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UN LIBRO ANTICLERICALE DALLA COSTOLA DI "AVVENIRE": "CHIESA PADRONA" DI ROBERTO BERETTA


da ADISTA nà88 del 9.12.2006


DOC-1807. ROMA-ADISTA. Quando il libro di un giornalista di Avvenire è introvabile sugli scaffali degli stand del Convegno della Chiesa italiana di Verona, può venire l'idea che sotto ci sia qualcosa di strano. Quando poi, aprendo il libro, troviamo sì l'immancabile citazione di papa Ratzinger, ma nell'inedita veste del cardinale che ricorda che "oggi la Chiesa è divenuta per molti l'ostacolo principale alla fede", allora la curiosità diventa sorpresa.
Il libro è "Chiesa padrona" (sottotitolo: "Strapotere, monopolio e ingerenza nel cattolicesimo italiano", Piemme 2006, pp. 188, € 12,90) e l'autore è Roberto Beretta, che scrive sulle pagine culturali del quotidiano della Cei e non è nuovo a sortite irriverenti all'interno dell'allineato mondo dell'informazione cattolica. Ma questa volta - rispetto ai suoi libri precedenti in cui irrideva il linguaggio pretesco ("Da che pulpito... Come difendersi dalle prediche") o l'ignoranza biblica dei cattolici ("Gli undici comandamenti. Equivoci, bugie e luoghi comuni sulla Bibbia e dintorni") - Beretta, pur con uno stile leggero e ironico, attacca con durezza quello che chiama "il più grande nemico della Chiesa italiana": il clericalismo. Una durezza sorprendente, tenendo conto del "pulpito" da cui parla, tanto da indurlo a premettere che, se il suo nome sparirà dal quotidiano dei vescovi, "il lettore potrà concludere che non avevo poi tutti i torti a prendermela con certi meccanismi". In seguito alla pubblicazione, il nome di Beretta non è sparito ma ciò non fa che aumentare la singolarità del libro.
Non sono la "dittatura del relativismo" o le "persecuzioni" inflitte dal laicismo ‘zapateriano' a mettere in pericolo la Chiesa oggi, ma la sua stessa forza e il suo trionfale successo: "Il crollo delle ideologie - argomenta Beretta - ha privato il mondo e l'Italia di uno degli interlocutori più forti e popolari, il ‘socialismo', naturale antagonista del cattolicesimo, lasciando campo aperto alla Chiesa, rimasta ormai unico baluardo di valori che vadano un po' oltre le mere aspirazioni consumiste, libertarie, borghesi, insomma individualiste. La Chiesa è dunque tornata protagonista riverita e rispettata, anzi persino lusingata e blandita, ascoltata e temuta. E, come una vecchia signora inaspettatamente corteggiata, forse si è un poco montata la testa": "Per quanto paradossale possa apparire - aggiunge -, la Chiesa oggi in Italia è ‘padrona', e lo sa. Lo è però solo in quanto utile all'uno o all'altro degli schieramenti, e sa anche questo. Pertanto sembra aver deciso di sfruttare tale temporanea posizione di privilegio facendo finta di crederci e cercando di ricavarne i maggiori vantaggi, per sé e per i valori che promuove. Così, dopo decenni di contestazioni, sbandamenti, depressione, autolesionismo e crisi, le sue file gerarchiche vengono sempre più abitate da un risorgente clericalismo di ritorno; molti ecclesiastici paiono volersi illudere che siano tornati i ‘bei tempi' in cui il parroco era il centro del paese e il vescovo un'indiscussa autorità civile".
Per descrivere cosa sia la mentalità clericale, Beretta prende in prestito una fulminante citazione del poeta Giacomo Noventa: "Il clericale non pensa che l'istituzione sia necessaria. Il clericale pensa che l'istituzione sia sufficiente".
Beretta è tutt'altro che tenero nel descrivere le conseguenze di questo "clericalismo di ritorno" all'interno della Chiesa. Ed è un'analisi serrata, che non si perita di chiamare in causa - anche se l'attacco è rivolto al fenomeno e non alla persona -– il principale artefice di questa gestione negli ultimi decenni, il card. Camillo Ruini: "Il ‘serrate le file' davanti alla constatazione di essere ormai minoranza, la riorganizzazione e il potenziamento delle strutture ecclesiali realizzati nel ventennio Ruini, il realismo da realpolitik nell'occupare spazi e ottenere risultati grazie a un'opera di abili mediazioni hanno concorso nel creare all'interno della Chiesa italiana un centralismo a tratti soffocante e oppressivo per il credente qualunque. Stretto tra la necessità di esprimere una posizione unitaria (anche nelle scelte sociali e civili) coi fratelli di fede e l'assenza di un vero pluralistico dibattito su tali scelte all'interno della comunità, egli si sente spesso esecutore di decisioni altrui, vittima di un ‘pensiero unico' del quale gli sfugge la necessità, deluso per la mancanza di fiducia, conculcato nella sua libertà".
Il giornalista di Avvenire arriva persino a criticare - rispettosamente, ma senza smussare più di tanto - il trionfo della "gioiosa macchina da guerra" di Ruini, il referendum sulla legge 40: "Ma lo stile ‘dirigista' purtroppo si nota in tutta la gestione della Chiesa. L'ultimo referendum sulla bioetica, quello del 2005 in cui i vescovi si schierarono per l'astensione, è un altro esempio del metodo clericale e dei suoi evidenti difetti. E non per l'‘ingerenza' politica di cui è stata accusata la Chiesa dagli esponenti dell'altro fronte, no; piuttosto per una ragione assai più ‘interna' alla comunità cristiana e indipendente dal merito dell'alternativa oggetto di voto (sul quale qui non si discute nemmeno). Qual è stato, infatti, il ruolo dei laici cattolici - ma anche della maggioranza del clero - in quell'occasione? Quello di esecutori obbedienti di una tattica stabilita altrove. Un comitato denominato Scienza e vita è stato fatto nascere dall'alto senza coinvolgere la base - come fu invece, per esempio, all'epoca dei referendum sull'aborto o il divorzio -, dal centro direttivo stesso della Cei, anzi usando strutture e mezzi e uomini già alle dipendenze di enti satelliti della Conferenza episcopale, e di lì si è diffuso verso il basso con le sue parole d'ordine, strettamente controllate dall'alto".
Beretta passa in rassegna tutte le conseguenze della mentalità clericale che è tornata a infettare la Chiesa: dalla totale mancanza di un dibattito franco e libero all'interno della Chiesa alla mania di efficientismo e iperattivismo che accomuna Conferenze episcopali e semplici parroci; dall'invadenza di pronunciamenti da parte della gerarchia su ogni aspetto dello scibile umano alle molte parole vane spese per esaltare il ruolo dei laici (che non devono mai tralignare, però, dal loro ruolo di cinghia di trasmissione dei chierici); dal conformismo dei preti alla formazione, gerarchica e ‘escludente' rispetto al mondo, impartita nei seminari, fino, naturalmente, al capitolo dolente dell'8 per mille.
Certo, nel libro di Beretta non mancano le ambiguità e gli ammiccamenti: ad esempio, in un passo in cui riconosce persino nelle parole del suo direttore Dino Boffo il timido tentativo di aprire un dialogo all'interno della Chiesa che si sostituisca al ‘monologo' della Cei. Ma d'altra parte, come tiene a precisare lo stesso autore, non si tratta certo di un libro scritto "contro il clero, ma assolutamente contro il clericalismo": "Non è anticattolico, anzi della fede vuole rispettare tutti i dogmi. Solo quelli però". Riproponiamo qui ampi stralci del capitolo dedicato all'otto per mille. (a. s.).

TUTTO QUELLO CHE NESSUNO VI HA MAI DETTO SULL'USO DELL'8 PER MILLE


 di Roberto Beretta

La Trinità ha quattro persone? Si può discutere. Gesù Cristo non è veramente risorto? Parliamone. Però al vero clericale non toccare l'otto per mille: quello è diventato ormai più sicuro di un dogma, più intangibile di un precetto del catechismo. E non per gretta avidità di denaro: perché trattasi di uno dei principali ingranaggi su cui si fonda il macchinoso castello della "Chiesa padrona".
Del resto, discutere della divinità di Gesù Cristo - finché non sboccia in aperta eresia - interessa al massimo una minoranza di colti, e comunque ammette un sacco di sfumature magari lecite. Invece sollevare obiezioni «dall'interno» su tattiche contingenti e discutibili come l'otto per mille (ma anche l'ora di religione nella scuola, il finanziamento alle scuole cattoliche, il riconoscimento civile delle coppie di fatto...), sia pur in linea teorica o ipotetica, rischia di creare una crepa nella quale "i nemici" potrebbero infilarsi per scardinare l'intero sistema (...).
Proprio il meccanismo dell'otto per mille, pur avendo dischiuso grandi risorse e prospettive alla Chiesa, mostra un sacco di effetti collaterali di cui tra credenti ed ecclesiastici non si parla mai. Cominciamo dalle prime. Anzitutto, il denaro corrisposto dai contribuenti italiani (attraverso una firma sulla dichiarazione dei redditi) alla Cei - oppure ad altre realtà confessionali ammesse al sistema - non fa che riconoscere almeno in parte il servizio sociale, educativo, assistenziale oltre che religioso svolto dalla Chiesa per i cittadini italiani, non credenti inclusi.
Si tratta dunque di un sacrosanto e probabilmente sottostimato "stipendio" per una categoria, il clero, che oltre ai suoi doveri di culto compie moltissimo lavoro "pubblico" e civile; e che, anche quando adempie a un ministero puramente spirituale, risponde alla domanda di gran parte della popolazione. Dunque ha diritto a sentirsi garantito di un minimo vitale.
Però proprio questa "garanzia" dovrebbe fare un po' di problemi, ai cattolici e ai preti stessi. Per esempio, per la mancata responsabilizzazione dei laici cristiani sul mantenimento del "loro" clero: se in Italia vigesse il sistema tedesco delle decime, o quello americano delle tasse sul culto, c'è da credere che i nostri preti farebbero la fame e che la Penisola sarebbe abitata al 99% da un popolo di agnostici "fiscali". Eppure, sarebbe più rispondente allo spirito del Vangelo che i credenti stessi provvedessero fraternamente ai loro preti (ammesso che questi ultimi si fidassero a mettersi nelle mani dei fedeli...). Utopia? (...)
Troppo "garantismo" sulle risorse, inoltre, non favorisce lo sviluppo nemmeno di chi usufruisce di tali fondi: è una legge della logica assistenziale. In altre parole: che lavorino o no, che lo facciano molto o poco, i preti il piatto in tavola sono sicuri di avercelo (a differenza di molte altre categorie di persone) e anche qualcosina in più; perché dovrebbero affaticarsi a guadagnarselo? Certo, si suppone che la loro coscienza sia più scrupolosa di quella - per esempio - di un "normale" e vituperato dipendente statale: ma anche loro sono uomini, no? Perché non potrebbero cadere in qualche caso in una mentalità assistenziale?
Anche per la Chiesa nel suo complesso, il fatto di godere ogni anno di centinaia di milioni più o meno "sicuri" non stimola certo la fiducia nella Provvidenza, per non dire lo spirito di povertà francescana. Anzi, pone semmai problemi di effettiva libertà nei confronti dello Stato o del suo governo, che potrebbero anche esercitare un sottile ricatto politico (...).
L'otto per mille è assai comodo, solleva da un sacco di problemi e permette persino di togliersi certi sfizi o di abbondare in qualche investimento; ma pone pure qualche problema, e qualche domanda scomoda. Per esempio, basta navigare nel bellissimo sito Internet dedicato al cosiddetto "Sovvenire" oppure guardare in tv i periodici spot mandati in onda prima del periodo delle dichiarazioni dei redditi per rendersi conto di quali e quante risorse professionali vi siano state profuse. Giustamente, forse; ma uno spot simile – poniamo - su Gesù Cristo, quando mai la Cei lo ha commissionato e fatto trasmettere?
C'è un'altra questione ben più capitale, tuttavia, ed è l'enorme potere attribuito a chi gestisce i proventi dell'otto per mille e delle altre offerte del "Sovvenire"; un potere che non deriva "dal basso", da una democratica elezione, né deve rendere conto del suo operato (al di là dei bilanci generali) a chi ha versato il suo contributo; un potere che pure ha importantissimi risvolti ecclesiali e teologici. Quale vescovo per esempio - sapendo che poi dovrà ricorrere alla Cei per il denaro che gli occorre a sistemare un seminario o riparare la cattedrale o costruire qualche canonica - alzerà mai la mano in assemblea generale per contestare le posizioni della presidenza? In assenza di separazione dei poteri, come tra Parlamento e magistratura per esempio, il rischio è quello di far coincidere i controllori con i controllati: un regime che - anche se (lo speriamo vivamente) di fatto non si verificano abusi né irregolarità - alimenta il clericalismo, cioè nel caso specifico una gestione discrezionale del denaro.
Certo, esistono alcune norme per favorire un'equanime distribuzione dei fondi. Nel 2005, per esempio, la Chiesa cattolica ha ottenuto dal ministero delle Finanze 984 milioni di euro, dei quali 315 sono andati al sostentamento dei quasi 39 mila sacerdoti italiani, 155 per le esigenze del culto e della pastorale e 85 a interventi caritativi (questi ultimi due fondi vengono ripartiti per metà in parti uguali tra tutte le 226 diocesi italiane e per l'altra metà sulla base del numero dei loro abitanti). E fin qui si tratta di meccanismi di divisione automatici e dunque senza possibilità di sperequazioni. Ma il resto, che poi corrisponde a quasi metà del totale, una somma comunque enorme?
Una parte, per esempio quella relativa alla costruzione di nuove chiese o alla tutela dei beni artistici e agli interventi a favore del terzo mondo, dipende dai progetti presentati alla Cei - ed è bello pensare che non ci siano margini discrezionali o favoritismi per le diocesi "amiche" -; un'altra finisce a pioggia sopra vari enti cattolici, compresi alcuni magari benemeriti ma del tutto sconosciuti se non agli addetti ai lavori - e anche qui è difficile credere che i destinatari si sentano poi liberi, se fosse il caso, di presentare obiezioni sull'opera-to di chi fornisce aiuti tanto preziosi -; un'altra ancora confluisce in fondi come quello intitolato alla catechesi e all'educazione cristiana, che sarebbe curioso sapere che cosa ne faccia dei ben 60 milioni di euro erogatigli ogni anno.
Insomma, senza voler prospettare il peggio - e cioè fenomeni di corruzione o cattiva gestione -, è inevitabile che cifre così rilevanti "riservate" (lo dice il sito Internet ufficiale) "alla Presidenza della Cei" per "attività di rilievo nazionale" creino nei confronti della stessa Cei e in specie della sua dirigenza una fastidiosa posizione di sudditanza almeno psicologica e morale da parte dei confratelli vescovi e della maggior parte delle istituzioni ecclesiali o laicali.
Il denaro, soprattutto quando è molto, significa potere; anche nella Chiesa (...). Proprio in quanto la Chiesa non è un sistema democratico, dotato dunque di meccanismi di controllo ben precisi, dovrebbe mettersi al riparo da ogni illazione di parzialità distinguendo l'indirizzo "politico" dalla gestione dei fondi e garantendo che essi arrivino anche a un eventuale gruppo di dissenzienti dalla linea della dirigenza.
Spesso la Chiesa ricorda di non essere una democrazia. Ma, se è per questo, non è nemmeno una monarchia ("Essere Chiesa di comunione", ha scritto il giornalista Giancarlo Zizola, "significa essere più di una democrazia, non meno") e comunque dovrebbe aver presenti le anomalie che il suo regime comporta, e cercare di ovviarvi (...).
La struttura cattolica, infatti, vede lo spirituale e il temporale talmente sovrapposti che un cortocircuito è quasi inevitabile; l'abuso di potere spesso è inavvertito persino da chi lo esercita, in quanto costui è convinto di compierlo a fin di bene; la commistione dei livelli, la mancata distinzione degli ambiti (in altri contesti si direbbe il conflitto d'interes-si) non vengono neppure presi in considerazione. Così avviene che, come succede spessissimo negli ambienti "laici", grazie all'attuale sistema, anche nella Chiesa, quanti reggono i cordoni della borsa tengano sotto controllo ben più di ciò che effettivamente gestiscono, ed esercitino un potere ricattatorio che non ha nemmeno bisogno di essere espresso perché i soggetti lo percepiscano (...).
Basta fare una prova: si troveranno fior di case editrici cattoliche o riviste espressione di ordini religiosi disposte a ospitare le più estrose e dubitosamente ortodosse dottrine teologiche; e nessuno o quasi, nella gerarchia, muoverà un dito. Ma guai a chi si arrischi a esprimere un semplice dubbio sul meccanismo che garantisce il sostentamento del clero (e tanto altro assieme): lì la burocrazia clericale agisce senza pietà. Questo stesso libro ha provato la ventura di essere stato rifiutato, dopo una lettura dei primi capitoli, dalla pur ottima e ben intenzionata casa editrice cattolica che ne aveva accolto volentieri il progetto, e non perché il testo sostenesse a parere del responsabile cose inaccettabili: solo perché la casa "non poteva permettersi" di indisporre chi nelle alte gerarchie ha poi il potere di esercitare le sue ritorsioni in tanti e pesanti modi, che magari riguardano la casa editrice stessa, le sue strutture o la congregazione religiosa che ne è proprietaria.
L'otto per mille come ricatto morale, quindi. Già adesso è d'uso tappar la bocca a chiunque nella Chiesa non sia d'accordo con la linea dominante, rinfacciandogli il fatto che pure lui intasca i frutti della convenzione con lo Stato. Non sei d'accordo? Rinuncia ai finanziamenti per la tua parrocchia, alla congrua, allo stipendio da giornalista nel quotidiano cattolico... Altrimenti taci e ringrazia la Provvidenza (e il concordato) che ti danno da mangiare! La libertà dei figli di Dio scambiata con il biblico piatto di lenticchie...
In fondo, tutta la faccenda posa su un equivoco assai più vecchio dell'otto per mille: quello che i soldi dei preti siano proprio dei .preti. Non è così, invece, o almeno non sempre. Non tutte le proprietà ecclesiastiche sono ascrivibili infatti al lavoro e al risparmio di sacerdoti e religiosi, i quali - come noto - mettono in comune i frutti del loro impiego oppure reinvestono anche gli averi personali nell'opera cui collaborano. Spesso i beni e le case derivano da donazioni, lasciti, legati di benefattori vivi o defunti, che li danno alla Chiesa sia per le sue necessità, sia per soccorrere i poveri. In questo caso, benché gli intestatari siano formalmente parrocchie o istituti religiosi, è evidente che il clero ne è solo amministratore e non proprietario (almeno moralmente parlando e soprattutto poi se si considera la ricchezza nel contesto più ampio del possesso secondo i precetti evangelici).
Quanto all'otto per mille, è vero che - si diceva sopra - esso è meritato anche dalle fatiche e dall'impegno dei singoli sacerdoti. Però non si deve dimenticare come derivi dalle tasse di tutti i cittadini, non cattolici compresi; dunque esiste il dovere morale che quel cespite non solo non vada sprecato e corrisponda al fine per cui è devoluto, ma che venga distribuito davvero a tutti (persino a coloro che eventualmente hanno idee differenti da quelle dominanti nelle strutture ecclesiastiche, e che comunque sono rappresentati nella base dei contribuenti) e che non serva a perpetuare un meccanismo scarsamente pluralistico e clericale, di per sé dannoso alla Chiesa (...). La Cei (e tanto meno la sua dirigenza pro tempore) non può considerarsi "padrona" nemmeno dell'otto per mille.