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NELLE SEGRETE DELL'OPUS DEI. IN UN LIBRO TESTIMONIANZE DI FUORIUSCITI


ADISTA N° 10 DEL 3.2.2007

DOC-1821. ROMA-ADISTA. Oltre 85mila membri in tutto il mondo, di cui quasi 20mila numerari (cioè laici che fanno i voti di povertà, castità e obbedienza); 1.850 sacerdoti, 2 cardinali (uno dei quali, Julián Herranz, è il presidente del Pontificio Consiglio per l'interpretazione dei testi legislativi) e 41 vescovi, la maggior parte dei quali in America Latina; 15 università con circa 80mila iscritti, 11 scuole di gestione aziendale con 10mila allievi, 130 fra scuole elementari, medie, superiori e centri di formazione professionale con quasi 40mila studenti: sono i numeri dell'Opus Dei, l'organizzazione fondata in Spagna nel 1928 da Josemaría Escrivá (canonizzato a tempo di record nel 2002 da Giovanni Paolo II) ed elevata a Prelatura personale del papa – caso tuttora unico nel mondo cattolico – dallo stesso Wojtyla.
Sull'Opus Dei sono appena usciti due libri, molto diversi fra loro: un'indagine di John Allen, vaticanista del "National Catholic Reporter", che traccia la storia e passa in rassegna i caratteri originali e gli aspetti fondamentali della "forza più controversa nella Chiesa cattolica" (Opus Dei. La vera storia, Newton Compton, Roma, 2006, pp. 364, euro 14,90), e una raccolta di testimonianze inedite, curata da Ferruccio Pinotti, di numerari fuorisciti dall'Opus Dei (Opus Dei segreta, Bur, Milano, 2006, pp. 476, euro 11,50).
Quella di Allen, per ammissione dello stesso autore, è un'inchiesta sull'Opus Dei semi-autorizzata dai suoi stessi dirigenti: "l'organizzazione mi ha concesso un accesso privilegiato di cui non ha usufruito prima nessun altro giornalista", scrive Allen nell'introduzione, "la collaborazione" è stata "totale". E infatti il libro, ricco di dati e di informazioni, più che a raccontare i "segreti" dell'organizzazione sembra tendere a giustificare gli aspetti maggiormente controversi dell'Opus – dalla finanza alla segretezza, dal ruolo all'interno della Chiesa alle tecniche di reclutamento di nuovi adepti –, andando ad evidenziare le eccezioni positive e operando continui confronti – che spesso appaiono accostamenti impropri – con altre congregazioni religiose, prima fra tutti la Compagnia di Gesù, storica avversaria dell'Opus.
È l'Opus Dei visto dal di dentro quello che invece emerge dal libro di testimonianze raccolte da Pinotti in cui 16 numerari e numerarie di tutto il mondo usciti dall'Opus Dei negli ultimi vent'anni svelano senza reticenze i loro vissuti all'interno dell'organizzazione: il reclutamento, la pressione psicologica, il lavoro, la vita spirituale, le mortificazioni corporali, i rapporti con le famiglie, la repressione sessuale, la gestione del denaro. In appendice viene pubblicato un documento ad uso interno: la Guida bibliografica, cioè una sorta di Indice dei libri proibiti a cui devono attenersi tutti i membri dell'Opus. Un elenco di 60.541 volumi, dai classici ai contemporanei, classificati in diversi gradi fruibilità: libri che possono essere letti da tutti; libri che, per essere letti, richiedono un discreto tasso di formazione morale e dottrinale; libri che richiedono il permesso del direttore spirituale; libri proibiti, o che possono essere letti solo con il permesso speciale del Prelato (cioè il capo della prelatura, al momento mons. Javier Echevarría). E fra questi ultimi ci sono le opere di Vittorio Alfieri, Honoré De Balzac, Leonardo Boff, Dietrich Bonhoeffer, Bertolt Brecht, Cartesio, Gabriel García Márquez, Hans Küng, Blaise Pascal, Pier Paolo Pasolini, Cesare Pavese, Sergio Quinzio, Jean-Jacques Rousseau, Leonardo Sciascia, Stendhal, Giancarlo Zizola, Emile Zola e di molti altri, fra cui diversi ‘insospettabili'.
Pubblichiamo di seguito una parte di una delle testimonianze presenti nel libro: quella dell'ex numeraria Amina Mazzali (una delle tre donne italiane che raccontano la loro storia) che, fra le altre cose, narra del suo colloquio di ‘ammissione' svolto con la numeraria Paola Binetti, ora deputata della Margherita e fondatrice, insieme all'ex presidente della Acli Luigi Bobba, del gruppo dei teo-dem.

A QUINDICI ANNI NELL'OPUS DEI


 di Amina Mazzali

(…) Al termine delle scuole medie, Amina e i suoi genitori si sono posti il problema di dove proseguire le superiori: Milano, se non si appartiene alla classe del privilegio, non è una città facile; e scegliere un ambiente tranquillo e protetto è ritenuto da alcuni una garanzia per non incorrere nei pericoli della droga o in strane frequentazioni.
Amina racconta che fu un cugino a segnalarle un istituto appartenente - ma questo ‘dettaglio' lo capi molto dopo - alla galassia delle scuole create dall'Opus Dei a Milano e nel resto d'Italia, attraverso la Faes (le scuole Faes – Famiglia & Scuola – fanno capo a un'associazione di genitori, per lo più sopranumerari dell'Opus Dei, che gestisce scuole in diverse città italiane, ndr). Le disse che era una scuola speciale e molto buona, che poteva frequentare corsi extra in tante materie interessanti, ricevere una formazione personalizzata. Certo, essendo una scuola privata c'era da pagare una retta; ma la famiglia avrebbe sopportato volentieri il sacrificio, pur di dare il meglio ad Amina e a suo fratello.
Prima di essere ammessi all'istituto, era necessario un colloquio per stabilire le attitudini e le propensioni alla scelta del liceo. Amina sostenne l'‘esame' con una numeraria dell'Opus Dei, Paola Binetti, una psichiatra che in seguito sarebbe divenuta famosa come presidente del Comitato Scienza e Vita, poi eletta deputato nelle liste della Margherita alle elezioni politiche dell'aprile 2006.
Già quel primo incontro ebbe un carattere strano, inatteso. "Ero determinata, al termine delle medie, a iscrivermi al liceo scientifico, avevo già fatto la pre-iscrizione all'Istituto Gonzaga di Milano. Ma in quell'incontro Paola Binetti mi esaltò i vantaggi di un'educazione classica e mi fece il panegirico di quella scuola, con tutte le attività formative complementari che mi offriva. (...) Aveva una capacità di persuasione e di influenza psicologica davvero incredibili. Alla fine mi convinse e mi iscrissi al classico. Fu così convincente che uscii dal colloquio con una idea ben chiara: sarei stata disposta a fare il classico pur di frequentare una scuola così speciale. Sapevo che le classi non erano miste, come alle medie che avevo frequentato, ma solamente femminili, ma al momento non vi diedi peso perché le innumerevoli qualità di quella scuola così come mi erano state illustrate valevano bene quel sacrificio. Anche le insegnanti erano solo donne. Le ragazzine delle elementari e delle medie portavano una divisa con una gonna kilt, fino all'anno prima era obbligatorio anche per quelle del liceo, una cosa piuttosto inusuale". (...)
Lentamente, attorno ad Amina si dispiega il meccanismo del coinvolgimento inconsapevole con il quale l'Opus Dei recluta le sue nuove leve, per la maggior parte in età adolescenziale. Una tecnica collaudata, formalizzata nei dettagli. "Alcune compagne di scuola mi spiegarono che, parallelamente alla scuola, c'erano dei club femminili, che potevo frequentare insieme a loro. Così ho iniziato ad andare, a frequentare quegli incontri". L'impatto iniziale fu positivo, incoraggiante. (…) Ad Amina viene pian piano fatto capire che ha di fronte un'opportunità splendida, quella di entrare in un mondo sconosciuto, ma ricco di possibilità: l'Opus Dei. Non le viene spiegato, tuttavia, cosa significhi la vita da numeraria, l'impegno al celibato apostolico cui ci si obbliga per tutta la vita. Né gli enormi sacrifici che dovrà affrontare, o il lavoro di apostolato ovvero il ‘reclutamento' delle nuove leve, che sarà tenuta a compiere per il resto della sua vita. Non le viene nemmeno prospettato un percorso futuro diverso, come soprannumeraria, quindi con la possibilità di costruirsi una famiglia propria. Quello che le viene proposto è un ‘mondo', la chance di ‘innamorarsi' di un ideale più grande di tutto. Tutto questo viene promosso con affetto, tenerezza, attenzioni, iniezioni di autostima.
L'età nella quale ad Amina viene prospettata l'entrata nell'Opus Dei è quella dei grandi turbamenti, dello sconvolgimento del corpo, della percezione affettiva alterata. "Hanno iniziato a propormi di entrare nell'Opus Dei quando avevo quindici anni, era il 1985. E non ero nemmeno la più giovane. Quando mi hanno contattato una mia compagna di classe, della stessa età, era già dell'Opera da un po' di tempo. Non è così infrequente che si provochi la ‘crisi vocazionale' a ragazzi così giovani. In realtà anche a me in seguito e capitato di parlare di vocazione a ragazze molto giovani, anche di tredici anni, e questo non è affatto scoraggiato dai direttori, anzi. Ti viene spiegato in mille occasioni e mille modi che offrire la possibilità di donare la vita a Dio nell'Opus Dei è il favore più grande che puoi fare loro, perché questo è un privilegio che pochi hanno, e dona la felicità più grande. Nessuno di noi aveva la percezione che stava forzando delle coscienze ancora deboli e immature: pensavamo di fare il loro bene. Questo è quello che ci insegnavano e che è anche scritto nelle pubblicazioni interne. È questa la cosa terribile, sei profondamente convinta di fare il bene delle persone e invece le stai manipolando, stai causando loro dei danni nella coscienza e nello sviluppo psicologico, che magari pagheranno per lungo tempo in termini di sofferenze interiori, squilibri, disadattamento sociale". (…)
"La prima volta che mi proposero di entrare nell'Opus Dei lo fecero attraverso questa mia amica e compagna di classe, mia coetanea e già dell'Opera, in un'occasione particolare: si teneva la novena dell'Immacolata nel Duomo di Milano, c'era una certa atmosfera, molto speciale. Incaricarono lei perché ovviamente fa più effetto che te ne parli una della tua età che già ha fatto il grande salto. Mi disse: ‘Hai mai pensato alla vocazione? Alla possibilità di donare tutta la tua vita a Dio e diventare numeraria dell'Opus Dei?'. All'inizio sono caduta dalle nuvole, le ho detto di no, allora lei ha insistito un po' e mi ha detto: ‘Se vuoi, puoi parlarne con la tutor'. Io all'epoca ero molto aperta, ingenua, senza pregiudizi; per cui ho risposto: ‘Va bene parliamone, tanto cosa ci perdo?'. La tutor era una ragazza più grande, molto intelligente, un'universitaria che era la leader del club dove andavo io ogni tanto. Una persona molto sveglia, con una forte personalità. Una giovane donna che sembrava aver provato la vita, e che dava l'idea di aver rinunciato a un'esistenza ‘normale' per qualcosa di più grande, per una missione. Il suo esempio mi fece molta impressione. Mi hanno conquistato così, parlandomi della missione in termini di coraggio, di una scelta di vita forte. L'esperienza in parrocchia e poi dalle Orsoline mi aveva instillato un iniziale senso della fede. Già lì c'erano stati degli incontri, dei ritiri. Avevo una fede molto sincera, molto pulita". (…)
"L'approccio dell'Opus Dei faceva leva su una personalità, la mia, ancora non formata. Accettavo con grande fiducia quello che mi arrivava dai ‘grandi', dalle altre studentesse più anziane di me e dai miei genitori, come qualcosa di illuminante. Ero sempre stata attorniata da persone che mi volevano bene e che utilizzavano la loro esperienza per darmi buoni consigli, consigli disinteressati, solo per aiutarmi. Ero abituata a fidarmi di loro e quindi affrontavo ogni orientamento che proveniva dagli adulti con poco spirito critico. Ero come una spugna che assorbe. Non avevo assolutamente coscienza allora di cosa fosse davvero l'Opera o la vita da numeraria; ciò che avevo era un'idea estremamente vaga e affascinante: dedicare la mia vita a una missione. Sì, è vero che loro, in teoria, mi dissero ‘Devi essere pronta a dare tutto', però un conto è dire una frase generica a un'adolescente piena di ideali romantici, un altro conto poi è arrivare al concreto, spiegare cosa significa. Avevo capito solo che avrei continuato a studiare e poi a lavorare, dedicando tutto il resto del mio tempo all'Opus Dei. Sì, certo, c'era il discorso del non sposarsi; ma a quell'età, a quindici anni, rinunciarci non ti pare un sacrificio, bensì una scelta eroica. Oltre a questo, sapevo che bisognava andare ad abitare in un Centro dell'Opus Dei, frequentando nel contempo l'università. Punto. Non sapevo nient'altro".
(…) "E a diciassette anni ho presentato la domanda di ammissione all'Opus Dei. Ricordo che erano tutte contente, le ragazze dell'Opera che frequentavo. Scrissi la lettera indirizzata al Padre, don Alvaro del Portillo. Questa domanda la si scrive come se si scrivesse una lettera a un vero padre, con parole d'affetto e di fiducia. Dai quattordici ai sedici anni e mezzo la lettera va scritta al Vicario Regionale. Ma dai diciassette anni in poi io ero a tutti gli effetti numeraria, vivevo come una numeraria". Amina, pur non risiedendo in una ‘casa' dell'Opus Dei, inizia presto a capire quali sono i rituali che contrassegnano la vita dei fedeli laici nell'Opera: sveglia alle 6 del mattino, baciare il pavimento, una preghiera di offerta della giornata alla Madonna - il Serviam -, pulizie di casa, orazione, Messa, studio, due ore di cilicio, apostolato, reclutamento di possibili nuove numerarie, confessione una volta alla settimana, altre orazioni, lettura di un libro di spiritualità, esame di coscienza e a letto presto, in modo da dormire sette ore e mezzo o otto.
(…) I genitori di Amina erano totalmente all'oscuro della scelta di vita compiuta dalla figlia. "Anche questo aspetto è stato terrificante: all'Opus Dei mi hanno sconsigliato di parlarne con i miei genitori. Mentre discutevamo della vocazione io dissi alla mia tutor: ‘Mi piacerebbe parlarne con i miei, chiedere se sono d'accordo'. Mi risposero: ‘È meglio di no. Loro sono fuori dal nostro mondo, non hanno il nostro spirito e probabilmente non capiranno. Non potranno darti un consiglio su una cosa che non conoscono, loro non possono avere la grazia di stato necessaria per darti un buon consiglio. È meglio che chiedi consiglio a una di noi, o a un sacerdote dell'Opera. Ai tuoi casomai lo dirai più avanti, dopo averli preparati bene'. (…)".
Quando i genitori hanno saputo che Amína era diventata numeraria sono rimasti profondamente turbati. "I miei l'hanno saputo per caso, avevo già diciotto anni, era passato diverso tempo da quando avevo chiesto l'ammissione. Avevo lasciato un mio diario in giro, aperto, sulla scrivania di camera mia. Mia mamma è molto curiosa, l'ha visto e non ha potuto resistere, ha cominciato a leggere. Quando ha letto alcune frasi che le hanno fatto capire che ero diventata numeraria mi ha fatto una scenata allucinante, mi ha detto che ero pazza, che non esisteva che io non le avessi detto niente, che era assurdo dover apprendere certe cose dal mio diario. Io invece di essere sollevata ero arrabbiata nera, perché mi sembrava che avesse infranto la mia privacy. Lei era sconvolta, piangeva. Era stato un grosso trauma, per lei e anche per me". La signora Mazzali ne parlò con il marito. "Sì, neanche mio padre era d'accordo. Anche lui era sconcertato, ma ebbe una reazione più pacata. Mi disse di riflettere bene su quello che stavo facendo, sulle mie scelte. ‘L'importante - disse - è che non ti fai forzare, che sia una decisione tua'. Io dicevo: ‘No, assolutamente non accadrà, questo percorso è una decisione mia'. In realtà ero già stata programmata a rispondere a quelle obiezioni. All'Opus Dei mi dicevano: ‘Guarda che ti diranno questo e quest'altro, sii preparata, puoi rispondere così e così. Ma devi rispondere con convinzione, non devi dare l'impressione di riportare delle ragioni di altri, devi convincertene prima tu'. Loro ti preparano le domande e le risposte, ti allenano a rispondere con le loro ragioni, che chiaramente ti convincono molto. Nell'Opera i vertici sono riusciti a pensare a tutte le possibili opposizioni, a ogni critica, e alle relative risposte da fornire".

Mortificazione corporale
(…) "A diciassette anni ho iniziato la mortificazione corporale: dovevo portare il cilicio alla coscia e frustarmi con la disciplina, ovvero la frusta. Non è una scelta, o una cosa facoltativa: te la chiedono espressamente, la mortificazione corporale. Il cilicio e la disciplina li dovevo usare solo quando mi trovavo nei Centri dell'Opus Dei, perché all'epoca - durante il liceo - abitavo ancora con i miei e solo all'università mi trasferii in una residenza dell'Opera. Ma già prima dovetti adattare il mio stile alle nuove regole della vita che avevo scelto, compresi la frusta e il cilicio". (…) "La numeraria che mi aveva trattato - questo il termine che usano per indicare l'azione di seguire passo dopo passo un giovane per avvicinarlo all'Opera - iniziò a parlarmi di questa cosa, la mortificazione corporale. Disse che era per volere del Padre. Io, quando la numeraria più grande che si occupava di me mi ha parlato della mortificazione corporale, sono rimasta allibita, pensavo che mi prendesse in giro, che scherzasse. Ricordo che me ne parlò durante un tragitto in metropolitana, a Milano, un'ambientazione piuttosto strana per un discorso del genere. Quando le espressi tutto il mio stupore mi spiegò che era un modo per avvicinarsi a Cristo. Mi ricordò che avevo promesso di essere disposta a dare tutto. Se ti tiri indietro, ti dicono che sei una persona inaffidabile, che non sei degna della chiamata privilegiata di Dio, che sei una vigliacca". (…)
"Da quel momento in poi il mio rapporto con l'Opus Dei era basato tutto sul senso di colpa. Mi dissero: ‘Tu hai dato la vita a Dio una volta per sempre, ti sei impegnata, devi farlo'. Tutto era basato su quello. Dicevano: ‘Se ti tiri indietro non sei una persona corretta, volti le spalle a Dio.' Pian piano sviluppi un senso di colpa che ti costringe a fare anche ciò che non vorresti; perché non è del tuo giudizio che ti devi fidare ma della voce di Dio che ti viene attraverso i direttori".
La scena della ‘prima volta' in cui Amina iniziò a far uso del cilicio e della disciplina è bene impressa nella sua mente. "Io frequentavo uno dei loro club, il Tamia Club di Milano, ma li le ragazze come me non ci abitavano. Invece c'era una residenza di riferimento, dove abitavano le numerarie, che si chiamava Alzaia. Ed è avvenuto lì, per me, l'inizio del cilicio e della disciplina. La numeraria che mi aveva seguito in tutto il percorso mi ha portato in camera sua, in bagno. Li c'erano degli armadietti, dove tenevano questi oggetti. Mi ha detto: ‘Le numerarie, per volere del Padre, devono compiere ogni giorno la mortificazione corporale'. Mi ha spiegato come indossare il cilicio e come usare la disciplina. Io la ascoltavo tra il divertito e lo sconvolto, ancora non potevo crederci. Mi disse che bisognava essere disposti a tutto, con tutti i corollari; disse che il cilicio si ispirava alla corona di spine di Gesù, si giustificò dicendo che sono cose che si sono sempre usate nella storia della Chiesa anche se adesso un po' meno che in passato. Mi ha dato il cilicio e la disciplina, me li ha regalati. Forse ce li ho ancora, non so; o forse li ho buttati via, in un momento di rabbia. La disciplina è formata da una corda intrecciata e annodata, che forma un manico da cui si dipartono tre o quattro funi intrecciate con nodi. Tra noi numerarie si diceva che il Padre Josemaría avesse inserito dei chiodi nella frusta, delle lamette da tagliole per farsi più male. In altri casi c'era chi inseriva, per farsi ancor più male, delle palline di plastica".
Amina parla del cilicio. Ecco come descrive questo strumento medievale di autopunizione. "È una cintura di metallo composta da vari semianelli, ognuno dei quali ha delle punte, e va posizionata nella parte superiore della coscia. Si può regolare e stringere come si vuole, ovviamente dipende dalla generosità della persona se si mette stretto o largo. A me sono rimaste le cicatrici, le ho ancora. Adesso si vedono un po' meno, ma quando le hai fresche sono orrende da vedere. (…)".
Dai diciassette anni in poi, Amina ha iniziato a portare il cilicio tutti i giorni. "Sì, lo portavo due ore al giorno, e ti assicuro che fa male. Finché lo metti mentre studi, pian piano la gamba perde sensibilità. Per cui mentre stai seduta è ancora sopportabile, ma quando ti alzi o cammini fa veramente male, dà veramente fastidio. Poi anche lì c'era un'altra mortificazione in più da sopportare: cercare di camminare senza far vedere che portavamo il cilicio. All'esterno non doveva saperlo nessuno, tutti quelli che erano fuori dalla nostra cerchia non lo sapevano. Non lo sapevano neanche la maggior parte delle soprannumerarie".

Dipendenza psicologica
La mortificazione corporale in realtà è un aspetto marginale del processo di negazione e umiliazione dell'io: è solo la trasposizione fisica di un complesso percorso psicologico di autoannientamento.
"La chiave della sottomissione della volontà delle persone nell'Opera è questa: ti insegnano a dubitare di te stessa e della tua capacità di giudizio e a fidarti solo di quello che ti viene dai direttori e dall'Opera. Passo dopo passo ti dimostrano che non puoi essere una buona guida di te stesso. Devi seguire le indicazioni dei superiori che sanno meglio di te qual è il tuo bene perché hanno la famosa ‘grazia di stato'. Se non obbedisci e segui ciò che ti dice il tuo criterio di giudizio sei solo un superbo e un presuntuoso, non puoi che sbagliare strada. Il motto è ‘chi obbedisce non può mai sbagliare'. Devi rendere conto ai superiori di ogni momento della giornata, di ogni azione, di ogni iniziativa. Mensilmente devi sottoporre alla loro approvazione il ‘planning settimanale', uno schema della settimana in cui giorno per giorno e ora per ora vanno inserite le attività abituali previste. Devi chiedere il permesso per ogni attività che sia appena un pochino più straordinaria. Ricordo che all'inizio dovevamo chiedere il permesso anche per lavarci i capelli, non ho mai capito perché. Lentamente diventi dipendente dall'Opera e dai superiori, non ti senti più in grado di prendere decisioni autonome, qualora ne prendessi il senso di colpa affiorerebbe immediatamente. Ti dicono continuamente che la libertà è una delle nostre passioni dominanti, che facciamo le cose perché ne abbiamo voglia, ma appena esci un pochino dal tracciato le reprimende non si fanno attendere".
In quest'ottica, particolarmente inquietante è l'argomen-to del controllo delle letture. "I membri dell'Opera e specialmente i numerari e gli aggregati, che sono più controllati, non possono leggere quello che vogliono. Ti viene detto che i libri sono come il cibo dell'anima, devi stare attento a quello che mangi perché potresti ingerire qualcosa di velenoso. Quello che leggi potrebbe avvelenare o uccidere la tua anima. Prima di leggere un libro o un testo scientifico o un saggio devi chiedere il permesso e controllare sulla Guida bibliografica che classificazione ha. In realtà si tratta di uno strumento simile all'antico Indice dei Libri Proibiti, oramai da tempo abolito dalla Chiesa. Su questa guida ogni testo viene classificato con un numero che va da 1 a 6, dal meno al più ‘pericoloso'. A questa prassi si devono sottomettere tutti, che siano studenti liceali o professori universitari, nessuno deve sentirsi abbastanza scaltro o intelligente da non correre alcun pericolo. Se il libro ha classificazione 1 o 2 puoi leggerlo tranquillamente, se ha 3, la lettura va valutata dai direttori del tuo Centro, con un 4 o 5 devi avere il permesso dei direttori e del Vicario Regionale, il 6 richiede il permesso esplicito del Prelato.
"Ricordo un episodio che mi lasciò di sasso. Era il primo anno che abitavo in un Centro dell'Opera, avevo appena iniziato Lettere classiche all'università e frequentavo un corso di latino. Il tema era la letteratura latina del primo cristianesimo e i miei testi erano esclusivamente brani di alcuni Padri della Chiesa, tra cui S. Agostino e S. Ambrogio. Considerati gli autori e gli argomenti ritenni non fosse necessarie chiedere il permesso, il giudizio positivo mi pareva evidente. Quando se ne accorse la direttrice mi fece una scenata violentissima, dicendo che non potevo permettermi assolutamente di prendere alcuna iniziativa, che nessuno si era mai permesso una cosa simile e che S. Agostino avrebbe anche potuto scrivere qualcosa che non andava bene. Queste ultime, sono parole testuali, sono rimaste impresse a fuoco nella mia memoria".
C'è uno strumento preciso, però, che permette pian piano che siano gli stessi membri a regolare i propri pensieri e le proprie azioni secondo il criterio e le direttive dell'Opus Dei: si chiama ‘buono spirito'.
"Questo aspetto è il più sottile ed è quello che permette di capire perché molti membri dell'Opera non si rendono conto di essere manipolati e di essere stati privati della libertà, anche i più intelligenti e con più doti umane, anche quelli che all'apparenza paiono delle personalità forti e determinate. Durante la formazione continua della coscienza, che nell'Opera non finisce mai, i direttori giorno dopo giorno, anno dopo anno, ti mettono di fronte un modello a cui adeguarsi, che viene chiamato ‘buono spirito' o ‘buon criterio'. In pratica consiste nel modo perfetto di vivere nell'Opus Dei, che si evince dalle indicazioni del fondatore, dei suoi successori, dall'esempio di vita dei primi membri storici. Pian piano ti viene indicato tramite i mezzi di formazione e la pratica delle correzioni fraterne che comportamenti assumere situazione per situazione per fare in modo che ogni tuo gesto sia ‘di criterio' e guidato dal ‘buono spirito'. Bisogna sempre chiedersi per esempio: che cosa farebbe nostro Padre in questa situazione? E agire di conseguenza. In questo modo dopo un po' non sarà più necessario che i direttori continuino a ricondurti nei ranghi, perché sarai tu stesso ad autoregolarti, a chiuderti in certi margini, in fondo, a essere il carceriere di te stesso. È per questo che i vertici dell'Opera possono permettersi di dire che tutti i membri sono liberi di fare quello che ritengono più giusto secondo coscienza, e che i membri stessi alla fine ne sono convinti. Ma è una libertà fittizia, una prigionia peggiore che essere fisicamente impediti a muoversi. È un carcere mentale fatto di comportamenti obbligatori e sensi di colpa che ti perseguita continuamente e da cui anche i membri che trovano la forza di lasciare l'Opera tardano molto a liberarsi, a volte qualche anno, a volte decenni, talvolta, purtroppo, mai. Io ci ho messo cinque anni". (…)