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"DOV'ERA DIO? CHIEDIAMOCI PIUTTOSTO DOV'ERANO LE CHIESE E I CRISTIANI". DANIELE GARRONE SUL DISCORSO DEL PAPA AD AUSCHWITZ


ADISTA n. 43 del 10.6.2006

33425. ROMA-ADISTA. "I silenzi sono più eloquenti e più inquietanti delle parole; le cose dette sono accompagnate dall'omissione di parole che avrebbero dovuto essere dette". Inizia così il commento di Daniele Garrone, decano della Facoltà valdese di Teologia di Roma, al discorso pronunciato da papa Benedetto XVI ad Auschwitz-Birkenau, durante la visita pastorale in Polonia (v. rassegna stampa sul numero verde allegato).
Nella sua analisi, pubblicata sul n. 22 di Nev (l'agenzia di stampa delle Chiese evangeliche), Garroni prende spunto dagli interrogativi lanciati dal papa dal lager nazista: "Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo? Dov'era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto?". Sono le stesse domande che nei Salmi il popolo di Israele pone a Dio, ma - sottolinea Garrone - un conto è se queste domande, questa protesta, "la pongono quelli che ad Auschwitz morivano o ad Auschwitz sono sopravvissuti, un conto è se la pone un cristiano sul luogo del loro patibolo, un tempo circondato da una massa di cristiani indifferenti, più spesso corrivi o direttamente complici". "Negli anni del nazismo le chiese cristiane non hanno invocato il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Gesù perché intervenisse a favore del suo popolo Israele e neppure lo hanno fatto per molto tempo dopo". Quindi il papa dovrebbe più legittimamente chiedersi non tanto "dov'era Dio?", quanto "dove erano i cristiani, in particolare i vertici delle Chiese?". Il papa, capo della Chiesa cattolica universale, doveva cioè parlare "Non dell'imperscrutabile segreto di Dio, ma delle scrutabilissime responsabilità dei cristiani". Doveva dire una parola sul rapporto tra il secolare e radicato antigiudaismo cristiano, virulento anche nella sua Chiesa nei decenni che precedono la Shoah, e lo sterminio nazista. Avrebbe dovuto ricordare che l'odio antiebraico è uno dei risvolti sinistri delle da lui tanto celebrate radici cristiane dell'Europa e che è stato propagato da predicatori e teologi di ogni confessione, da vescovi, cardinali e papi, non da ‘figli della Chiesa' sviati".
Anche perché, spiega Garrone, "solo partendo dal riconoscimento delle colpe della propria storia, il tema della riconciliazione - una delle parole più ricorrenti nel discorso papale - avrebbe potuto avere una vera pregnanza e l'auspicata ‘purificazione della memoria' non avrebbe eluso i drammatici interrogativi che pone la storiografia". Invece – sostiene Garrone – la lettura della storia tedesca durante il nazismo fatta dal papa, che parla di un "popolo sul quale un gruppo di criminali raggiunse il potere mediante promesse bugiarde", di un popolo "usato e abusato come strumento della loro smania di distruzione e di dominio", è "una interpretazione revisionistica". "Come se non sapessimo che, salvo poche, sparute eccezioni - che il Papa non ha menzionato, dalla Rosa Bianca al gruppo di cospiratori dell'ammiraglio Canaris - non ci fu una resistenza tedesca a quella che Bonhoeffer ha definito ‘la grande mascherata del male'. Se di tutto questo ci si ricordasse, ‘la Chiesa' non sarebbe risparmiata dal fango e dal sangue della storia umana e le sarebbe molto più difficile parlare ad Auschwitz".
L'immagine della Chiesa presentata da Ratzinger è invece quella di un'istituzione "che può parlare a nome di tutti i popoli, per tutte le colpe, perché in fondo essa non ne ha, che può tutto riconciliare e purificare come se fosse super partes".
Infine, Garrone si chiede come mai il papa, che ha detto di voler parlare anche come "figlio del popolo tedesco", abbia evitato di parlare il tedesco, pronunciando il suo discorso in lingua italiana. "La lingua che ad Auschwitz non può che suonare sinistra a memoria d'uomo avrebbe potuto esprimere con la massima pregnanza il no all'orrore che essa stessa ha veicolato. Oppure avrebbe potuto ricordarsi di Willy Brandt, che si inginocchiò in silenzio. Parla di più un tedesco ammutolito che un tedesco che parla italiano". (valerio gigante)