li avete rubati”. La risposta del cardinal Bea fu: “li abbiamo voluti onorare”. Ma non si onora un ebreo facendolo santo! E’ talmente introiettato in noi questo concetto del santo cristiano, che abbiamo preso il fior fiore delle grandi figure ebraiche presenti nei vangeli e li abbiamo fatti santi.

Un secondo esempio: Gesù ama la “Legge d’Israele”. Gesù è chiaramente un uomo di Dio che ama le Legge, ma non la sua assolutizzazione; si ribella all’assolutizzazione. Avete presente il testo di Matteo: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento”. Sono le persone, la vita concreta delle persone che richiedono la relativizzazione della Legge. La legge è un dato storico. Gesù ama immensamente la Legge d’Israele, ma essa non è l’assoluto, non è la fotografia di Dio. La prima immagine di Dio sta nell’uomo e nella donna.
Un terzo esempio: ci dicono gli autori ebrei che Gesù non è contro le istituzioni del suo tempo, ma contro le deviazioni delle istituzioni. Gesù va a Gerusalemme, secondo Giovanni più volte, secondo i sinottici una sola. Gesù addirittura chiama il Tempio “la casa del padre mio”  (Gv. “non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato”). Il Tempio è addirittura la “casa della preghiera”, secondo i sinottici. Gesù piange su Gerusalemme, perché per lui il Tempio è stato manipolato. Non è al Tempio che dobbiamo ribellarci, dice, ma è alle manipolazioni del Tempio. Gesù aveva una grande attesa rispetto alle funzioni del Tempio, ma vede che è tutto pervertito, le istituzioni non fanno ciò che debbono. Egli ama il Tempio, ama la Sinagoga, ama il sabato, paga l’obolo dovuto a Dio, ma il problema è il sopruso, la manipolazione, l’abuso: tantissime su questo punto le testimonianze nei vangeli. Certo poi noi leggeremo in Giovanni 4,21 “Né a Gerusalemme né in questo luogo adorerete, ma in spirito e verità”, ma questa è una predizione post eventum, una predizione già sapendo ciò che era avvenuto. Infatti era caduto il Tempio di Samaria e, quando nel 100/110 vengono redatti questi scritti, era già stato distrutto da molti anni il Tempio di Gerusalemme, che non sarà più ricostruito. E’ chiaro che gli evangelisti mettono sulla bocca di Gesù delle predizioni, ad esempio quelle prima della morte ma, ci dice Calimani e lo scrivono anche Barbaglio e altri studiosi, si tratta di annunci post eventum. Gesù è talmente interessato al Tempio, anche se deluso che, vedendo la vedova poverissima fare un’offerta (noi le avremmo detto: “non fare l’offerta al Vaticano”), la elogia. Gesù guarda il cuore, l’azione di questa donna, non pensa nemmeno a dire: “cosa fai al Tempio?”. Egli contesta le istituzioni che si sono pervertite, che non fanno quello per cui sono nate.

 Il grande tema della predicazione di Gesù è il regno di Dio che viene. Tutto è in funzione del regno di Dio, che è già presente. Gesù critica una certa apocalittica che ne sposta sempre nel futuro la venuta. Egli è certamente un apocalittico: pensava che la fine del mondo avvenisse molto presto, con un grande intervento  di Dio che stravolgesse e cambiasse le sorti della storia. Ma, a differenza degli apocalittici futuristi, Gesù dice: “Sì, c’è un futuro in cui Dio interviene, ma c’è un presente in cui il regno è già pienamente in azione. Non si può sacrificare il presente all’attesa futura: c’è un’attesa, ma c’è soprattutto una presenza”. Gesù si separa dall’apocalittica della assoluta futurità e dice: “c’è un presente che bisogna prendere sul serio”. Questo lo ha reso inviso nelle sinagoghe, di fronte agli scribi ed alle autorità, perché bisognava mettere in atto il regno di Dio ora: questo voleva dire non conservare le cose, non sacralizzare le istituzioni, respingere l’immobilismo. Ecco, Dio costruisce il suo regno con noi e nulla potrà fermarlo. Il regno di Dio è storico e quindi avanza. Gesù dice: “Voi credete che il regno di Dio lo creino il vostro Tempio, le vostre leggi, le vostre tradizioni. Il regno di Dio è una sinergia, dove non si possono separare l’uomo e la donna da Dio. Il regno di Dio è quando entrano in sinergia queste componenti: tutta la vitalità dell’uomo e della donna, tutta la realtà del creato e la presenza di Dio. Il regno di Dio non lo possedete voi, casta sacerdotale, non lo possedete voi, scribi e farisei, non passa per la vostra strada”.

Chi separa Gesù dalla fede in Dio ha separato Gesù dalla sua storia. La storia di Gesù è leggibile soltanto con il suo rapporto di fiducia in Dio. Voglio leggervi questa bella pagina di Schillebeeckx  degli anni ’70 (“Gesù” pag. 276): “Alla fede proprio in questo Dio, Gesù invitò con la parola e l’azione nei suoi giorni terreni: è questo il senso di tutta la sua attività. Pertanto il tentativo di eliminare dalla vita di Gesù la particolare “relazione con Dio” è, nel contempo, la distruzione del suo messaggio e del senso della sua prassi, la negazione stessa della realtà storica di “Gesù di Nazareth”, ridotto in tal modo a un essere “astorico”, mitico o simbolico, non il Gesù della storia”. Dunque bisogna togliere a qualcuno l’idea che si possa possedere il governo del regno di Dio. L’attuazione del Regno avviene solo quando entrano direttamente in sinergia il creato, l’uomo, la donna e Dio. Dentro questa relazione diventa possibile costruire il regno di Dio. Gesù camminando tra i villaggi soffrì il fatto che le istituzioni non facevano la loro parte, i funzionari manipolavano la Parola; ecco la sua ribellione, la sua rivoluzione: si è lasciato coinvolgere da Dio e dal suo vento.

Che bello riscoprire il Gesù ebreo, il Gesù della sua storia, toglierli un po’ i panni dogmatici, come abbiamo fatto noi e  da tante altre parti in questi anni e sapere che oggi un grande  numero di teologie - il metodo storico critico, la teologia del pluralismo religioso, le teologie femministe, la teologia della liberazione - lavorano in tale direzione, per prendere atto del Gesù storico, ebreo. E’ stato il contatto con l’ebraismo che ci ha regalato questo; siamo debitori agli ebrei dell’aiuto che ci hanno dato nel tempo, in lunghi decenni. Ciò ci induce a seguire l’esempio di Gesù, collocandoci nella nostra storia, sapendo che Dio è schierato dalla parte dei poveri, delle donne, degli esclusi. Il Gesù della storia ha preso una posizione chiara, non di odio verso le istituzioni, ma di amore per le persone. Questo atteggiamento di Gesù ci invita a guardare qual è la nostra collocazione. I piccoli gesti di liberazione, di ribellione, di  costruzione di prassi nuove che facciamo oggi sono “delle pietre che anticipano la pienezza del regno”. Gesù ha reso aperta la dimensione del futuro, ma dentro il presente Dio agisce come dice Isaia: “Tu sei un Dio che gioca a nascondersi”. Il Dio nascosto è però un Dio attivo, dentro il suo nascondimento non è un Dio assente. Gesù non ci propone un modello, ci offre degli stimoli, ci dà la testimonianza della sua vita, ci invita a seguirlo, ma i gesti, le scelte, le posizioni, le opposizioni devono essere assunte dalla nostra umanità matura. Come donne e come uomini, stimolati dalla figura di Gesù e dal messaggio biblico, dobbiamo, nel nostro tempo, assumerci le nostre responsabilità. Gesù non ci ha dato nessuna garanzia che prendiamo le posizioni giuste, ci ha dato la direzione, la fiducia nel Regno, la sicurezza che Dio è attivo dentro questo nostro operare, ma non possiamo mai pensare che il Regno di Dio si riduca alla nostra azione. Dentro l’impegno, dentro la resistenza c’è la sofferenza, ma c’è anche la felicità più grande della vita. Io credo che se potessi dire che cosa della vita ho sentito, citerei le spine del dolore, ma anche la danza della gioia, e credo che, in una piccola umanità come la mia, la nostra, queste due note non si separino mai: la fatica del resistere, del progettare delle cose diverse, ma anche la gioia di sentire che il regno di Dio, con noi e al di là di noi, compie qualche piccolo passo nella storia.