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<<Art. 32 2° c. Costituzione: eutanasia e testamento biologico, una battaglia laica di civiltà e libertà>>

Salvatore Tonti

Il diritto di morire

 

La morte e la vita: una cosa sola

 

Parlare della morte e del morire non piace alla maggior parte delle persone. L’atteggiamento oscilla tra la “scaramanzia” e il “fatalismo”.

 

Eppure, come vedremo, la morte non è da considerare come un momento separato dalla vita, anzi, ne è una costituente essenziale, a partire dal piano “biologico”.

 

Dobbiamo accettare il fatto che, biologicamente, siamo esseri finiti e che, senza la morte necessaria, la terra sarebbe insopportabilmente sovraffollata e la vita non potrebbe rinnovarsi. Ne abbiamo già parlato il 5 giugno, a proposito del libro “L’intelligenza della vita”, di Giorello e Veronesi.

 

Come osserva il teologo Hans Kung: <<il morire è quella dimensione che concorre a determinare tutte le fasi e le decisioni della vita. L’uomo che non rimuove la propria morte ma l’accoglie consapevolmente, vive in maniera diversa, ha una diversa disposizione nei confronti della vita. >>

 

La psichiatra Elisabeth Kűbler Ross, che per anni ha lavorato con i morenti, lasciandoci una preziosa testimonianza umana e scientifica della dimensione psicologica del morire, ha scritto:<<Credo che le due cose, la vita e la morte, non possano essere distinte. Le persone che hanno saputo vivere e che hanno veramente vissuto non temono la morte. Al contrario, le persone che non hanno mai vissuto hanno il terrore di morire .>>

 

Il diritto di morire, una questione di limiti

 

Ma chiarito ciò, che cosa significa, in concreto, “diritto di morire”?

 

E’ un accostamento singolare quello tra due termini – diritto e morte -, che possono sembrarci antitetici, in quanto, come dice il filosofo Hans Jonas:<<comunemente si aspira a dei diritti per promuovere un bene, mentre la morte è considerata un male o qualcosa a cui bisogna rassegnarsi.>>

 

La morte è poi l’abbandono di ogni rivendicazione e di ogni pretesa nei confronti del mondo; morendo noi cessiamo ogni rapporto con la dimensione dell’esistenza regolata dal diritto. Allora quando possiamo parlare di un “diritto di morire”?

 

Quando, secondo Jonas, “in virtù di particolari circostanze”, il mio morire diventa oggetto di scelta, quando il diritto di vivere si muta in dovere di vivere. Come nel caso, p.es., del malato terminale incosciente.

 

<<In questo caso – afferma il filosofo – altri (in quanto “società”) potrebbero avere anche un diritto di far valere contro di me il mio dovere-di-vivere, impedendomi p.es. di morire prima del dovuto, anche qualora io lo voglia. Come la mettiamo se la morte di un uomo viene sottoposta al controllo umano?>> Se la volontà di quest’uomo è quella di morire per non tribolare più, non andrebbe forse rispettata? E’ qui che sorge e si fa concreta la questione del diritto di morire.

 

Una questione questa che pone un problema di “limiti”, di “confini”: limiti del diritto; limiti della democrazia; limiti, come vedremo, della cultura medica.

 

Scrive il  filosofo Fabio Giovannini:<<Da parti diverse si chiede un diritto che limiti>>, consentendo cioè il rifiuto dell’accanimento terapeutico o limitando, all’opposto, l’autodeterminazione del paziente anche riguardo la propria morte. <<Nello stesso tempo emergono i limiti del diritto  stesso, che non è in grado di regolare aspetti così intimi e individuali>>, come il rapporto del singolo individuo con la sua singola morte. Il concetto di limite viene poi ancora associato a quello di diritto da chi chiede una discussione sull’eutanasia non condizionata ideologicamente e la definizione non più procrastinabile di regole e norme: <<il diritto al limite>>, cioè a poter dire: basta, fermatevi!

 

Secondo Giovannini, il diritto di morire fa emergere il problema, di <<una medicina interpretata come sfida alla morte a qualsiasi costo>>. Opinione condivisa anche da Hans Jonas, secondo il quale <<spesso la tecnologia moderna, anche quando non può provocare la guarigione o un sollievo o una proroga, anche breve, di vita degna di essere vissuta, è tuttavia in grado di procrastinare la fine oltre il punto in cui la vita ha ancora valore per il paziente stesso, anzi oltre il punto in cui questi è ancora in grado di darle valore>>, perché, p.es., si trova  in stato vegetativo permanente, quindi in uno stato di assenza di coscienza e, perciò, di impossibilità di esprimere una volontà.

 

Sancire un  diritto di morire significa che a monte vi deve essere un’autorità pubblica che stabilisca i confini e decida quali siano i limiti. E’ una questione seria perché, dice Giovannini, siamo:<< in una situazione che rivela gravi carenze dei meccanismi democratici e incapacità da parte delle rappresentanze politiche, che delegano di fatto ai giudici (o alle iniziative di singoli medici o cittadini) la prefigurazione di nuove regole>>.  Sono passati diciannove anni da quando Giovannini scrisse queste parole, ma la cronaca recente del dibattito sull’eutanasia e i temi bioetici più sensibili, ci segnala che la situazione non è affatto cambiata da allora, anzi per certi aspetti è anche peggiorata. Si pensi allo smarrimento, nelle culture politiche oggi presenti nel nostro Parlamento, del senso della laicità dello Stato.

 

Quanto ai malati in stato vegetativo permanente, il quadro è reso più complesso dalle richieste dei medici di utilizzare i corpi a scopo di trapianto o di sperimentazione. Non è più solo un problema di eutanasia quindi  ma anche un problema di tutela del corpo del malato terminale da interventi basati su una <<concezione del corpo morente come “serbatoio” di organi o involucro per esperimenti>>.

 

Le aberrazioni del modello clinico della medicina

 

Lo sviluppo tecnico-scientifico della medicina ha sicuramente posto nuovi problemi: di carattere filosofico, etico ma anche economico, sotto il profilo dell’accesso alle risorse e della loro equa distribuzione, in una situazione che è più spesso di scarsità che di abbondanza.

Secondo Hans Jonas: <<il caso del paziente moribondo è solo l’estremo di uno spettro di possibilità della medicina che - combinate al potere istituzionale degli ospedali e sostenute dalla legge-, producono situazioni nelle quali occorre chiedersi se i diritti del paziente, incluso il diritto di morire, vengono tutelati oppure violati.>>

 

E’ un nuovo diritto di morire che si presenta a noi, in una situazione di medicalizzazione forzata della morte e di ospedalizzazione del morente. << A causa delle inusitate modalità di trattamento volte soltanto a mantenere in funzione l’organismo, questo diritto viene evidentemente a cadere  sotto il generale diritto di accettare o rifiutare un trattamento.>> (Jonas)

 

Siamo di fronte, da un lato, ad una questione di riconoscimento dell’autonomia del malato, dall’altro, di definizione di regole giuridiche adatte alla complessità dei nuovi problemi in campo. <<Lo sviluppo tecnologico – afferma Giovannini – richiede nuove regole e meccanismi, giuridici e pratici, di controllo, in una parola nuovi codici. In questo scenario il problema dell’eutanasia non nasce dalle richieste di una società che vuole eliminare categorie di persone divenute improduttive per età o per salute, ma sorge viceversa dalla richiesta sempre crescente di un diritto alla buona morte che viene da persone preoccupate del proprio destino e del proprio futuro.>>

 

Occorre tenere conto che, nelle società sviluppate, l’affrancamento dal bisogno è una realtà ormai generalizzata o lo è almeno per una grande maggioranza delle persone, le quali ora rivendicano  una migliore qualità del vivere, che significa anche <<morire meglio, costruire con la morte un rapporto cosciente e critico, non dominato da paure ossessive, rimozioni irrazionali o illusioni metafisiche.>>.

 

La disumanizzazione della morte e della vita

 

Prima di  passare all’ultima parte della mia relazione, vorrei dedicare un piccolo spazio alla riflessione sull’eutanasia di Franca Ongaro Basaglia.

 

Come avete già capito, si tratta della compagna di Franco Basaglia; con lui esponente dell’anti-psichiatria italiana, co-autrice della legge 180/’78, protagonista con lui del Movimento di Medicina Democratica, fondato nella metà degli anni 70 del secolo scorso da Antonio Maccacaro.

 

A proposito del legame tra vita e morte, vi riporto le parole che Franca O.Basaglia scrisse, nel 1972, nella introduzione al libro dello psichiatra argentino Gregorio Bermann: “La salute mentale in Cina”: <<Il modo più valido di combattere la malattia (o la menomazione) è credere  - e avere motivi per credere – nella vita. Avere una corretta concezione della vita, dei rapporti fra gli uomini; avere un progetto che vada oltre la difesa dei propri interessi  e coinvolga il significato di una umanità umana non ancora conosciuta; non essere malati di un significato sbagliato della vita, dà un un senso anche alla lotta contro la malattia che diventa un atto di coraggio in nome del progetto che unisce. Non si teme la morte se la vita ha significato. E’ nel vuoto della vita che la morte fa paura, perché la vita morta non riesce a giustificare e legittimare la morte>>.

Sono queste, per me, parole forti e significanti, che risuonano ancora vivissime e fresche come fossero state pronunciate appena  ieri.

 

La Basaglia si chiede nella sua riflessione sulla eutanasia che cosa stia spingendo il diritto a varcare le sue vecchie frontiere. E’ una questione di inadeguatezza delle regole codificate, a fronte delle nuove conoscenze scientifiche che richiedono la ridefinizione dei confini? Oppure è un’incapacità del diritto di accogliere e fare propria la multiforme varietà dei diritti che il soggetto ha conquistato nei più disparati ambiti della società civile?

 

Da cosa nasce, è la sua domanda, la non coincidenza tra “diritto” e “diritti”?  Da un lato, vi è l’esigenza di ricondurre alla sfera regolatrice del diritto spazi sempre più ampi della vita delle persone; dall’altro, si osserva una certa difficoltà a garantire l’attuazione dei diritti già conquistati. Perché succede questo?

 

L’ipotesi che Franca O.Basaglia fa è che il diritto si trovi a fare i conti con “vecchi modelli culturali e operativi” che furono costruiti in un contesto di disuguaglianze sociali e quindi sono incapaci di dare <<risposte adeguate alla conquista universale dei diritti delle persone  che essi  dovrebbero tradurre in pratica.>>

 

La necessità di ampliare la sfera di influenza del diritto deriverebbe, dunque, dalla necessità di fornire alle persone quelle risposte nuove che i tradizionali modelli culturali, professionali, organizzativi non sono in grado di dar loro.

 

Entrando più addentro alla questione che stiamo trattando, Franca O.Basaglia contesta  la validità dell’espressione “eutanasia passiva”, come farà anche quasi vent’anni dopo Luigi Veronesi nel suo libro “Il diritto di morire.”

 

Secondo lei,  tale termine  non esprime né una esigenza né una pretesa del malato terminale, ma rimanda in realtà a una situazione che costituisce << il segno del limite del potere della medicina sulla malattia.>>  L’espressione “eutanasia passiva” sposta, incongruentemente, la nostra attenzione su un atto e su una scelta che attribuiamo al malato, <<mentre essi fanno parte del processo terapeutico che appartiene alla cultura medica.>> Per la Basaglia , dunque, è più corretto parlare di “rifiuto dell’accanimento terapeutico”, così da <<inglobare nella responsabilità dell’atto la “terapia” e il suo inutile eccesso.>>

 

Il fuoco del ragionamento si sposta in tal modo sul problema del modello clinico della medicina.Il nucleo solido di tale questione è <<la difficoltà o il rifiuto da parte della medicina di abbandonare schemi di interventismo a oltranza.>> Una medicina che così genera false speranze, fascinazioni, rassicurazioni ingannevoli, che coinvolgono lo stesso medico, grazie a <<una tecnologia tanto più parcellizzante quanto più altamente sosfisticata, sempre meno attenta all’uomo, alla sua sofferenza, alla unità della sua esperienza di vita e di morte.>>.

 

Una medicina che non vuole riconoscere il fallimento

 

L’ambiguità di ogni discorso etico sull’eutanasia  deriva perciò, da un lato, dall’ambivalenza di una cultura medica che non vuole riconoscere i propri limiti, che  - nelle situazioni estreme dei malati terminali - afferma di lottare per la vita ma ottiene il risultato di una “vita morta”; dall’altro dalla domanda – che l’illusione di onnipotenza medica alimenta – dei parenti dei morenti di utilizzare gli strumenti meccanici per continuare a sperare in un ritorno a una “vita viva”.

 

Che cosa intendo, qui, con tali ossimori: vita morta, vita viva? La vita viva è relazione, possibilità di provare emozioni, sentimenti e fare esperienza; la vita morta è assenza  di relazione, di emozioni, di possibilità di esperienza. Ha scritto Marc Oraison - medico, psicanalista, teologo -, già nel 1971: << Ciò che è specificamente umano, per una conoscenza scientifica moderna, non è più soltanto la struttura molecolare o il funzionamento biologico degli organismi sempre più complessi che formano l’animale superiore, ma è, precisamente, il mondo assolutamente nuovo e immenso della relazione: relazioni intersoggettive, molteplici e reciproche; relazioni fra comunità con le loro mille modalità e le loro considerevoli di varietà di intensità emozionale: ecco quanto costituisce il caratteristico fatto umano.>>

 

Il bisogno di una “eu-thanatos”, una morte buona e dolce, secondo la Basaglia è il <<segno della esigenza angosciosa di difendersi dalla disumanizzazione della tecnologia medica, giunta a disumanizzare morte e vita. Se si avverte il bisogno di sancire giuridicamente il diritto di morire “di una morte naturale” significa che la terapia è arrivata a punti inaccettabili di intrusione nella vita dell’individuo e di “innaturalità”. >>

 

Giova, a tal proposito, ricordare che terapia deriva da “therapeia” e da “therapeuo”, che significano “servizio”, “rendere un servigio, servire”. Ma in realtà la medicina ipertecnologica è arrivata ad “asservire” l’individuo malato, sottomettendolo sulla base di un ricatto implicito: tu rinunci  alla tua autonomia in cambio di una promessa di guarigione che solo io ho il potere di darti.

 

Una morte naturale significa poter morire in pace, non essere sottoposti a interventi  che umiliano la nostra umanità, la nostra dignità e degradano ancor più la bellezza del volto umano (ricordate Isaia 52, 14 a proposito dell’Uomo dal volto sfigurato dalla sofferenza…); interventi che servono solo a placare l’ansia di fare  del medico, a tacitarne  la paura del fallimento e della sconfitta. La medicina, in tal modo, dice la Basaglia :<<cancella il momento della morte come esperienza, comunicazione, dialogo tra coloro che ne sono coinvolti, senza riuscire comunque a prolungare la vita del malato.>>

 

Una  nuova etica della cura

 

Questo pensiero della Basaglia ci introduce al tema finale della mia relazione: una nuova etica della cura, centrata sulla persona, nel trattamento del morente, che in certa misura ha a che fare con ciò che Francesco Bacone definì “eutanasia interiore” cioè la preparazione spirituale al morire. Il mio tempo è purtroppo scaduto e potrò solo accennarvi, ma spero che un giorno ci sia un’occasione per discuterne più estesamente come il tema merita.

 

Tra il 2001 e il 2003, l’ASSR, Agenzia per i servizi sociosanitari regionali, ha condotto una ricerca finalizzata, coordinata dal prof. Vittorio Ventafridda, direttore Associato di Anestesiologia dell’Istituto Nazionale per la Cura e lo Studio dei Tumori di Milano, sui bisogni clinico-assistenziali dei malati in fase avanzata o terminale, così come percepiti dagli operatori (professionisti e volontari) dei centri di cure palliative.

 

E’ risultato che “ricevere rispetto, essere trattato con dignità” è sentito come uno dei bisogni più rilevanti dei pazienti dal 99,3 % degli operatori; “una buona comunicazione  tra paziente e operatori” dal 96,8 %; “l’espressione di emozioni e sentimenti” da oltre il 90 %; L’89,7 % dei professionisti ha inserito tra i bisogni percepiti come più rilevanti: “l’essere abbracciato, accarezzato, toccato con tenerezza”.

 

Le emozioni non sono dunque un’interferenza nel lavoro di cura, come scrive Vanna Iori nell’ultimo numero della rivista Animazione Sociale.

 

E, a proposito della tenerezza, Micaela Filippini nel suo articolo “L’arte di disporsi alla tenerezza” - all’interno dell’inserto nella stessa rivista su: “Legittimare le emozioni nel lavoro di cura” -, scrive: <<Attraverso la disposizione interiore alla tenerezza si compie quella condivisione di destino che permette all’operatore di corrispondere alle esigenze più profonde dell’altro e, così facendo, realizzare l’essenza del etica del gesto di cura. I gesti della cura sono intenzionali, cioè direzionali e intenzionati: il gesto di tenerezza è un ponte, una via verso l’altro. Per una cura autentica diventa importante <<imparare nuovi gesti>>, che siano visibili, tangibili. Come il sorriso, la carezza, lo sguardo. Sono tutti elementi che fanno parte di un volto che esprime l’umanità della persona e ogni singolo gesto può essere rivestito di significati inesplorati. Il gesto che più porta con sé la carica umana  dell’aver cura è fasciare le ferite. Avvolgere in fasce richiama il gesto di una madre, del prendersi a cuore (nel nuovo testamento è l’”epiméleia” contrapposta alla “mérimna”, la cura come ansia del fare, preoccupazione individualista per il futuro, frenesia di possesso, ndr), come fece il buon samaritano davanti all’uomo vittima di aggressione. Immaginando questo evento in un contesto di cura, le fasce assumono una ricca veste simbolica: fasciano, proteggono, curano, stringono, coprono, nascondono la ferita, del corpo e dell’anima.>>

 

A questi significati si richiama l’espressione “cure palliative”: palliativo deriva da pallium, il mantello del viandante, quello del samaritano pietoso. Un mantello di umanità compassionevole ed empatica per trasmettere tutto il nostro calore d’amore a chi sta per lasciarci per sempre.               

 

 

Bibliografia

 

§           Kung Hans, La dignità della morte, Datanews

§           Jonas Hans, Tecniche del differimento della morte e diritto di morire in Tecnica medicina ed etica, Einaudi

§           Lo stesso testoè pubblicato in Jonas Hans, Il diritto di morire, Il Melangolo

§           Veronesi Umberto, Il diritto di morire, Mondadori

§           Rodotà Stefano, Il dolore; La cura; La fine, in La vita e le regole, Feltrinelli

§           Dworkin-Frey-Bok, Eutanasia e suicidio assistito Pro e contro, Edizioni di Comunità

§           Kubler Ross Elisabeth, La morte e il morire, Cittadella editrice

§           Kubler Ross Elisabeth. Impara a vivere impara a morire, Armenia

§           Oraison Marc, Il caso e la vita, Sei editrice, pag. 62-63

§           Laborit Henry, La morte, in Elogio della fuga, Mondadori

§           Giovannini Fabio, Il diritto al limite, in Democrazia e Diritto n.4-5 luglio-ottobre 1988

§           Ongaro Basaglia Franca, ibidem

§           Ongaro Basaglia Franca,  in Gregorio Bermann, La salute mentale in Cina, Einaudi, introduzione, pag. 11-12

§           Iori Vanna, Le emozioni non sono un’interferenza, in Animazione sociale n.8-9 agosto-settembre 2007

Filippini Micaela, L’arte di disporsi alla tenerezza

 

17 ottobre 2007