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Intervista
«E' stata la fine di un incubo: andava rispettata la sua volontà»
Intervista a Amos Luzzatto, ex presidente dell'Unione delle comunità ebraiche e per quaranta anni medico chirurgo negli ospedali italiani

Eleonora Martini


il manifesto del 28.12.2006


«Quello che non capisco è come si possa dire no all'eutanasia e sì alla pena di morte». E' una contraddizione intollerabile per Amos Luzzatto, ex presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane, che non comprende il senso di una condanna a morte nemmeno per «un criminale come Saddam Hussein», mentre vede in quella sentenza «il sintomo di una debolezza molto pericolosa per la società irachena». E avverte: «Così si ritorna alla legge del taglione, contemplata nelle 12 tavole romane e nelle leggi di Hammurabi, ma che è stata assolutamente cassata dalla tradizione ebraica successiva, al contrario di quanto di creda».

Dottor Luzzatto, lei che ha svolto per 40 anni la professione di medico chirurgo, cosa ha provato quando è morto Piergiorgio Welby?
Sono contento che finalmente si sia conclusa la sofferenza di un uomo che non poteva trovare un rimedio da solo e che nessuno voleva aiutare. Era un incubo: vedere che soffriva e che chiedeva di morire senza poter far niente è stata una cosa drammatica, angosciante.

Cosa pensa delle polemiche che questo caso ha suscitato?

Credo che in questo periodo si sia parlato troppo degli aspetti giuridici e morali, ma mai in termini di solidarietà umana. Le generalizzazioni in casi limite come quello di Welby sono sempre pericolose. Si pensi all'astrofisico Stefhen Hawking: lui desidera vivere con tutte le sue forze, anche se non so quanti di noi sarebbero in grado di dire la stessa cosa al suo posto. Nel suo caso sarebbe criminoso togliergli quel po' di vita che gli resta. E' troppo facile parlare quando non si è nella stessa situazione. Ascoltando alcuni giudizi sommari, ho trovato delle similitudini con l'esaltazione che si fa nei salotti in tempo di guerra delle sofferenze dei martiri e degli eroi.
Quale riflessione c'è nel pensiero ebraico su questi temi di fine vita: eutanasia e accanimento terapeutico?
Io vorrei che qualcuno mi dicesse qual è il confine tra l'interruzione dell'accanimento terapeutico e l'eutanasia, perché ognuno lo sposta dove meglio crede. Ogni atto potrebbe tranquillamente essere visto sia come un prolungamento della sofferenza con mezzi artificiali, sia come accelerazione della morte: è veramente molto labile il confine tra questi due eventi. E' un problema che è stato posto molte volte anche nel pensiero etico ebraico, ma che io cercherei di soggettivizzare. Durante la mia vita di chirurgo ho visto persone arrivare a questi stati limite e reagire in forme radicalmente diverse. C'era chi anelava a un attimo in più di respiro, a un momento di ulteriore funzione organica vitale, e chi invece implorava la morte. Nel primo caso qualunque terapia non può essere considerata accanimento terapeutico, nel secondo invece ogni ulteriore trattamento va chiamato col giusto nome: tortura. Noi parliamo prescindendo dalle sensazioni, della volontà e dal desiderio del soggetto interessato. Ognuno di noi è diverso per educazione, per risorse spirituali, morali e intellettuali. Non possiamo arrogarci il diritto di esaltare la sofferenza di un altro, altrimenti ritorniamo ai tempi in cui si bruciavano le streghe perché la loro anima venisse redenta.
Occorre quindi accelerare i tempi per una legge sul testamento biologico?
Sì, io sono d'accordo col testamento biologico. Anche se rispetto all'eutanasia, che è una sorta di suicidio assistito, io sarei favorevole ma con grandi riserve. Molte volte ho visto persone che hanno tentato il suicidio ma poi se ne sono pentiti. Dobbiamo insomma essere molto responsabili davanti ad atti di questo genere, ma senza chiudere drasticamente ogni possibilità.
Se queste domande fossero state poste ad un rabbino, come avrebbe risposto?
Avrebbe avuto più di una risposta, visto che nella tradizione ebraica ci sono vari esempi di suicidi osannati e ricordati nel testo biblico. Si potrebbe citare Masada, i cui morti vengono ancora onorati, o re Saul, il primo re di Israele, che si suicidò con la sua spada e la cui elegia composta dal suo successore David è un autentico salmo di gloria che è entrato nel testo biblico canonizzato ebraico. L'ebraismo non è una Chiesa dogmatica centralizzata dove c'è un Papa che indica il comportamento da adottare a tutti i fedeli che ne vogliono far parte. Nel mondo ebraico si dibatte di questi temi in modo non superficiale, ma con notevole disinvoltura. Eppoi c'è l'abitudine ebraica di soppesare il caso singolo con grande attenzione alle varianti soggettive. E' difficile che il più colto, il più istruito e informato dei rabbini si senta di dare dei giudizi drastici e validi per tutti i differenti casi. Mi dispiace constatare invece che nel nostro paese sia mancata, nell'insieme, una presa di posizione globale e generalizzata che difendesse il dovere di capire ciascun soggetto che soffre e di non sostituirci alla sua volontà.