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UN CRISTIANESIMO SINOTTICO

Ernesto Ferretti

da “Il foglio” Mensile di alcuni cristiani torinesi - n°336

Perché mi chiami buono?

Domenica 15 Ottobre è stato letto nella liturgia della parola (XXVIII B) il celebre passo del cosiddetto “giovane ricco”. All’inizio, secondo la versione di Mc 10,17-22 (sostanzialmente identica a Lc 18,18-23), un tale (un notabile in Luca) chiede a Gesù: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?». Al che Gesù risponde: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo». Questa risposta di Gesù crea un enorme imbarazzo, e risulta un vero e proprio terremoto per parecchi dogmi della chiesa, a cominciare da quello trinitario e cristologico.

Gesù non s’identifica con Dio

Il detto, senza ombra di dubbio del Gesù storico a motivo del tremendo disagio che suscita, sembra non dare scampo a vie d’uscita edificanti: Gesù si pensa come nettamente distinto da Dio e dalla sua bontà. Se si distinguesse solo da Dio, ci sarebbe un’uscita di sicurezza: anche il Figlio è distinto dal Padre. Ma distinguendosi seccamente anche dalla bontà e quindi dall’amore di Dio, Gesù si tira fuori dal circolo divino e si pensa come uomo, profeta, figlio dell’uomo…ecc. (tutto quel che vogliamo in quanto figura chiave del dramma finale che egli stava annunciando e inaugurando), ma non come Figlio nel senso tradizionale. Tanto è vero che Matteo 19,16-22 tenta di uscire dall’impasse togliendo il buono come aggettivo riferito al Maestro, per inserirlo più avanti nell’interrogativa come complemento partitivo: «Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?». Al “giovane” (esplicitamente chiamato tale solo da Matteo) Gesù risponderebbe nel ritocco del primo evangelista: «Perché m’interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono» (senza menzionare Dio, anche se rimane sottinteso). Matteo, non nominando Dio e spostando tutto l’asse dalla qualità della persona alle azioni da fare, tenta di uscire dal vicolo cieco attenuando almeno in parte l’impaccio; ma così facendo ha stravolto la frase combinando un solenne pasticcio, senza alcuna logica interna riconoscibile: solo togliendo Uno solo è buono avrebbe ottenuto un minimo di scorrevolezza con l’aggancio immediato alla successiva citazione dei comandamenti. Ma sappiamo che, pur aggiungendo e cambiando, erano molto restii a togliere di brutto qualcosa: infatti, mentre in Marco si citano solo i comandamenti dal quarto all’ottavo (che sono di giustizia più che di bontà), Matteo con una certa coerenza, per inserire qualcosa di veramente “buono”, aggiunge il comandamento dell’amore al prossimo. Ciò nonostante, ci ha però lasciato un detto praticamente senza senso pur di attutire l’imbarazzo suddetto.

In ultima analisi penso sia attendibile dire che Gesù si ritenesse un profeta, in verità l’ultimo profeta inviato a Israele negli ultimi giorni (una figura simile ricorre nei manoscritti di Qumran; e comunque espressioni come “ultimo profeta” e “figlio dell’uomo” avevano un’importanza ed una pregnanza altissima nel giudaismo palestinese dell’epoca, che attendeva la rinascita della profezia dopo secoli di assenza).

Gesù da salvare

Fra i testi che quasi sicuramente appartengono al Gesù storico, figura anche il bel passo di Mc 14,25 e par.: «Non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio». Anche qui l’autenticità appare forte, per il criterio della discontinuità rispetto alla Chiesa primitiva; fra l’altro l’intera frase è goffa, persino “barbara” in greco, con una triplice negazione (ου̉κέτι ο̉υ μή: non più, mai più)) che potrebbe rappresentare una resa non pienamente felice di un’espressione aramaica.

Col “non bere più” si allude chiaramente alla morte ormai vicina, anche se non necessariamente imminente perché la sua prossimità resta indeterminata (non viene indicato un tempo per essa); Gesù cioè morirà prima di avere l’occasione di partecipare ad un altro banchetto festivo, e riprenderà a bere vino nuovo nel Regno di Dio. Sebbene tutte le energie del Regno siano già all’opera con la predicazione e le guarigioni di Gesù, egli stesso ne attende ancora la venuta. Nella cena di commiato Gesù deve constatare che il suo ministero, da un punto di vista umano, è stato in gran parte fallimentare, perché Israele nel suo complesso non ha dato ascolto al suo messaggio e non lo ha accettato come il profeta escatologico inviato da Dio. Peggio ancora, all’insuccesso del suo progetto di vita potrebbe aggiungersi il tracollo violento della sua vita; ma il detto non termina su questa nota tenebrosa perché egli è convinto che la sua causa sia la causa di Dio, e che quindi, nonostante il fallimento e la morte, Dio alla fine renderà giustizia alla sua causa e al suo profeta inaugurando il Regno e facendo sedere Gesù al banchetto finale, per bere di nuovo il vino della festa e della gioia. Mc 14,25 è perciò un ultimo grido di speranza, che esprime la fiducia in Dio: in definitiva, come quasi sempre, al centro della fede e del pensiero di Gesù non è la sua persona, ma il Regno di Dio. Mentre invece già nella prima generazione cristiana l’attesa del venire di Dio e del suo regno si sposta e si orienta sull'avvento del Signore (Parusia, seconda venuta di Cristo).

Sotto questo profilo possiamo capire e apprezzare pienamente lo spessore della discontinuità: la speranza espressa in questo versetto è del tutto discontinua rispetto alle idee cristologiche, soteriologiche, ecclesiologiche, eucaristiche ed escatologiche della chiesa primitiva. Per quanto riguarda la cristologia e la soteriologia, non si menziona alcun titolo in questo detto, e neppure si assegna un ruolo o una funzione messianica a Gesù nella gioia finale del Regno. Invece di salvare qualcuno dalla morte, Gesù stesso ha bisogno di essere salvato dalla morte, e solo Dio può farlo. Non si stabilisce neppure una relazione di causa-effetto tra la morte di Gesù e la venuta del Regno; anzi l’unica relazione è che l’arrivo del Regno in qualche modo strapperà Gesù dalla morte. La sua morte non viene vista come sacrificio di espiazione, né si accenna esplicitamente alla sua risurrezione, esaltazione o parusia; non sembra nemmeno godere di un posto speciale nel banchetto: è uno dei commensali e dei salvati. Infatti Matteo corregge «nel regno di Dio» in «nel regno del Padre mio», per inserire un minimo di cristologia del figlio in un loghion vistosamente privo di essa; manca persino una dimensione comunitaria/ecclesiologica, senza alcun cenno al ricongiungimento di Gesù coi suoi discepoli nel banchetto finale. Infatti sempre Matteo aggiunge un «con voi», per inserire almeno un elemento comunitario. Comunque questa non è la cristologia, la soteriologia e l’escatologia della prima generazione cristiana, qualunque ramo o corrente venga esaminato (per questo detto di Gesù abbiamo riassunto e rielaborato J.P.MEIER, Un ebreo marginale, vol II, Queriniana-Brescia 2002, pp. 384-387).

Nei due passi sinora analizzati c’è qualcosa di sconcertante per le aspettative cristiane: anziché la totale identificazione e la perfetta sovrapposizione fra il Gesù storico ed il Cristo giovanneo, si spalanca una distanza siderale fra i due.

Beelzebul da legare

Come esempio di cristologia primitiva, palestinese, sinottica e pre-ellenistica, prendiamo da ultimo in considerazione il passo di Beelzebul, in Mt 12,22-29 e Lc 11,14-22, che culmina nel celeberrimo: «se io poi scaccio i demoni con “il dito [Mt: lo Spirito] di Dio”, allora sì che è giunto a voi il regno di Dio», che esprime in termini mitici la lotta contro Satana, contro il principe delle tenebre. Ci muoviamo in concezioni demonologiche ben definite e tipiche del tempo (ovviamente da demitizzare): si presume che i demoni costituiscano un regno compatto, a capo del quale sta un principe (Beelzebul/Satana); e che eventualmente l’esorcista si possa alleare col principe dei demoni (accusa rivolta anche a Gesù). Nel dualismo apocalittico il regno del male (di Beelzebul) diventa l’antipotere che si oppone al Regno di Dio; e il loro conflitto determina la storia del mondo: in tutta la sezione evangelica infatti il Regno di Dio e di Satana vengono contrapposti l’uno all’altro. Inoltre l’idea di uomini ridotti a prigionieri di Satana, e da lui “legati”, è diffusa in ambito apocalittico: «Come potrebbe uno penetrare nella casa dell’uomo forte e rapirgli le sue cose, se prima non lo lega? Allora soltanto gli potrà saccheggiare la casa» (Mt 12,29). Oppure abbiamo quasi un conflitto bellico tra potenze armate militarmente: «Quando un uomo forte, ben armato, fa la guardia al suo palazzo, tutti i suoi beni stanno al sicuro; ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via l’armatura nella quale confidava e ne distribuisce il bottino» (Lc 11,21s).

Nella sostanza si richiede l’intervento di uno “più forte” per vincere “il già forte” (Satana). Gesù è colui che è in grado di vincere il forte, di legarlo e saccheggiargli la casa, o di strappargli l’armatura. Come cristologia non è certo delle più raffinate, anche perché Gesù è equiparato ad un uomo armato o ad un ladro che irrompe in una casa. Ma nel mondo di allora è fondamentale la vittoria contro Satana e il male, la cui potenza è già fondamentalmente sconfitta durante l’azione terrena di Gesù, e non tanto nella sua croce e resurrezione (come invece farà il cristianesimo primitivo, sia paolino che giovanneo).

Possiamo recuperare nella nostra spiritualità cristiana questa gesulogia palestinese, anche se primitiva? Teniamo presente che Gesù ha annunciato e inaugurato il Regno di Dio, e non il proprio Regno di Signore glorificato. Non è stata forse la categoria del “logos” che ha dato un contributo fondamentale alla Trinità ed alla divinizzazione di Gesù (quasi impossibile nell’ambito del monoteismo ebraico)? L’operazione compiuta da Paolo e da Giovanni non è quindi solo un’ellenizzazione, cioè una trasposizione nel pensiero greco, ma una divinizzazione che nei Sinottici non c’è.

Come in altri campi della modernità ci troviamo di fronte ad un’interruzione e non tanto ad una continuità; ma è possibile vivere un cristianesimo sinottico? Cioè una vita cristiana basata sul Gesù pre-pasquale che non ha quasi nulla di divino (nel senso greco-metafisico), e all’interno delle categorie palestinesi del Gesù storico: giustizia del Regno, Regno di Dio (i ciechi vedono, i sordi odono, ai poveri è annunciata la buona novella), sconfitta di satana e del male, banchetto e pasto in comune, figlio dell’uomo…ecc. E ciò senza necessariamente un rapporto personale con Lui di tipo cultico ellenistico? Il centro della fede non è comunque la relazione personale col Cristo (anche se proclamata di continuo dalla catechetica cattolica e papale), con il Signore glorificato. Non è un caso che nella liturgia (lex orandi = lex credendi) ci si rivolga direttamente sempre e solo a Dio Padre. La resurrezione non significa di per sé glorificazione; in comunione e in compagnia col Cristo risorto si cammina verso il regno venturo, senza innalzarsi staticamente ed esclusivamente nella venerazione della seconda persona della Trinità.

Ernesto Ferretti