Lo ius soli e l'alibi dei diritti sociali

 

di Chiara Saraceno   

 

la Repubblica, 18 giugno 2017

 

«Mantenere indefinitamente nella non appartenenza migliaia di bambini e adolescenti è non solo ingiusto, ma rischia di produrre  estraneità e  rancore». (c.m.c.)

Diritti  sociali contro diritti civili: un copione che in Italia si ripete spesso, non tanto per spingere i primi quanto per bloccare i secondi. Come se i diritti civili (degli altri, naturalmente, non i propri) fossero un lusso che può essere sempre rimandato, e le difficoltà economiche o la mancanza di diritti sociali un buon alibi per non rispettare neppure quelli civili. È successo, a suo tempo, per i diritti delle donne, più recentemente per quelli delle persone omosessuali. Quando non li si negavano tout court, si diceva che dovevano aspettare, che c’erano altre priorità più urgenti.

Un po’ sorprendentemente, con una notevole dose di cinismo, hanno fatto proprio questo copione anche i Cinquestelle. Il loro aspirante futuro premier Di Maio, per spiegare perché il Movimento non voterà la legge sulla cittadinanza, ha denunciato: «È mai possibile che prima di pensare al lavoro, o a un piano per dare incentivi e sgravi alle imprese che assumono giovani, oppure a un reale sostegno per le famiglie monoreddito con figli a carico, il Pd pensi a far approvare lo ius soli?».

Non sarò certo io a negare che in questo paese manca un sostegno adeguato al costo dei figli e che politiche del lavoro che si limitano al lato dell’offerta non vanno molto lontano. Ma non vedo come questo possa essere contrapposto al diritto di chi nasce e cresce nel nostro paese, sentendosene parte e seguendo le sue leggi, di esserne riconosciuto pienamente come cittadino, se lo desidera, senza essere costretto in un limbo che di fatto lo riduce ad uno status di apolide: perché non è cittadino italiano, ma neppure di fatto del paese da cui provengono i suoi genitori e dove, se questi sono rifugiati, spesso non può neppure andare.

Negando l’importanza di questo riconoscimento, un movimento che si riempie la bocca della parola “cittadinanza” e “cittadini” non sembra davvero aver compreso in che cosa consiste l’essere cittadino: non il sangue, o il colore della pelle, e neppure la nazionalità dei propri genitori, ma l’identificazione con una collettività, incluso l’accesso ai diritti e doveri che ne derivano, così da maturare la disponibilità a partecipare alla formazione del bene comune.

Negare questo accesso, mantenendo indefinitamente sulla soglia e nella non appartenenza migliaia di bambini e adolescenti è non solo ingiusto, ma miope, perché rischia di produrre quel senso di estraneità e di rancore che può sfociare in fenomeni estremi di disidentificazione con la nostra società. Per altro, la legge in discussione, niente affatto affrettata come suggerisce da parte sua Alfano, desideroso anch’egli di defilarsi, stante che se ne sta discutendo da anni e da due anni è già passata al vaglio della Camera, configura uno Ius soli molto temperato.

Richiede che almeno uno dei genitori abbia ottenuto il permesso di lungo soggiorno, quindi abbia risieduto regolarmente in Italia per almeno cinque anni, o, in alternativa, che il bambino o ragazzo (nato qui o arrivato entro i dodici anni) abbia completato almeno un ciclo di studi quinquennale. Non vi è nessun rischio di incentivare arrivi di massa di donne incinte, o pronte a diventarlo, che trasformeranno l’Italia in un enorme reparto di maternità, come ha evocato qualcuno. Il percorso verso la cittadinanza continua ad essere impegnativo.

Anche l’altra obiezione di Di Maio — che la questione della cittadinanza deve essere affrontata a livello europeo — appare strumentale, oltre che paradossale in bocca ad un cinquestelle che di solito condanna gli interventi della Ue come attacchi alla sovranità. Non si capisce perché l’Italia debba demandare alla Ue di regolare l’accesso alla cittadinanza italiana, visto che finora tutti gli altri paesi, anche quando hanno modificato le proprie norme negli ultimi anni, non lo hanno fatto.

Quindi coloro che sono diventati cittadini tedeschi o irlandesi o francesi con regole diverse dalle nostre, in quanto cittadini europei possono circolare liberamente, venendo anche in Italia. Cominciamo a definire le nostre regole e poi impegniamoci pure a verificare l’opportunità di una armonizzazione a livello Ue. Ma non usiamo questa scusa per rimanere fermi e negare la cittadinanza a chi cresce, gioca, studia quotidianamente fianco a fianco con i nostri figli e nipoti, condividendone abitudini, interessi, desideri, aspirazioni.