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MA LA CRISI DELLA FAMIGLIA NON DIPENDE DA UNA LEGGE

 di Ortensio da Spinetoli

 ADISTA n° 21  del 17.3.2007

 

Il dibattito che si è acceso in questi giorni in campo cattolico ha assunto toni esasperati, e com'era certo da aspettarsi, sono scesi in lizza lo staff della Cei, alcuni vescovi alla spicciolata - per fortuna non tanti - e si è scomposta persino la Santa Sede.

Lo stesso sommo Pontefice poco tempo fa si è trovato nella cattolica Spagna, dove il governo ha varato leggi ancor più "innovative" nell'ambito della famiglia, ma si è guardato bene dall'avanzare osservazioni o riserve, mentre non lascia passare occasione per intervenire contro il ventilato progetto italiano sulle "convivenze di fatto". Sarà che in Italia, Paese che lo ospita da circa trent'anni, si sente come a casa propria e può permettersi più libertà.

 

1. Si stenta proprio a capire come la gerarchia non si renda conto che sta impegnandosi in una falsa battaglia, come se la salvezza o la rovina della famiglia, come l'eliminazione di un qualsiasi disordine che può affliggere la convivenza umana, possa dipendere da una legge o dall'altra.

Difatti la storia è cambiata e la società non è più cristiana come una volta, ma non è neppure pagana, come alcuni predicatori d'occasione si ostinano a conclamare. E' semplicemente laica. Da quando gli eredi dell'Illumini-smo hanno preso coscienza dei benefici della razionalità, hanno capito di potere organizzare la loro vita privata e pubblica in base ai dettami di questa luce, di questa forza interiore eguale in tutti. Lo "stato confessionale", invece, più che sulla ragione si basa sui i principi, sulle norme provenienti da un credo religioso, cristiano o islamico, che è proprio di alcuni gruppi. Due mondi, due metodologie, due strategie che non hanno ancora imparato a convivere poiché ognuna pensa di volere o dovere sopraffare l'altra, mentre in realtà potrebbero integrarsi a vicenda.

 

2. La storia sta a dimostrare che l'intolleranza è stata grande da entrambe le parti, ma attualmente, almeno in Italia dove sono scese in campo (per i loro intenti o interessi) le forze politiche, l'intransigenza è arrivata al parossismo. Sembra che si sia tornati ai tempi delle guerre di religione, tristemente famosi.

Anche allora, come adesso, si accampavano ragioni più pretestuose che effettive. Gli uomini di Chiesa, con i loro adepti, da una parte mostrano una palese quanto ingiustificata diffidenza verso le attitudini naturali dell'uomo, ritenuto incapace di stabilire le regole di un giusto modo di vivere; dall'altra vorrebbero che le loro convinzioni religiose entrassero nel codice della nazione, che riguarda credenti e no.

Nessuno vuole o può negare la superiorità o sublimità del messaggio evangelico, e di conseguenza dell'idea-le cristiano. Solo che si tratta di un proposito, di una proposta, non di una legge. Il vangelo è un annunzio di bene, una segnalazione operativa da capire e nel caso da accogliere, ma liberamente, non sotto pena di sanzioni o peggio di condanne. E, se per caso l'incidenza cristiana si rivelasse carente, è inutile far ricorso alle imposizioni legislative, ai "concordati", alle contrattazioni partitiche; è segno che sono venuti meno i cristiani, non le leggi cristiane. Qualcosa non è andato per il verso giusto e ciò impone di ricominciare da capo, da una nuova evangelizzazione.

 

3. Non basta mettersi a fare appello ai "principi fondamentali", ai "valori non negoziabili" (ammesso che sia facile individuarli) per cambiare la storia e rendere più cristiana la società; occorre adoperarsi a convincere gli uomini ad adottarli. La Chiesa (la gerarchia) dovrebbe cominciare a chiedersi perché la gente non è più cristiana, perché la sua predicazione interessa sempre meno persone, perché soprattutto non fa presa sulle nuove generazioni che riempiono gli stadi, le discoteche, le strade e non entrano nella Casa di Dio.

Ci sarà una ragione? È un interrogativo che già da tempo avrebbe dovuto esser preso in considerazione. La società cambia e rapidamente; la Chiesa se ne sta a guardare, ad attendere il miracolo che non viene o a inveire contro l'immoralità, il permissivismo, la corruzione, invece di pensare con l'aiuto di qualche persona competente ad aggiornare la sua catechesi, le sue attività pastorali. Quando la società va male le autorità cristiane pensano che la cosa più urgente da fare sia quella di intervenire con uno scritto ufficiale (un'encicli-ca, una lettera pastorale) in cui il problema venga ben analizzato prospettando tutte le possibili soluzioni. E si crede che sia stato fatto tutto ciò che era necessario!

 

4. Se la Chiesa è convinta, e non può non esserlo, che il matrimonio sia una scelta seria e che la vita sia un bene, un dono al di sopra di ogni altro, deve rivolgersi non ai politici ma ai propri fedeli, far riemergere nel loro animo il senso di responsabilità e di sommo rispetto per le persone, piccole (compresi gli embrioni) o grandi che siano.

Certo, la pastorale - tanto più quella giovanile - non è facile, ma la Chiesa potrebbe pur provare a chiedersi perché la sua predicazione non è capita, accettata e lascia indifferenti i più. Potrebbe farsi spiegare qualcosa da quanti vivono in mezzo alla società più a fondo dei suoi preti che, se non fuori, si trovano ai margini del consorzio umano.

 

5. In verità Papa Giovanni, con i sostenitori dei Concilio, aveva intravisto certi "segni" dei nuovi tempi che si affacciavano all'orizzonte, ma la sua voce è rimasta quasi inascoltata poiché poco tempo dopo di lui ha ripreso corso il trionfalismo che ha dominato per molti anni e dura tuttora.

Purtroppo, il futuro non appare roseo; si cerca di sopravvivere, tenendo in piedi alcune parvenze di cristianesimo; ci si culla ancora sulle illusioni, ma i problemi non sono risolti.

La famiglia tradizionale è ormai scomparsa nell'occidente cristiano. Invece di provare a capire il fenomeno, a vedere i possibili risvolti nel piano di Dio (chiedersi se non possano avere il suo compiacimento le nuove forme di rapporto matrimoniale), ci si perde in battaglie inutili, fomentando confusioni e paure. Per di più in nome del vangelo, che non è un manuale terroristico, ma solo un auspicio di bene.

 

6. Bisogna ridare a Cesare, alla società civile, alla Stato laico, tutta la libertà di gestire le sue incombenze; bisogna riconoscere ai cristiani tutta la libertà di vivere e testimoniare la fede anche pubblicamante, ma senza indebite forzature.

Gesù non ha lanciato nessuna crociata, né contro i giudei, né contro i greci, né contro i romani; ha solo proposto agli uomini di buona volontà un nuovo genere di rapporti fondati sull'uguaglianza, l'amicizia, la fratellanza.

Il cristianesimo non è un codice, ma un'esperienza di vita, un "esempio" da seguire, una "strada" da percorrere (Gv 13,15; 14,6), sempre liberamente. "Se vuoi", disse Gesù al giovane aspirante che gli chiedeva cosa fare per ereditare la vita eterna (Mt. 19,21). E tale sarebbe, se dovesse parlare, la sua risposta anche oggi.

 

* frate cappuccino, biblista