Per un’economia senza debito

Francesco Gesualdi  -

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Tratto da: Adista Documenti n° 30 del 09/09/2017

Il mondo galleggia su un mare di debiti: 199mila miliardi di dollari, a fine 2014, quasi tre volte la ricchezza prodotta nell’anno. “Colpa dei governi”, è il pensiero automatico. E invece no: solo il 29% dell’intera montagna è debito pubblico, tutto il resto è debito di famiglie ed imprese. Del resto la crisi in cui ci troviamo trae origine dall’eccesso di debito contratto dalle famiglie americane, che però ha agito solo da detonatore di una bomba più ampia che aveva come esplosivo il debito di banche, assicurazioni, fondi pensioni. Un debito contratto per partecipare all’orgia speculativa costruita a livello mondiale sul debito delle famiglie americane e non solo, secondo meccanismi che solo menti malate come quelle degli ingegneri dell’industria finanziaria possono arrivare ad architettare. Meccanismi folli che non meriterebbero neanche un minuto del nostro tempo se non fosse che quando deflagrano mandano in frantumi l’intera economia mondiale, provocando ovunque morti e feriti sotto forma di fallimenti, disoccupazione, erosione salariale, riduzione di servizi essenziali.

Nonostante la sua connotazione folle e criminale, l’industria del credito nessuno la ferma, tutt’al più la razionalizzano affinché non esploda in faccia ai suoi stessi artefici. Un po’ come avviene per l’industria delle armi: non le si chiede di chiudere, ma solo di mettere a punto tecnologie più sofisticate per evitare che la mina scoppi nelle mani del soldato che deve lanciarla. E se rimanerci male è legittimo, non facciamoci paralizzare da tanto cinismo. Ogni sistema è espressione di principi, classi e interessi, la propria fisionomia dipende dal fronte prescelto. Il capitalismo non nasce per noi, ma per i mercanti, in particolare quelli di tipo finanziario. Non va dimenticato che le fondamenta del capitalismo moderno furono gettate dai cambiavalute, poi divenuti banchieri, con lo scopo di accumulare denaro tramite il credito. Ecco perché il debito è un caposaldo di questo sistema.

Di tutte le forme di arricchimento, il credito è fra le più ingegnose, perché permette al creditore di arricchirsi alle spalle del debitore in nome della proprietà. In conclusione è una forma di parassitismo che si basa sul potere e come tutti i rapporti di potere ha come obiettivo non solo il denaro, ma molti altri aspetti, compresa la vita, come mostrano i casi di schiavitù legata al debito. Pratica abituale in passato, ma di gran ritorno anche in Europa a giudicare dall’usura e dalla tratta sessuale. E se la schiavitù è la forma di dominio più estrema, molti altri rischi sono legati al debito, per cui tutti cercano di evitarlo. Il problema del sistema, dunque, è come spingere all’indebitamento senza forma apparente di coercizione. Un problema antico che i potenti di ogni epoca hanno sempre risolto con l’ingiusta distribuzione della ricchezza. La globalizzazione è arrivata puntuale per servirla su un piatto d’argento.

Al di là dei molteplici significati che sono stati attribuiti alla parola globalizzazione, da un punto di vista economico la globalizzazione è il tentativo di trasformare il mondo intero in un unico mercato, un’unica piazza finanziaria, un unico spazio produttivo. È il passaggio da un’economia mondiale, strutturata su nazioni che hanno la piena sovranità di porre regole all’entrata e l’uscita di merci e capitali, ad un altro tipo di economia in cui merci e capitali sono liberi di fluire da un Paese all’altro senza vincoli di sorta. La trasformazione non è avvenuta per caso, ma per servire gli interessi delle multinazionali, le nuove imprese che dominano il mondo. Per la loro enorme capacità di produzione e di vendita, nessuna nazione, ormai, contiene un numero di consumatori sufficiente ad assorbire i loro prodotti. Imprese come Coca-Cola, Ford, McDonald’s, come possono accontentarsi del mercato statunitense dove sono nate? Di qui la necessità di un mondo senza barriere commerciali, senza dazi, senza regole sanitarie o ambientali diversificate da Paese a Paese, che complicano solo le cose. Via tutto, per permettere alle merci, ai capitali, agli investimenti di fluire liberamente da un Paese all’altro, senza dover rispettare nessuna altra regola se non quella del profitto e della concorrenza.

Le multinazionali hanno esercitato sui governi ogni sorta di pressione per ottenere la totale liberalizzazione del commercio e nel 1995 hanno ottenuto l’istituzione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio che ha il compito di riscrivere le regole dell’economia mondiale tenendo solo conto degli interessi delle grandi imprese. Ma la presenza di tre miliardi di poveri fa del mondo un piccolo mercato che le imprese cercano di sottrarsi a vicenda senza esclusione di colpi. Tant’è la concorrenza si è fatta più aspra e non è stata combattuta solo con i mezzi moderni della tecnologia, del design, della velocità di consegna, ma anche con le armi più tradizionali della pubblicità e dell’abbassamento dei prezzi. Un insieme di misure che assottigliano i profitti se contemporaneamente non vengono ridotti i costi. Così nel vecchio lupo capitalista è riemerso, prepotente, l’istinto di attacco al lavoro, con strategie differenziate a seconda del settore. In quelli ad alta tecnologia è stata intensificata l’automazione, ma nei settori ad alta manovalanza si è optato per la delocalizzazione. Per il trasferimento produttivo, in quei Paesi del mondo dove la gente è così povera da accettare di lavorare per una scodella di riso: Cina, Indonesia, Vietnam, Bangladesh, ma anche Romania, Moldavia, Serbia.

Di colpo è stata riscritta la geografia mondiale del lavoro provocando ovunque scossoni: sfruttamento e industrializzazione selvaggia nel Sud, aumento della disoccupazione e riduzione dei salari nel Nord. Un attacco al lavoro in piena regola che ha prodotto come risultato finale la riduzione della massa salariale a livello globale. Negli ultimi trent’anni, a livello mondiale, la quota di prodotto lordo assegnata ai salari è scesa costantemente passando dal 62% nel 1980, al 54% nel 2012. Nei Paesi più ricchi è andata anche peggio: tra il 1980 e il 2010, la quota di prodotto lordo andata ai salari è diminuita mediamente del 10%, passando dal 75% al 65%. In Italia la diminuzione è stata addirittura dell’11,8%, contro il 6,2% della Francia e il 4,2% del Giappone.

Dolce musica per i detentori di capitale, ma al tempo stesso rumore sordo di tempesta: se i salari scendono, chi comprerà tutto ciò che si produce? In effetti l’ombra della crisi da scarsità di mercato si è manifestata fin dall’inizio della globalizzazione con l’arrivo di due cavalieri: l’espansione della finanza e l’espansione del debito, un fenomeno, quest’ultimo, che fa capolino ogni volta che i magazzini si ingolfano di materiale invenduto. Non trovando altro modo di fare assorbire la produzione, il sistema spinge famiglie, imprese e Stato ad indebitarsi affinché consumino al di sopra delle proprie possibilità. I dati lo dimostrano: il debito complessivo mondiale è passato da 47mila miliardi di dollari del 2000 a 142mila nel 2007, addirittura 199mila nel 2014.

Uno dei Paesi capofila nell’indebitamento sono stati gli Stati Uniti, che hanno spinto in maniera particolare sull’indebitamento delle famiglie usando come esca l’acquisto della casa. Nei primi anni duemila il mercato immobiliare tirava, i prezzi crescevano, indebitarsi per una casa sembrava un affare per tutti. Le banche offrivano prestiti anche alle famiglie più povere, per male che fosse andata avrebbero potuto rivendere la casa e ricavarne abbastanza per restituire il mutuo e comprare anche un’auto nuova. La crisi è arrivata quando il mercato della casa è entrato in frenata, i prezzi hanno cominciato a scendere, la formula “indebitati e vendi” non ha più funzionato, milioni di famiglie hanno dichiarato di non poter ripagare i loro mutui ed è stata la disfatta.

Probabilmente il terremoto sarebbe rimasto circoscritto alle banche che avevano concesso i prestiti, se queste non si fossero inventate dei modi per ottenere l’anticipazione dei loro crediti dal mercato finanziario. Meccanismi complessi e cervellotici basati sulla vendita di pacchetti “tutto o niente”: frammenti di debiti affidabili associati a frammenti di debito spazzatura. Così sono stati confezionati milioni di titoli tossici, caramelle dolci di fuori, amare di dentro, disseminati nell’intero mercato finanziario. Ignari del pericolo, se li sono comprati banche, fondi pensione, fondi di investimento, perfino assicurazioni, che a crisi conclamata si sono accorti di avere le casseforti piene di titoli che non valevano più niente perché ripudiati da tutti. Sono cominciati i primi fallimenti bancari, più nessuno si è fidato dell’altro, l’intera attività creditizia si è paralizzata per mancanza di fiducia reciproca, banche ed imprese hanno cominciato ad annaspare per mancanza di fondi, lo spettro della recessione è apparso sulla scena e ha ricoperto l’economia col proprio mantello. Vista la cattiva parata, sono scesi in campo i governi che complessivamente hanno impegnato 15mila miliardi di dollari per salvare le banche, la recessione non è stata evitata, ma è stata attenuata.

In Europa, i governi hanno impegnato qualcosa come 3mila miliardi di euro, andando a peggiorare ovunque situazioni debitorie già compromesse. E per paura che i conti pubblici andassero fuori controllo fino al punto di non permettere agli Stati di onorare i propri impegni con i creditori, l’Unione Europea si è data regole rigidissime di gestione dei bilanci pubblici. È l’austerità che tramite un nuovo trattato definito “Fiscal compact” ha sancito che la priorità di ogni governo deve essere il pagamento degli interessi e che il pareggio di bilancio è la nuova regola d’oro. L’effetto è stato un aumento di tasse e un taglio drastico ai servizi pubblici che oltre a fare aumentare povertà e disuguaglianze, hanno aggravato la crisi economica con aumento massiccio della disoccupazione.

Da un capo all’altro d’Europa il costo sociale del debito è stato altissimo perché il debito pubblico è un meccanismo di redistribuzione alla rovescia: prende a tutti per dare ai pochi che già hanno. E i risultati si vedono anche in Italia. Da società a uovo, l’Italia si sta trasformando in società a piramide. Prima c’era un piccolo numero di famiglie con redditi bassi, un piccolo numero con redditi molto alti e nel mezzo un gran numero di famiglie con redditi medi. Oggi molte famiglie di mezzo stanno migrando verso il basso mentre quelle di cima sono sempre più esigue. Da un punto di vista patrimoniale, ossia della ricchezza posseduta sotto forma di case, terreni, auto, gioielli, titoli, capitali, le famiglie italiane possono essere divise in tre fasce. La cima, che accoglie appena il 10% delle famiglie, detiene il 46% dell’intera ricchezza privata. La fascia di mezzo, equivalente al 40% delle famiglie, controlla il 44% della ricchezza. Lo zoccolo di fondo, pur essendo il più ampio, pari al 50% delle famiglie, si aggiudica appena il 9,4% della ricchezza. Mediamente la ricchezza delle famiglie appartenenti al 10% più ricco è 22 volte più alta di quelle appartenenti al 50% più povero. Ma se possibile la realtà è ancora peggiore.

Dal 1980 al 2015 il popolo italiano ha sborsato, per interessi, qualcosa come 2500 miliardi di euro, soldi di tutti, che invece di essere stati utilizzati per asili, ospedali, scuole al servizio di tutti, sono andati ad ingrassare i più ricchi. Senza contare tutta la ricchezza comune che il popolo italiano ha perso a causa delle privatizzazioni. Si è cominciato nel 1993 mettendo in vendita le imprese dell’IRI e si è proseguito con Eni, Telecom, Enel, banche. Così ci siamo disfatti di pezzi importanti dell’economia italiana senza reali benefici sul debito pubblico che ha continuato a crescere. Con l’intermediazione di banche nazionali e internazionali il patrimonio industriale dello Stato italiano è finito quasi totalmente nelle mani di affaristi italiani e grandi multinazionali fra cui Nestlé e General Motors. Di tutte le industrie che aveva, nel 2015 il Ministero del Tesoro risultava azionista del 30% di Finmeccanica, il 25% di Enel, il 4% di Eni. Proprietario anche di poste, TV e ferrovie, sono insistenti le voci che voglia mettere in vendita quote consistenti di questi servizi. Nel novembre 2015 è passata ai fatti mettendo in vendita il 40% di Poste Italiane. Intanto servizi come la fornitura di acqua e smaltimento di rifiuti, tradizionalmente gestiti dagli enti locali, sono stati anch’essi ceduti a imprese talvolta totalmente private, in altri casi compartecipate dal pubblico, ma gestite con la stessa logica di profitto. Una ferita gravissima per la collettività non solo per la contaminazione mercantile dell’economia pubblica, ma anche per l’impoverimento della struttura pubblica. Quanto più il pubblico si spoglia di capacità produttiva, tanto meno sarà capace di assolvere alle proprie funzioni di sostegno alla comunità.

Poteva andare diversamente? Probabilmente sì se avessimo mantenuto la sovranità monetaria nella sua forma più ampia, che comprende la possibilità di finanziare i disavanzi pubblici con moneta stampata di fresco da parte della propria Banca Centrale. Una possibilità che l’Italia ha perso ancora prima di entrare nell’euro. Analizzando la serie storica dei bilanci dello Stato, si scopre che il ricorso al debito era un’abitudine corrente anche negli anni settanta. Ma non procurava problemi perché un accordo fra Ministero del Tesoro e Banca d’Italia metteva lo Stato in sicurezza. L’accordo prevedeva che ad ogni asta indetta per la vendita dei Buoni del Tesoro (Bot), si sarebbe presentata anche la Banca d’Italia che a fine seduta avrebbe acquistato tutto l’eventuale invenduto. Il che indeboliva fortemente le banche private che si trovavano costrette ad accettare il tasso di interesse imposto dal governo. Considerato che in quel periodo l’inflazione procedeva a due cifre, i tassi di interesse reali erano addirittura negativi con sommo giovamento per il bilancio pubblico.

Ma sul finire degli anni 70, Carlo Azeglio Ciampi, governatore della Banca d’Italia, contestò l’accordo e nel luglio 1981 venne abrogato dall’allora ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta. Così si consumò quello che è passato alla storia come “divorzio fra Stato e Banca d’Italia”, con conseguenze disastrose. Senza salvatore alle spalle, lo Stato non aveva altra scelta se non accettare le condizioni imposte dal mercato, ossia dalle banche. La spesa per interessi si impennò (in un anno il tasso di interesse sui titoli di Stato passò dal 12 al 24%), lo Stato perse il passo dei pagamenti e il debito prese a moltiplicarsi. Il disastro era servito.

Nel 2002 l’Italia è entrata nell’euro ma si è trattato di una moneta gestita con una logica privatistica ancora più ferrea di quella con cui si gestiva la lira. Lo dimostra il fatto che la Banca Centrale Europea, gestore dell’euro, per statuto ha un solo divieto: quello di prestare denaro ai governi. Così gli Stati della zona euro sono stati trasformati in zombi costretti a rivolgersi alle banche private per ogni necessità finanziaria che va oltre il gettito fiscale. Di fatto con la testa china di fronte a una nuova sovranità, la sovranità del mercato che si va affermando sopra ogni altra autorità.

Oggi molti brindano alla ripresa, ma la ripresa non c’è. In molti Paesi la disoccupazione è a due cifre, mentre è alta la probabilità che la bolla finanziaria torni a gonfiarsi di fronte ad un’economia reale, quella della produzione e consumo, condannata al ristagno. La riprova che l’economia mondiale non uscirà dalla palude finché non riconoscerà che la crisi è dovuta all’ingiustizia sociale e non accetterà di distribuire la ricchezza in maniera più equa all’interno delle nazioni e fra le nazioni. La riprova che solo restaurando la sovranità degli Stati sopra quella del mercato, il debito pubblico smetterà di essere una pistola puntata alla tempia delle comunità. E per farlo va recuperata piena sovranità monetaria tramite la riforma della Banca Centrale Europea. Da struttura privata che gestisce l’euro per assicurare profitti alle banche, va trasformata in struttura pubblica che governa la moneta in un’ottica di promozione economica e sociale. Che significa immissione gratuita di tutta la liquidità necessaria per il buon funzionamento dell’economia reale e l’erogazione ai governi tutta la moneta che serve per raggiungere la piena occupazione e promuovere i servizi fondamentali. Un passo fondamentale per la costruzione di un’Europa più equa e solidale.