L’arresto di Mimmo Lucano: il mondo al contrario

 

di Livio Pepino

 

https://volerelaluna.it  del 02/10/2018

 

Mimmo Lucano, il sindaco di Riace, è stato arrestato. La cosa ha dell’incredibile, anche se non sorprende chi conosce la campagna di discredito e di criminalizzazione messa in atto nei suoi confronti, da un anno a questa parte, dalla Prefettura di Reggio Calabria e, poi, dal Ministero dell’interno (si vedano, su questo sito, gli articoli: «Sosteniamo Riace», e «#Io sto con Riace»).

Lucano è – anche a livello internazionale – il simbolo dell’Italia accogliente, protagonista del miracolo di coniugare un’accoglienza diffusa di rifugiati e richiedenti asilo con il rilancio di Riace (uno dei tanti paesi condannati a un inarrestabile declino) e con un’integrazione pacifica e fruttuosa tra riacesi e migranti (si veda: «Riace: la salute non ha colore»).
È questa la sua colpa, che non gli viene perdonata.

Gli atti noti (ordinanza cautelare e comunicato stampa della Procura di Locri) parlano chiaro. Lucano è stato arrestato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (consistente, secondo l’accusa, nell’avere contribuito a realizzare due o tre matrimoni tra riacesi e donne migranti al fine di evitare l’espulsione di queste ultime) e per avere affidato il servizio di raccolta rifiuti, forzando le procedure, a due cooperative di rifugiati e autoctoni. Pacificamente senza alcun interesse personale o fine di lucro, ma, semplicemente, per ragioni solidaristiche. Null’altro, avendo lo stesso giudice per le indagini preliminari escluso le imputazioni di concussione, malversazione, truffa in danno dello Stato e associazione per delinquere (sic!), contestate in modo fantasioso dal pubblico ministero. In altri termini, Lucano è stato indagato e arrestato per il delitto di solidarietà, un delitto estraneo alla cultura europea, tanto da essere stato ritenuto dal Conseil constitutionnel francese, il 6 giugno, incompatibile con il principio di «fraternità che, così come la libertà e l’uguaglianza, è un caposaldo del sistema costituzionale e non può soccombere nel bilanciamento con la salvaguardia dell’ordine pubblico». E ciò nell’Italia delle mafie e della corruzione, in cui cooperative di ogni colore in concorso con pubblici funzionari (spesso promossi a più importanti incarichi da vecchi e nuovi governi) speculano su una sistemazione di migranti «che rende più della droga», come sosteneva uno dei protagonisti di Mafia capitale. In quell’Italia in cui – per usare parole tratte dall’arringa di Piero Calamandrei in difesa di Danilo Dolci – «i poveri hanno il sentimento che le leggi siano per loro una beffa dei ricchi: hanno della legalità e della giustizia un’idea terrificante, come di un mostruoso meccanismo ostile fatto per schiacciarli, come di un labirinto di tranelli burocratici predisposti per gabbare il povero e per soffocare sotto le carte incomprensibili tutti i suoi giusti reclami».

All’incredulità e all’indignazione si aggiungono alcune considerazioni.

Primo. Lucano non ha mai nascosto la sua insofferenza ai formalismi burocratici. Si è sempre dichiarato pronto a forme di disobbedienza civile e a forzature della legalità formale pur di accogliere chi gli chiedeva aiuto e casa. E, quando è stato necessario, lo ha fatto, realizzando un modello di accoglienza senza precedenti nonostante gli ostacoli e gli impedimenti burocratici. È un reato? Credo di no, probabilmente per mancanza dei requisiti oggettivi, ancor più per difetto di quelli soggettivi. Ma c’è di più. Un mese fa gran parte della politica e degli opinionisti benpensanti è insorta a fronte della comunicazione giudiziaria notificata al ministro dell’interno dal procuratore della Repubblica di Agrigento per sequestro di persona in relazione alla vicenda dei migranti indebitamente trattenuti sulla nave Diciotti. Si è gridato che quello era un atto politico e che ciò escludeva il carattere delittuoso di una condotta pur evidentemente illecita sotto il profilo oggettivo. Ma perché mai ciò che vale per il rifiuto non dovrebbe valere per l’accoglienza?

Secondo. Se la contestazione del reato sconcerta, doppiamente indigna l’emissione della misura cautelare, priva, in ogni caso, di serio fondamento. Esclusa la possibilità di inquinamento delle prove e il pericolo di fuga (pur, incredibilmente, evocato in un crescendo di foga persecutoria dal pubblico ministero), manca anche, nonostante gli artifici motivazionali del giudice per le indagini preliminari, la possibilità di reiterazione del reato: Lucano avrebbe probabilmente reagito alla comunicazione dell’imputazione con atti esemplari, ma – proprio perché tali – immediatamente verificabili e controllabili. L’arresto e il contemporaneo processo a mezzo stampa, innescato da un comunicato della Procura a dir poco anomalo in cui vengono riportati persino stralci di intercettazioni telefoniche, hanno un solo fine: distruggere Lucano, la sua immagine e la sua idea di accoglienza. Non è la prima volta. Come non ricordare le esternazioni del procuratore della Repubblica di Catania su responsabilità e collusioni addirittura per minare la sicurezza nazionale delle ONG operanti nel Mediterraneo (in un processo conclusosi poi con una richiesta di archiviazione)? O come dimenticare, in altra materia, le incredibili contestazioni di terrorismo contro militanti No Tav, ritenute poi del tutto infondate dai giudici del merito e dalla Cassazione ma quando ormai la criminalizzazione degli imputati era cosa fatta. C’è di che riflettere sulla magistratura e sul suo ruolo.

Terzo. Il ministro dell’interno Salvini, in significativa sincronia con la notizia della misura cautelare, chiede provocatoriamente «cosa diranno Saviano e i buonisti».
Credo diranno tutti, a gran voce, «Noi stiamo con Mimmo Lucano!», e si prepareranno a trasformare questa dolorosa vicenda giudiziaria in una riedizione del processo per i fatti di Partinico del 1956, quando Danilo Dolci venne arrestato mentre guidava un gruppo di braccianti a lavorare in una strada di Partinico abbandonata all’incuria. Il processo contro Mimmo Lucano, come quello contro Danilo Dolci, si trasformerà così in un processo contro i suoi accusatori, in cui risuoneranno le parole di Piero Calamandrei, pronunciate nell’arringa difensiva: «Questa è la maledizione secolare che grava sull’Italia: il popolo non ha fiducia nelle leggi perché non è convinto che queste siano le sue leggi. Ha sempre sentito lo Stato come un nemico. Lo Stato rappresenta agli occhi della povera gente la dominazione. Può cambiare il signore che domina, ma la signoria resta: dello straniero, della nobiltà, dei grandi capitalisti, della burocrazia. Finora lo Stato non è mai apparso alla povera gente come lo Stato del popolo».

Profilo:

Livio Pepino, già magistrato e presidente di Magistratura democratica, dirige attualmente le Edizioni Gruppo Abele. Da tempo studia e cerca di sperimentare, pratiche di democrazia dal basso e in difesa dell’ambiente e della società dai guasti delle grandi opere. Ha scritto, tra l’altro, Forti con i deboli (Rizzoli, 2012), Non solo un treno. La democrazia alla prova della Val Susa (con Marco Revelli, Edizioni Gruppo Abele, 2012) e Prove di paura. Barbari, marginali, ribelli (Edizioni Gruppo Abele2015)