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IL DIRITTO DI MORIRE DI FAME

Chiara Saraceno

La Stampa 19-9-2007

 

Sarebbe facile trovare contraddizioni sorprendenti nel documento vaticano che nega la liceità morale di qualsiasi atto ponga fine a una vita anche ridotta allo stato vegetativo. La più vistosa riguarda l’eccezione concessa in casi di «regioni molto isolate o di estrema povertà» che non consentirebbero l’alimentazione e l’idratazione artificiale. Non solo sembra che la vita umana abbia in questi casi meno valore, non debba essere difesa a ogni costo. In questa eccezione si nasconde il dilemma che si pretende di risolvere una volta per tutte: che fare quando è la tecnica a mantenere forzatamente in vita al di là della vita stessa, quando un processo avviato a fini curativi prosegue al di là dello scopo iniziale. I poveri, i molti che vivono lontani da ogni ospedale tecnologicamente avanzato, rischiano di morire anche quando potrebbero essere curati (è questo il vero scandalo); ma certo non rischiano d’essere mantenuti in vita anche quando sono ridotti allo stato vegetale. Non è chiaro neppure come un essere in stato vegetale possa far valere una delle altre eccezioni previste: quando «l’alimentazione e l’idratazione artificiali possano comportare per il paziente un’eccessiva gravosità o un rilevante disagio fisico».

Al di là delle contraddizioni e dell’inconciliabilità delle diverse posizioni su che cosa s’intenda per vita umana, sul suo inizio e sulla sua fine, la questione di quando cessare il mantenimento in vita a ogni costo, quindi anche dell’alimentazione forzata, pone questioni molto simili a quelle che si sono presentate in occasioni che non avevano a che fare con la definizione di vita umana, ma con problemi di libertà e dignità individuale anche in condizioni estreme. Ricordo due casi scoppiati in Inghilterra, patria del diritto che sta alla base d’ogni altro diritto civile: l’habeas corpus, il diritto alla propria integrità fisica. Il primo caso riguarda alcune femministe inglesi incarcerate all’inizio del ’900 con l’accusa di terrorismo in seguito alle loro azioni violente per rivendicare il diritto di voto. Quelle che in carcere fecero lo sciopero della fame vennero sottoposte ad alimentazione forzata suscitando pubbliche proteste perché tale procedimento si configurava come una violazione sia della libertà interiore delle prigioniere che della loro integrità corporea. Anche una prigioniera ha diritto a non essere violata nei confini del proprio corpo.

Lo stesso principio negli Anni 70 fu alla base d’un drammatico conflitto tra i prigionieri per terrorismo irlandesi nelle carceri inglesi e il governo inglese, allorché i primi iniziarono uno sciopero della fame di massa contro le condizioni di prigionia e si trovarono a dover combattere anche contro l’alimentazione forzata. I prigionieri irlandesi ottennero, sulla base del principio dell’habeas corpus, il diritto a non essere alimentati contro la loro volontà e quindi anche a morire. Non risulta che l’episcopato inglese e lo stesso Vaticano appoggiassero il governo di Londra in nome del principio dell’obbligo a non lasciar morire di fame. Anzi, gran parte della Chiesa irlandese era dalla parte dei prigionieri.

Perché non possiamo concedere a un essere umano che non ha altra colpa che quella di non poter più essere tale il diritto a non essere alimentato forzatamente concesso ai prigionieri terroristi irlandesi e rivendicato prima di loro dalle prigioniere femministe inglesi? Nutrire gli affamati è un obbligo umano fondamentale. Ma non prevaricare su chi - per circostanze diverse - non è in grado di rifiutare ciò che non vuole è un obbligo altrettanto forte. Almeno per chi, in possesso delle proprie capacità intellettive, dichiara esplicitamente di non voler più essere nutrito e tenuto in vita in casi di riduzione allo stato vegetale o di gravissime sofferenze prodotte dalle stesse procedure di mantenimento in vita, cessare l’alimentazione e idratazione forzata, e più in generale cessare l’invasività delle macchine, non è solo un atto di carità e forse un gesto estremo di autentico accanimento. È anche il rispetto del principio dell’habeas corpus, uno dei diritti di base della civiltà occidentale. Perciò, più che discutere di eutanasia, occorre urgentemente porre la questione del testamento biologico.