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RISPOSTE AD UN ARTICOLO DELLA "STAMPA" SUL COMMERCIO EQUO E SOLIDALE

di Gigi Eusebi

14.9.2006

Ciao a tutti,

intervengo anch´io sul tema proposto su varie liste da Marco Penno, Mario Borbone, Alberto Zoratti, CTM-Altromercato, relativo a recenti articoli di denuncia contro il commercio equo usciti in Inghilterra e Italia. Per la cronaca, quello de La Stampa , probabilmente il piú letto in Piemonte, é stato "ricucinato" da almeno due versioni precedenti (Financial Times e Sole 24 Ore).

Era facile immaginare che, come é avvenuto in passato per episodi simili, per la gravitá e colpevole genericitá delle accuse, si agitassero le acque della polemica, e mailing list e siti Internet di settore fossero occupati da commenti e analisi sul tema.

Condivido il senso generale delle affermazioni critiche sugli articoli fatte da chi mi ha preceduto. Vorrei aggiungere qualche ulteriore commento, dall´alto (o dal basso...) dell´essere da 15 anni un addetto ai lavori e - per la dirla con gli slogan RAI - un abbonato con posto in prima fila, visto che mi occupo soprattutto di progetti, rapporti con i produttori, visite in loco e report relativi al rispetto dei criteri etici:

 

- gli articoli in questione, pur contenendo qua e lá singoli concetti critici dotati di un minimo di fondamento, sono a mio parere un esempio di spazzatura giornalistica e di tesi preconfezionate, indipendenti dai contenuti, titoli compresi. Quest´ultimi, di norma, non dipendono dai giornalisti, ma sono redazionali: che dire di un titolo come quello de La Stampa di domenica 10 settembre: "Caffé solidale? Invece é una truffa". Immagino l´effetto su qualche lettore distratto che spulcia la domenica i quotidiani scorrendo i titoli delle pagine che precedono la cronaca sportiva...

 

- gran parte delle affermazioni, molte categoriche, sono imprecise, o parziali, o manipolate, o un mix di tutte queste cose. La conseguenza peggiore peró é il tarlo della sfiducia e della malafede che insinuano nel lettore medio, quello cioé che ha  probabilmente un´idea approssimativa del commercio equo e dell´economia solidale e che costituisce la percentuale prevalente dei lettori dei quotidiani e dei consumatori

 

- per me come per la maggior parte degli addetti ai lavori delle centrali di importazione (meno per gli enti di certificazione, che ad una lettura accurata costituiscono il principale bersaglio degli articoli usciti, ma vallo a far capire alla famosa... casalinga di Voghera), non sarebbe difficile smontare o contestualizzare buona parte delle accuse, ma si tratterebbe di scendere in dettagli  organizzativi, spiegare come funziona il circuito, le modalitá di monitoraggio, verifica, relazione con i produttori, separare, soprattutto in Italia (meno nel nord Europa), la differenza tra centrali di importazione, botteghe del mondo, enti di certificazione solidale, per le procedure di analisi e selezione dei gruppi partner a monte e dei mercati di distribuzione a valle 

 

- ció che peró temo sia assai piú difficile da smontare é il tarlo della (s)fiducia che simili articoli generano. "Calunniate, calunniate, qualcosa resterá", diceva il detto o, per dirla con una colorita espressione brasiliana: "si é gettata merda nel ventilatore". La nostra "casalinga di Voghera" come minimo si sará detta che qualcosa di vero ci dovrá pur essere e se giá covava qualche dubbio etico si troverá in futuro con una sorta di sfiducia latente verso questo circuito pronta ad entrare in azione al primo generico segnale negativo (dall´addetto di bottega antipatico o disinformato al prodotto caro o di non eccelsa qualitá). Il consumatore piú motivato e militante e chi lavora nel commercio equo ha di solito qualche anticorpo in piú ma vivrà probabilmente il duplice ruolo di chi potrebbe sospettare di far parte ingenuamente di un meccanismo a dir poco eticamente dubbio e/o di chi si troverà a difendere un "fortino" che conosce e controlla fino ad un certo punto da sospetti, sfottò o dubbi di clienti, parenti, amici

 

- entrando nel merito "tecnico" delle accuse principali contenute nell´articolo (anche se l´obiettivo del mio contributo non é prioritariamente questo ma quello di cogliere la palla al balzo per alcune considerazioni generali), si fa riferimento ad un progetto e ad una verifica giornalistica specifica, relativa ad un caffé del Perú che verrebbe distribuito come prodotto del fair trade grazie alla certificazione etica del marchio equo (ndr. oggi organizzato in via prevalente da un cartello di una ventina di organizzazioni di settore facenti capo a FLO, FairTrade Labelling Organization, la cui "sezione" italiana é Transfair Italia)

Tre sono le contestazioni principali:

1) i salari dei contadini produttori del caffé etico sarebbero addirittura piú bassi del minimo legale e di quanto pagato normalmente in loco 

2) l´origine non controllata di una parte della produzione, spacciata e certificata come equa

3) l´azione anti-ecologica di produttori e certificatori che starebbero depredando aree protette e preservate.

Conosco un poco il Perú, non il progetto in questione, e quindi non posso opinare su pregi e difetti specifici. Ho peró conosciuto e visitato sul campo 200-250 progetti di commercio equo in tutto il sud del mondo, la maggior parte dei quali in America Latina, spaziando su tutti i settori merceologici oggetto delle attivitá del commercio equo. Una personalissima valutazione generale di quanto vissuto in tanti anni di lavoro mi porta a sintetizzare le seguenti macro-tipologie di produttori:

1) alcuni di questi progetti (diciamo il 15-20%) li ritengo dei veri e propri gioielli etici, in qualche caso quasi dei miracoli di democrazia concreta, sobri ed efficaci, laboratori di economia dal basso, di quell´altro mondo possibile tanto anelato e poco sperimentato concretamente

2) altri (la maggioranza, almeno il 50%) sono dei progetti "medi", che senza proporsi di cambiare il mondo o la vita dei produttori e senza caratterizzarsi come strutture alternative accettando di fatto il mercato globalizzato e le sue leggi, svolgono dignitosamente e onestamente il loro compito di supporto agli agricoltori ed artigiani di base, quasi sempre sotto forma di associazioni o cooperative. Ció significa rispettare leggi e culture locali, in qualche caso questo vuol dire accettare disparitá di salari, diritti e conoscenze tra la base e il vertice delle strutture, criteri "normali" nel sud e tollerati nel nord

3) la terza categoria raggruppa i progetti che non mi convincono, per impostazione, gestione, obiettivi, gerarchie, impostazione commerciale, pur senza presentare palesi violazioni di diritti umani, sindacali, ambientali (una minoranza per ora, non oltre il 15-20%, ma il dato piú preoccupante é che tendono ad aumentare esponenzialmente emarginando dal mercato equo i piccoli gruppi, quelli al cui servizio era nato il fair trade e che vengono sbandierati ancora oggi in qualunque volantino o brochure pubblicitaria)

4) esiste una quarta categoria di progetti, la minore (sotto il 10%), che per uno o piú gravi motivi non rispettano più i criteri etici fondanti del commercio equo. Una buona parte di questi partner sono conosciuti nel circuito, parecchi sono stati esclusi dalle liste dei fornitori in corso d´opera, mentre qualcuno continua a vendere ed esportare "griffato" fair trade

 

- tornando agli articoli citati, l´esperienza di campo mi porta a concludere che la prima (salari piú bassi) e la terza accusa (non rispetto dell´ambiente) sono nella migliore delle ipotesi (o, peggiore, visto il tema) un fenomeno isolato. Raramente ho riscontrato questo tipo di problemi in oltre 15 anni di visite e viaggi.  Se é un po´ ingenuo sperare che qualche container di prodotti esportato a prezzi e condizioni leggermente piú dignitose possano cambiare in modo sensibile la vita di milioni di contadini ed artigiani del sud del mondo e che il deterioramento dell´ambiente possa essere stoppato solo dall´operato virtuoso del circuito del commercio equo e solidale, ritengo che nella stragrande maggioranza dei casi (e a supporto esistono diversi studi di impatto effettuati da enti indipendenti pubblici e privati) le condizioni economiche, sociali, ecologiche praticate tramite i canali del fair trade siano piú favorevoli per i produttori di base e per l´ambiente che li circonda. Per qualche progetto le differenze rispetto alle condizioni del mercato, locale o internazionale, sono simili o leggermente migliori, per altri la differenza in positivo é significativa o determinante, anche e soprattutto per alcuni fondamentali servizi e clausule integranti i principi e i contratti commerciali (quando vengono rispettati, fattore meno scontato di quanto si creda): prefinanziamento senza interessi del 50% del valore dell´ordine, servizi sociali aggiuntivi in favore delle comunitá, contratti a medio-lungo termine, negoziazione equa delle condizioni, intercambio di esperienze e culture, trasparenza commerciale, visite reciproche di conoscenza

 

- qualche spunto accettabile di autocritica si puó invece riscontrare, a mio parere, sul secondo punto dolens degli articoli citati, vale a dire la provenienza incerta e non verificata di parte della merce. Anche in questo caso la questione andrebbe come minimo contestualizzata e prima di esprimere giudizi tranchant su tutto il circuito sarebbe doveroso documentarsi, cosa peraltro estremamente complessa e onerosa anche per gli addetti ai lavori, visto che i volumi e le partnership del commercio equo internazionale raggiungono oggi numeri e geografie veramente globali, coinvolgendo quasi 60 paesi del sud del mondo e centinaia di tipologie di prodotti. Ritengo corretto riconoscere peró che negli ultimi anni, prioritariamente nel settore della certificazione equa (che, almeno in Italia, si rivolge como sbocco di mercato principale alla grande distribuzione, con volumi maggiori e attenzione alla partnership minore) non sono pochi i casi di progetti/prodotti equi che moltiplicano ogni anno volumi e fatturati. Si tratta di una sorta di "doping etico" che a volte diventa incontrollabile in tutta la filiera, al sud come al nord, per soddisfare una domanda sempre maggiore e canali di distribuzione i cui veri obiettivi prestano il fianco a piú di un dubbio

 

- non sempre i produttori sono in grado di rispondere, in quantitá, qualitá e competitivitá, alla domanda crescente degli importatori del nord ed io stesso ho in qualche caso riscontrato nelle visite ai gruppi che l´origine di parte della merce non era in pratica controllabile, cosí come il possibile subappalto a lavoratori occasionali malpagati di eventuali carichi di lavoro imprevisti. Non va taciuto inoltre il fatto che chi professionalmente dovrebbe preoccuparsi del monitoraggio di questa parte della filiera abbia, come nel caso degli enti di certificazione, un evidente interesse commerciale a far crescere il circuito in quanto ricava dalle royalties che riscuote dai clienti del nord le risorse per svolgere la propria attivitá, fattore che suggerirebbe di alzare il tasso di attenzione etica nel circuito (chi controlla il controllore?). Si aggiunga anche una certa approssimazione e breve durata media delle visite in loco e la stigmatizzabile limitata disponibilitá di fondi e risorse per la attivitá di monitoraggio e relazione diretta con i produttori che nel circuito quasi tutti lamentano, per poter raccogliere la provocazione su questo punto lanciata dai media, anche se in modo cosí scorretto  e disinformato. Il giorno in cui fossero effettuate inchieste in loco piú professionali di quanto appena pubblicato dai media citati, leggeremmo articoli meno ricchi di subdole insinuazioni al vetriolo ma ben piú documentati e diretti a denunciare i veri punti deboli - eticamente parlando - del sistema

 

- riporto a questo proposito un paragrafo dell´articolo de La Stampa , l´unico che possa essere a mio avviso accolto come critica costruttiva, stendendo un velo pietoso sull´ultima frase, che bolla come stupidi, cioé utili idioti, consumatori e addetti ai lavori:

"C'è chi poi invoca la perversione insita nelle leggi di mercato: all'inizio, quando davvero erano prodotti di nicchia, il meccanismo funzionava. Da quando tutti vogliono il «caffè etico» il sistema è impazzito e per soddisfare la domanda si fa di tutto. Compreso il vecchio trucco di far passare per «etico» caffè qualsiasi comprato chissà dove da chissà chi. Resta il fatto che, fra tanta etica, alla fine qualcuno si trova a pagare più del dovuto qualcosa che non è quello che dovrebbe essere..."

 

- molte altre sono le considerazioni che si potrebbero fare sul gioco scorretto di certa stampa o sulle contraddizioni del fair trade "moderno":

dal confondere il commercio etico con quello equo (legato in Italia al circuito di botteghe del mondo e importatori tradizionali), al porre in un unico calderone certificazione, importazione, distribuzione, al dibattito interno, antico come il fair trade, su quale debba essere l´unitá di misura "giusta" del prezzo equo (sul quale non c´é consenso o uniformitá di vedute, per capirlo basti guardare il mondo da nord o da sud), sulla mission prioritaria, ovvero se vendere sempre di piú, senza fare tante storie o filosofeggiare (come sostengono alcuni, anche nel sud del mondo: chi viaggiando non ha sentito qualche dirigente di cooperativa di produttori chiedere "more orders", "más pedidos"?), o piuttosto preoccuparsi di sperimentare innanzitutto un modello economico diverso, sull´impatto reale nelle comunitá dei produttori dei benefici del fair trade a distanza di anni, sui rischi legati all´inquinamento dei contenuti con il prosperare dei fatturati

 

- sono tutti temi importanti, cruciali per il senso di un circuito oggi "trendy" e di moda. Le risposte non sono facili, sia per l´oggettiva difficoltá di cambiare l´economia accettandone alcune regole standoci dentro, sia per l´effettivo rischio di derive etiche. A mio parere, e concludendo, per non appesantire ulteriormente questo contributo, tre sono i principali rischi che sta correndo il commercio equo internazionale, tre come le critiche degli articoli citati, ma in questo caso ben piú pericolosi:

1) la tendenza ad emarginare e fare progressivamente scomparire commercialmente i produttori piú piccoli e "sfigati", i quali non sono competitivi non solo sul mercato tradizionale ma nemmeno piú in quello equo, schiacciati dai loro stessi concorrenti del sud del mondo, piú preparati, che producono a costi piú bassi, piú scaltri e avvezzi al marketing etico, piú adatti a servire meglio richieste e ordini sempre piú rivolti alla domanda del mercato degli importatori del nord

2) l’affievolirsi o annacquarsi del contenuto e del lavoro politico e culturale che ha costituito uno dei pilastri fondanti del fair trade. Alcune cause? Il mercato e le sue necessitá di competitivitá che impongono di tagliare sui rami "improduttivi", il crescere dei fatturati e delle condizioni commerciali legate alle vendite nella grande distribuzione, il cronico sottodimensionamento delle strutture del settore, che vivono (sopravvivono?) spesso grazie ai salti mortali di operatori e volontari a cui non si puó chiedere di fare anche cultura equa di notte dopo aver fatto l’impossibile per tenere in piedi la bottega di giorno, l´emergere di una classe dirigente di "manager equi" spesso intrisi piú di cultura aziendalista ortodossa piuttosto che di strategie e creativitá per realizzare modelli sostenibili di economia solidale

3) la confusione, per non dire inquinamento, generato dall´ingresso recente di diverse multinazionali (alcune citate anche negli articoli incriminati, altre - per stavolta e per nostra fortuna...- ignorate, come Nestlé, Dole, Chiquita, Wal Mart). E´ un problema in discussione all´interno del circuito che pone interrogativi ben piú seri delle velenose ma superficiali frasi contenute nelle inchieste giornalistiche. Quando, per citare l´esempio piú macroscopico e conosciuto, la multinazionale piú boicottata al mondo riesce a proporsi almeno in un paese europeo come soggetto di commercio equo perché in una montagna del Guatemala tutela- a prova di monitoraggio etico - un gruppetto di campesinos produttori di caffé mentre contemporaneamente in altri contesti distrugge cultura e vita di milioni di donne e bambini con latte in polvere e derivati, significa che qualcosa sta cambiando nel fair trade o che é necessario riscrivere alcune regole, specie oggi che Parlamenti ed enti pubblici cominciano a promulgare leggi specifiche e richiedono standard e regole chiare e verificabili

 

        Buon caffé (peruviano) a tutti...