Qohelet: La vita è vento leggero 

 

 

Franco Barbero

 

Da un incontro al corso biblico di Torino  

sbobinatura e adattamento non rivisti dall’autore

 

In “cdb informa” n° 64 ottobre 2016

 

Oggi farei preliminarmente alcune osservazioni. Come sapete si tratta di un libro tormentato perché quando, nel primo secolo dopo Cristo, il giudaismo ufficiale si radunò a Jamnia per stabilire il canone delle scritture ebraiche, c’erano in quel tempo, sia in Palestina che nella diaspora, moltissimi libri. La discussione fu accanita su quali testi di riferimento scegliere per il cammino ebraico. Gli esperti radunati non ebbero una discussione facile perché si domandarono come includere nel canone un libro come Qohelet, che di Dio parla sempre. Manca il nome proprio di Dio secondo la Scrittura ebraica, e cioè “Jahvè”, esiste solo “Elohim”, il nome generico che sta per “dio, divinità”. Il libro non parla della profezia, è tutto l’opposto dei Profeti, non parla dell’Alleanza, non sembra guardare avanti. La discussione presentò molte incertezze e registrò molti dissensi, ma alla fine prevalse l’idea liberal, diremmo noi oggi, quella di non scartare questo libro, perché anch’esso è un riferimento prezioso a Dio in certe stagioni della storia e della vita. Oggi è addirittura letto nella festa delle Capanne. Non tutte le comunità ebraiche furono immediatamente aperte a questa accoglienza, ma il concilio di Jamnia rappresentò una decisione importante e per questo entrò con i Proverbi, Il Cantico dei cantici, Il Libro di Ruth e Giobbe nei libri cosiddetti “sapienziali”, con un suo connotato particolare, più vicino a Giobbe per alcuni versi, che non agli altri classici.

Questo testo viene addirittura messo sul conto di Salomone, che nel Libro dei Re viene indicato come l’emblema del sovrano saggio. Poi, come sappiamo, lo stesso libro racconta di lui cose non tutte così assennate. La tradizione ebraica aggiustò le cose in questo modo e disse: - quando era giovane Salomone scrisse “Il Cantico dei cantici”, poi quando fu adulto scrisse “I Proverbi”, quando diventò vecchio scrisse “Qohelet”. Così sistemarono il libro sotto il cappello autorevole di Salomone, distinguendo tre fasi della vita: infatti, se volete, il Cantico dei Cantici è mol-to riferito alla giovinezza, ma in realtà può essere letto in tutte le stagioni dell’esistenza. I Proverbi, l’età adulta dove fai il conto della vita; Qohelet, quando hai subito “tante batoste” e ripensi un po’ a tutta la tua esistenza. Questa è una sistemazione che ha dell’umoristico, ma è anche bella. L’ebraismo trova sempre la maniera di “mettere il cappello”, lasciando però vivere ispirazioni diverse, per cui è veramente affascinante.

Questo libro è “la croce” degli interpreti: c’è chi dice che è un libro pessimista, altri che sostengono che è realista. Più commentari leggerete, da quello di Von Rad in avanti, più noterete che c’è questo avvicendarsi nel mettergli un’etichetta diversa. Noi stessi, leggendolo, fatichiamo a capire in che registro collocarlo.

Credo sia molto interessante sapere che questo testo ha degli antecedenti di almeno due millenni prima di Cristo, tra cui la Saga di Gilgamesh, ispiratore di molti miti, che vive molte avventure: va prima in cerca dell’immortalità e poi della pianta della giovinezza, fallendo ogni volta. Questi racconti circolavano in tutto l’Oriente sotto nomi diversi, erano delle narrazioni del tormento pensoso, di uomini e donne che vedevano la bellezza della vita, ma si rendevano conto che quando incominciavi a capire qualcosa di essa, questa finiva, che alle poche risposte corrispondevano troppe domande. Il cielo stellato con la mancanza di luci artificiali, i percorsi sabbiosi, l’acqua, il tuono, le lunghe camminate, il tempo prolungato in cui erano immersi nel silenzio che nell’antichità è il pozzo della saggezza. Tutto questo era un panorama che invitava a pensare.

La parola chiave dell’intero libro è il vocabolo ebraico hèvel che compare 38 volte. È un vocabolo difficile da tradurre ed è stato reso in modi diversi: in latino: - vanitas -, vanità delle vanità, fumo. Erri De Luca nel suo libro “Qoehlet/Ecclesiaste” l’ha espresso con: spreco, spreco degli sprechi, tutto è spreco, attirandosi la giusta critica dell’ebraismo che traduce l’originale hèvel con: vento, vento leggero, tutto è vento che passa.
Il nostro modo di vedere è solo un’opinione, un vento leggero, non è la verità. E il vento cambia. L’autore è un maestro del pensare e ripensare, è l’anti-dogma per eccellenza. Ricordiamoci sempre che la vita è vento leggero, di nulla io devo fare un Dio. Questa è la creaturalità: le mie stesse osservazioni, i miei pensieri sono un vento leggero. Se ciò fosse acquisito nella cultura e nella teologia del nostro tempo, avremmo una grande liberazione! E’ necessario pensare, ripensare, ricercare e questo non è spreco: di ciò si vive!
Il vero problema è che la vita è piena di mistero. Dio ci ha dato la vocazione, faticosa, del cercare, ma è una fatica che non finisce mai, dice l’ebreo, ed il risultato è sempre incerto, devi sempre andare oltre. E tutto questo va fatto con il “timor di Dio”: non perdere mai la consapevolezza che sei al cospetto di Dio, che sei una sua creatura. Timor di Dio è una traduzione infelice, suggerisce quasi che bisogna avere paura di Dio, falsa il nostro rapporto con Lui. Dentro l’ebraismo e la sua concezione creaturale, il concetto è: vivere al cospetto di Dio, avere la consapevolezza della propria creaturalità, non si riesce a trovare una parola esatta se non in una circonlocuzione.
Quello che conta è che nella ricerca tu ci metta il cuore e ricordati che se non vivi al cospetto di Dio e vuoi assolutizzare un aspetto, una cosa della tua vita e farne il tutto, tu corri dietro al vento. Chi si totalizza nel lavoro, nei soldi, nel dominio, nel potere, è uno che corre dietro al vento; questo, leggendo il libro, lo sentirete spesso.
Qohelet in ebraico vuol dire: colui che mette insieme, perché il maestro per l’ebreo è chi trasmette una memoria, ma per trasmettere una memoria deve mettere insieme molte cose. Traducendolo in greco è diventato Ecclesiaste: "chi tiene assemblea", da non confondere con “ecclesiastico”.

L’autore fa l’elogio del quotidiano, la sua vita non è scandita da grandi cose e tutto ciò che lui vive non è una tesi, ma un accostarsi, un pensare, un osservare, un ricercare. Non osserva distaccato dall’alto i fatti della vita, ma vi entra dentro, nelle sue pieghe, nelle sue contraddizioni, nello scontro tra diverse opinioni. Questo è un prezioso insegnamento. Entrare nella mischia della vita vuol dire che ti “sporchi le mani”, che dici la tua, ma che questa tale rimane. Qohelet finisce dicendoci che nulla esce dall’ hèvel, dal vento leggero e che tutto ciò che noi viviamo è creaturale: nella nostra condizione, nel nostro agire, pensare, aver fede, sempre ci accompagna la creaturalità.
Questo testo sapienziale viene probabilmente scritto in Palestina intorno al 250-200 a.C. durante la dominazione dei Tolomei (successori di Alessandro Magno), i quali cercarono di imporre la cultura greca in ogni aspetto della vita sociale e degli individui. Sotto il loro dominio vi erano di fatto due caste: quella degli eredi della cultura ellenistica e la casta dei giudei che credevano di aver avuto una grande storia, ma che in realtà erano stati perdenti ovunque. Si sentivano schiacciati dall’esibizione di forza, potere, ricchezza, dai loro miti, dalla loro gloriosa ed egemone cultura. Nasce così, nel popolo giudaico, un senso totale di smarrimento: “ma allora a che serve vivere, se la nostra vita è solo alzarsi al mattino e andare a lavorare, mentre gli altri dominano ovunque?”.  La tentazione è quella di adeguarsi o di cadere nella disperazione, quella di credersi insignificanti. La banalità del quotidiano confrontata con la “bella vita” delle classi dominanti. Questo maestro di saggezza conforta il suo popolo e dice: mangiare, dormire, fare l’amore, godere la vita, essere giovani, essere vecchi, fare cose buone, il lavoro, tutto questo non è una cosa straordinaria, ma è una cosa bella. È vero che la vita anche nel suo scorrere normale è una grande fatica, però bisogna viverla, merita di essere vissuta. Non lasciatevi sedurre perché anche loro sono
hèvel, non sono delle divinità, però voi anche nelle cose lievi ,come il vento che passa, cercate di godervi e di gustare la vita. Che bello questo!